Il lago d'argento

Mio padre aveva deciso che avrei trascorso la fine dell’estate nella casa di campagna degli zii. Era un settembre già novembrino, fosco. Faceva freddo, pioveva spesso. Sul bordo del giardino si era stratificato un muro di fango e le lumache strisciavano fin quasi dentro casa. 

Mi annoiavo. Gli zii erano strani, parlavano poco e si aggiravano per casa con lentezza, pulendo la stufa o aprendo un barattolo per nutrire un piccolo vecchio cane a cui non mi lasciavano avvicinare. Loro figlio Giorgio era tecnicamente mio coetaneo, ma poco avevo da spartire con lui. Grosso e scontroso, senza intelligenza né conoscenza del mondo – né sul piano pratico né su quello culturale – i suoi ripetuti giochi consistevano nel prendere a bastonate gli alberi o spingere palloni dentro una vecchia rete sfondata. Schiacciava gli insetti a piedi nudi e trovava divertente rincorrere le galline dei vicini. Se mi proponeva di prender parte alle sue imprese, dicevo solo: “no grazie”. E allora mi detestava.

«Lo zio dice che sei intelligente. Per me sei solo strano.» diceva.

Una mosca cade in un bicchiere e lentamente affoga, mentre le persone intorno ridono indifferenti, chiacchierano, pranzano.

A nessuno interessa la morte degli altri, se non la tocca di persona. Se la morte non ti toglie qualcosa, a te, individualmente – di qui il perché del lutto – non te ne frega davvero niente.

Così cercavo di spiegare la questione al cugino Giorgio, che dopo essersi sfiancato a schiacciare insetti in giardino, inebetito continuava a calciare il suo vecchio pallone nella porta, senza sembrare di aver capito quello che gli avevo detto. 

“Vale forse meno la morte di una mosca di quella di un uomo?” 

“Sì” rispondeva distratto Giorgio. 

“Io a volte me lo chiedo” dicevo io, mentre lui restava in silenzio, concentrato a prendere la mira.

 

A cena bevevamo la minestra e dopo meno di un’ora si era già a letto. Di sera, al buio, la casa silenziosa odorava di cibo bollito. Un pendolo batteva le ore – e i grandi polverosi tappeti, tutti storti o inclinati, ne attutivano i rintocchi. 

Camera mia, al piano terra, umida, era decorata soltanto da un crocifisso e da un opaco quadro di fiori, con la porta che si apriva direttamente sull’orto. Dopo aver trascorso la giornata a non far nulla, carico ancora di tutte le energie del giorno che non riuscivo a scrollarmi di dosso, non riuscivo a dormire. 

Tiravo su le coperte fin sopra gli occhi. Solo, stretto in un letto non mio, pensavo a mia madre. Mi basterebbe anche solo dormire con te, le dicevo. Essere toccato, accarezzato, avere con te una prossimità fisica – mi basterebbe solo questo, e dormirei tranquillo. Vorrei tanto fossi qui con me. Non potevo dimenticare però la puzza di quel corpo malato, i cavi che vi ci erano attaccati e a quel sapore di urina impresso nei lenzuoli. Vedevo il suo viso bianco, i suoi capelli sporchi.

“Non dirle mai, per nessuna ragione, Povera mamma. La pietà fa più male della ferocia”

Mi diceva sempre papà alla porta della camera d’ospedale, prima che io entrassi. I capelli di mamma ogni giorno più grigi, più sporchi. “Accarezzale i capelli” mi obbligava lui.

Ma nessuno accarezzava i miei da molto tempo. E allora me li accarezzavo da solo, fingendo che quella mano non fosse la mia, ma la sua. Muovevo le dita con dolcezza, partendo dalla fronte e finendo sulla nuca, affondando le unghie nella pelle, come un pettine. E solo così riuscivo ad addormentarmi. Ma molto tardi, a notte già fonda. 

