Stand up tragedy

Il nome Miracle l’ha perseguitata per tutta la vita.

Sono stati i suoi genitori a chiamarla così. (È mai qualcun altro a nominarci?)

Miracle. Miracolo.

Avrebbe preferito nominarsi da sola. Oppure, come in alcune tradizioni di cui non sa niente, avere il potere sociale di rinominarsi da sé. Forse sono culture indiane quelle in cui succede, forse invece la sua è una visione ignorante del mondo: non sa, non conosce, e a dirla tutta non gliene frega niente di conoscere, di sapere.

Miracle, però, una cosa la sa. Non è un caso che in Occidente sia così forte l’oppressione verso chi cerca di rinominarsi. Pensa alle persone trans. Finché ad appiopparti un nome che ti resterà addosso per tutta la vita saranno i tuoi genitori, la tua sacrosanta famiglia tradizionale, allora lo status quo sarà protetto.

Nominare le cose è potere altissimo. Figuriamoci nominare le persone.

Miracle è italiana, coatta figlia di coatti. Il nome americano l’hanno preso da una canzone. 

Non si lamenta, eh, le poteva anche andare peggio. Le sue nonne avevano una il nome più drammatico dell’altra: Maria Pace, e Maria Addolorata. Una originaria del padovano, l’altra della zona di Napoli. Su entrambe è pesato il retaggio cattolico. Maria, la madonna, nelle sue uniche possibili forme: la buona, la musa, la fata, la madre che dà vita, Pace; oppure la triste, la piangente, la martire, la madre che perde il figlio, Addolorata. Contorno di una storia non loro. Mai protagoniste.

A lei invece era toccato Miracle. Un nome che si addice a una che, protagonista, lo è anche se non vuole. 

La ragazza si scambia uno sguardo scocciato con l’immagine che riflette lo specchio davanti a sé, quello del pub in cui lavora. I segni delle dita di qualche cliente ubriaco trasformano un angolo del vetro in un caleidoscopio unto. Toccherà a lei pulire. Per fortuna il lavoro manuale la distrae, la sfoga. Prende la boccia di detersivo blu marca Glassex e si fa bastare la carta igienica, spruzza, elimina. Nessun dito sulla mia faccia, pensa. Neanche indirettamente, neanche su uno stupido specchio. 

Miracle si ravvia i capelli che ha tinto di biondo dopo l’aborto dell’anno scorso. Quella vicenda l’ha infastidita. La signora del consultorio che si è sentita in dovere di tirare fuori la scatola colorata piena di anticoncezionali le ha fatto tornare subito in mente lo Scatolone fabbricone di Dodò e l’albero azzurro, quella trasmissione che guardava da piccolina, e però stavolta nella scatola colorata non c’erano le forbici dalla punta arrotondata e le paillette, c’erano i preservativi da uomo e quelli da donna, c’era la pillola, c’era la spirale, c’era… Miracle non ricorda neanche più cosa ci fosse, ma sicuramente là dentro c’era anche parecchia spocchia. La tipa del consultorio infatti aveva pensato bene che, dato che era rimasta incinta a trent’anni, evidentemente non sapeva usare il preservativo. Neanche per un istante le aveva chiesto se fosse stata una violenza, e perché il ragazzo non fosse con lei e, ancora, se stesse bene almeno. Miracle era rimasta in silenzio. Poi le aveva detto di evitare di consigliare il preservativo femminile alla prossima donna, perché si rompe subito. «Una bella stronzata», aveva aggiunto. Era una che non riusciva più a non difendersi. Ormai le veniva automatico. Miracle era come un cocomero, buccia spessa, polpa rossa e tenera, fastidiosamente piena di semini (strozzatici, avrebbe detto se l’avessero davvero paragonata a un cocomero), insomma: per romperla dovevi proprio impegnarti. 

L’aborto l’aveva fatto in tempo, aveva scoperto subito di essere incinta. Mai avuto tette così grosse in vita sua. Sicuro l’alieno – come soprannominava non troppo affettuosamente quelle cellule in eccesso – doveva essere maschio; era meglio che levasse subito le tende. La pillola non le aveva dato alcun problema, i commenti del ginecologo sì. Il fatto che l’avesse costretta a vedere quello che a tutti gli effetti sembrava un semino nero del succitato cocomero, lo sguardo duro, le domande su che professione facesse o se avesse già avuto altri figli, o altri aborti… tutto questo l’aveva scocciata oltremodo. Alla fine, però, il medico aveva seguito la legge e le aveva concesso, bontà sua, l’esercizio dei diritti per i quali in troppe erano morte nel corso dei decenni e, forse, dei secoli. Aveva preso la pillola abortiva. Che comunque non è davvero solo una. Ne prendi un paio un giorno, poi attendi quarantotto ore. Queste prime servono a far smettere di crescere quel che ti è sbucato dentro senza che tu lo volessi. Le ultime due servono per aiutare il tuo corpo a espellerlo. Nel caso di Miracle, le prime due avevano fatto effetto da sole. Molto connessa al suo corpo – bizzarramente le mestruazioni le venivano solo durante i giorni di luna piena – la ragazza si era trovata a sanguinare copiosamente la mattina stessa in cui si sarebbe dovuta recare a prendere le altre due pillole. Dalle analisi era risultato che non ne avrebbe avuto bisogno, il suo corpo aveva fatto tutto da sé. “L’alieno” non lo voleva neanche lui.