Trascorsero lunghi giorni noiosi in piccoli e stupidi giochi: colpire una lattina col bastone, andare a nutrire i maiali assieme al cugino lanciandogli pezzi di zucca sulla schiena, raccogliere le more, schiacciarle coi piedi sul lastricato e disegnarci delle forme con la punta della scarpa. Un teschio, una capanna, un fiore; una faccia che sorride, una imbronciata. 

La mattina ritrovavo davanti a camera mia i doni degli animali notturni. Un topolino con la pancia aperta, uno scoiattolo e una notte persino un riccio, con gli aculei tutti rotti e l’espressione pensosa. Tirai su quella bestiolina da davanti la porta e la buttai nel cestino della camera, che ormai era divenuto una sorta di baule di animaletti morti, e puzzava.  

Il giorno dopo passò la zia a richiudere il sacchetto e a portarlo via. Io dalla porta del gabinetto la spiai mentre discuteva col marito.

«Secondo te li ha uccisi lui? La sai la vera ragione per cui mio fratello l’ha voluto mandar qui? Perché una volta ha quasi ucciso un cucciolo di gatto. O forse l’ha proprio ammazzato, non ricordo. Dice che la campagna potrebbe insegnargli a trattar bene gli animali. Ma io ne ho quasi paura»

«I bambini crudeli sono dei privilegiati» rispose lo zio. «Perché sfogano la rabbia di tutta una vita da piccoli e così se ne liberano per sempre. Da grandi sono tranquilli: la loro dose di cattiveria verso il mondo l’hanno già seminata»

La zia si allontanò senza dir nulla.

Un giorno, mentre mangiavamo sulla veranda, uno stormo di insetti investì il nostro pranzo. Entrarono nelle magliette, sprofondarono nei bicchieri e si seppellirono dentro i miei capelli: li sentivo camminarmi sopra il cervello. Gli zii dovettero riportare in casa piatti e tovaglia e scacciarono via gli insetti con un vecchio straccio, agendo con una calma per me del tutto inconcepibile. Una volta in casa, notando il mio turbamento, mi proposero una gita al lago.

«È qui vicino» fece la zia.

«Ma là fuori è pieno di insetti!» strillai io.

«Macché. Se ne sono già andati.» disse lo zio, indicando il giardino. E in effetti il nugolo di insetti era scomparso. Molti erano morti. Giaceva sul prato un tappeto di piccoli puntini neri. 

Uscimmo e ci incamminammo in silenzio per un sentiero erboso. Guidava lo zio. 

La notte aveva piovuto. A Ricordo della pioggia era rimasto il cielo scuro, continua promessa di un nuovo temporale. Ci addentrammo in un bosco. Qui la pioggia della notte precedente era rimasta incastrata in alto, sulle chiome. L’aria era umida, continuavamo a camminare. Piccoli aghi di pino si infilzavano nei calzini. Ai bordi del sentiero delle tane di talpa, pigne fradice, lumache e libellule. E fango. 

Perle fredde a rintocchi mi colpivano i capelli, colando dalle foglie degli alberi: tutto il sottobosco tamburellava di gocce. La strada esalava un odore acquoso, forte e profumato. Veniva dalla corteccia delle radici fuoriuscenti dal terreno – umide e scivolose. Bitorzolute, che parevano dita di mostri sepolti sotto il sentiero. 

Facevo un gioco tra me e me: immaginavo diorami di quello che scovavo per terra. Un ciuffetto di muschio diventava un cespuglio. Un segmento reciso di ramo, un tronco in miniatura. E i sassetti diventavano massi, i fili d’erba giunchi. Le piccole pozzanghere, laghi.

Dopo quella che mi parve un’eternità il lago sbucò tra le fronde. Ci andammo a sedere accanto all’acqua. Era quasi tramonto.

«C’è solo il melone, ceneremo con quello» la zia fece scattare il tappo di una scatoletta di plastica e cominciò a distribuire fette arancioni. Sulla mia c’era un insetto morto, ma anche se mi faceva ribrezzo, non dissi niente: lo spinsi solo via con l’unghia. 

Una folata di vento calò sull’acqua, gonfiò il fogliame degli alberi sulla riva e riprese il volo verso l’alto, a spezzare in due una nuvola sopra di noi. Guardai davanti a me. Il lago era terribile e splendido nel suo silenzio.

Mio cugino Giorgio mi si fece vicino, mi prese per una spalla e disse:
«Ti insegno un gioco. Tu pensa a una cosa. Albero, sasso, lago, tronco: una cosa così. E ora immaginala con un colore diverso, strano. Sbatti veloce gli occhi: per un attimo la vedrai di quel colore. Guarda come funziona. Tronco rosso!» Chiuse gli occhi rapido come il click di una camera. «Ecco… Rosso! Hai visto? Funziona. Prova anche tu.» Avrei voluto dirgli che veramente non avevo visto proprio nulla, ma mi annoiavo tanto che accettai di giocare. 

«Lago d’argento!» Sbattei rapido le palpebre. Per un secondo davvero mi parve d’argento. Un quieto lago argentato, come fosse di ghiaccio, coi pesci congelati dentro; un lago di pietra, impassibile, dove non c’è vita, ma nel quale anche la morte è per sempre bloccata, interdetta.

Dove non c’è spazio per la decomposizione. 

Notai che sott’acqua, a qualche metro da me, vibrava un cerchio scuro frammentato dalle onde, tremolo e sfocato.

«Cos’è quella cosa?» chiesi. 

«Un’alga? Un pesce? Ma no… è solo un ramo» commentarono gli altri. «No. Più grossa di un ramo» Io avevo l’impressione di qualcosa di strano, di alieno.
«Guarda, è per metà sommersa. È grande, eh»

«Cos’è?» chiesi ancora.

«Se ci tieni tanto a sapere cos’è, buttati e guarda da vicino» rispose Giorgio. 

E senza quasi rendermene conto di colpo, realizzai che ero finito dentro l’acqua, addosso a quella cosa: mio cugino mi aveva spinto in acqua. E l’avevo toccata, quella cosa, o almeno così mi era sembrato. Ci ero finito sopra. 

Pensai che ora avevo tutti i vestiti bagnati e di lì a poco sarebbe arrivato il buio, avrei preso freddo, forse sarei morto di polmonite, come avveniva nelle fiabe che mia madre mi leggeva da piccolo. Mio cugino rideva, mentre gli zii gridavano parole di rimprovero nella sua direzione. 

Mi avvicinai all’oggetto che galleggiava davanti a me. Era il cadavere di un cinghiale, capii, gonfiato dall’acqua, e marcio. Il suo occhio era nero come l’abisso. Vidi che tutti i suoi denti erano saltati, mentre le zampe erano tenute insieme solo da una manciata filamenti di nervo, quasi fossero i tentacoli di una medusa. Mi guardai le mani: dopo l’impatto contro il suo corpo, pezzetti di carne dell’animale mi erano rimasti incastrati tra le dita, fibre mollicce e viscose, di tonalità bruno scura. 

Nuotai all’impazzata verso il bordo del lago. Appena tiratomi su dalla riva, scoprii che stavo piangendo, con le lacrime della faccia mescolate all’acqua del lago.

Piangevo per me, per la mamma. Per tutti i morti del mondo, umani e animali, di acqua o di terra, insetti e mammiferi, seccati dal sole o imprigionati dal ghiaccio. Perdonami, piccolo gatto, ti prego, dissi. Perdonami.

Non meritavi la morte. Non la merita nessuno. Non tu, mamma, e nemmeno io. Non la meritiamo. 

Sentivo una voce alle mie spalle, chiamarmi. Sentivo il mio nome, ma non volevo voltarmi e non vedevo più niente, gli occhi bruciavano. La voce diceva: «era uno scherzo… solo uno scherzo».

Immagine generata con DALL-E
“a fly drowned in a glass of water, expressionist painting”