Aveva sanguinato per un mese intero. Per tutto il tempo aveva pensato a quanto sarebbe stato bello poterci fare sopra uno spettacolo di stand up comedy. Avrebbe fatto incazzare un sacco di gente. Avrebbe tentato il dissing con quella puntata di South Park in cui veniva pronunciata la famosa battuta che fa: “Non mi fido di una cosa che sanguina per cinque giorni e non muore”. Io ho sanguinato per un mese intero e sono ancora qui, stronzi. Questo avrebbe detto.

Poi avrebbe bevuto un sorso di qualche alcolico disgustoso, solo per confermarsi la coatta che sentiva di essere.

Invece no. 

Dopo l’aborto niente stand up comedy, e le sue battute di cattivo gusto le aveva riservate ai suoi amici più stretti. La guardavano preoccupati, poi ridevano per farla contenta. Non era una che ci provava gusto a piangere, quello no. Non che fosse una cosa buona. Né cattiva. Era semplicemente così.

Si era fatta bionda, invece. Non c’era un reale motivo. O forse sì. Aveva a che fare con la ricerca di luce. Andava di moda l’armocromia, in quel preciso periodo storico. Lei se ne sbatteva, e davvero nessuno dotato di buongusto le avrebbe consigliato di tingersi i capelli di quel color grano un po’ troppo caldo. O freddo? Non ci capiva niente, Miracle, di armocromia. Sapeva che aveva bisogno di luce, e si era data la luce che pensava di meritare. Artificiale, per carità. Chimica, pure, una tinta a basso costo. Ma per qualche ragione ogni volta che si guardava allo specchio si ricordava che il corpo era il suo, che ne decideva lei, e le veniva da sorridere per lo strano pulcino che era diventata. La verità è che la superficialità le dava il buonumore. La tinta bionda, pure. 

Miracle getta la carta igienica piena di impronte digitali dei clienti del pub nello sciacquone. Il posto dove devono stare le identità che tendono a lasciare segni non voluti, a sentir lei. 

Si guarda ancora una volta allo specchio. Fa un respiro profondo. 

Vuole controllare come sta cicatrizzando il tatuaggio che si è fatta all’interno del labbro inferiore. Lo tira verso il basso, in modo da poterlo leggere nello specchio. 

«Meanness» dice. Cattiveria. Altro che miracolo. I miracoli, Miracle se li fa da sé. 

Qualcuno bussa alla porta. Bussa, e poi bussa più forte. Una voce fuori rivela un grado alcolico sopra il livello di guardia, oltre che darle qualche indizio sulla persona a cui appartiene. È un cliente fisso, amico del proprietario. Un tizio di cinquant’anni che sembra guardarla come se fosse la versione giovane di sua moglie. Miracle prova solo disgusto. Molla di scatto il labbro che risale come una tendina automatica, lo sputo le striscia lungo il polso, tela di ragno rugiadosa di cui si schifa e che si pulisce forte sui jeans. 

Il tipo bussa più forte.

«Se entri ti ammazzo.»

Le parole le escono dalla bocca, se lo sente dire. Nessuna parte di lei se lo rimangia, però. 

Un polpastrello raggrinzito dai troppi bicchieri lavati senza guanti di gomma, mani da vecchia, sfiora un coltello. È rosa shocking, l’ha ordinato su internet perché il colore la faceva ridere. Barbie-ti-ammazzo. Barbie-non-entrare-senza-il-mio-consenso-o-ti-sfondo. Barbie…

«Oh!». 

Il tipo entra davvero. 

Succede in un attimo. 

Quello che era solo un pensiero, una fantasia di violenza agita peraltro relativamente costante nella mente di una che, anche se detesta ammetterlo, fin troppa ne ha subita, diventa realtà. Diventa, per la cameriera, necessità. 

Non un altro stronzo che non ascolti i miei no, fa in tempo a pensare.

Quell’altro invece non pensa, voleva solo pippare un po’, e magari proporla pure a lei, che non si sa mai, magari ci sta, del resto è femmina, è bionda, fa la cameriera quindi figurati se non è pure stupida. Certo. 

La stupida bionda cameriera femmina tira fuori dal nulla un aggeggio rosa shocking e lo infila in un ventre mediamente morbido per tre, quattro, dieci secondi. In realtà non sa quanto tempo sia passato. Sa che non doveva entrare. Il tatuaggio sotto al labbro chiuso troppo in fretta brucia. Il cliente cade per terra. Miracle apre la finestra del bagno. Slancia una gamba lunga dall’altra parte, la seconda la segue. Stanotte scapperà da questa città. 

Del resto, mai fidarsi di una cosa che sanguina per trenta giorni e non muore. Capace che quella cosa i miracoli se li fa da sé. Magari un giorno lo scriverà davvero, quello spettacolo di stand up. Lo chiamerà stand up tragedy. E farà incazzare veramente un sacco, un sacco di gente. 



[Racconto ispirato alla canzone Miracle dei Bambara, band post-punk della Georgia, dove la legge sull’aborto è ancora più restrittiva e violenta che da noi. L’autrice ha voluto immaginare un’anti-eroina, un personaggio sofferente e violento quanto quello che ha subìto. Ogni riferimento a persone o cose realmente esistenti è puramente casuale]

Immagine generata con DALL-E
“a watermelon on a stand up comedy stage, expressive oil painting”