Matty e Tia

Matty e Tia erano nati così: squarciando il ventre che li aveva custoditi, si erano conquistati il diritto alla vita con la morte della madre. Avevano lottato per quei primi respiri, facendosi strada nel buio e nel sangue, mentre la donna annegava nella pozza nera del passato, incapace di scorgere anche solo per un istante il frutto della sua attesa. Scivolò via nell’ombra vermiglia, lasciando le membra a liquefarsi come neve a primavera.

Il padre non li aveva mai perdonati. Era appassito di colpo, quel giorno. Un guscio vuoto, grigio e accartocciato, come la plastica di una caramella lasciata sul marciapiede, contesa dai becchi sporchi dei piccioni. Catatonico, teneva gli occhi spenti fissi su qualcosa di invisibile, mentre tutt’attorno vorticava l’ospedale.

Nessuno era stato in grado di spiegarselo: tutte le ecografie avevano mostrato un feto più grande della media attendere placido il suo momento, immerso nel liquido amniotico. Eppure, attaccati alla stessa placenta, due minuscoli neonati strillavano sotto la luce abbagliante della sala parto.

L’uomo aveva dato l’unico nome che la giovane coppia aveva deciso, inerme di fronte alla prospettiva di doverne trovare un altro da solo. Aveva ripetuto ossessivamente quel nome davanti allo sguardo stranito e poi spaventato dell’impiegato dell’anagrafe, urlando e sbattendo i pugni finché questi non si era arreso a compilare le due schede. E così i gemelli si chiamavano Mattia.

Erano identici, esili come fogli di carta, la pelle diafana quasi trasparente, una pellicola vitrea sempre sul punto di spezzarsi.

Nessuno avrebbe saputo definire il colore dei loro occhi. Cresciuti i capelli, sembravano l’uno il negativo dell’altro: nero cupo Matty, bianco pallido Tia. Incorporei, al padre sembravano fatti di fumo. A volte li chiamava spettri, gridava ubriaco che avevano infestato la sua mente. Fin da subito avevano imparato a conoscerlo così: un triste involucro svuotato della sua linfa, che si riempiva d’alcool e vomitava ira, agitava le braccia possenti su di loro e finiva con la testa tra le mani a biascicare mormorii privi di senso, riempiendo il tavolo di lacrime.

Vivevano in un paesino opaco come loro, aggregatosi attorno a un complesso di centri commerciali divisi da immensi parcheggi, separato dal resto del mondo da vasti campi d’erba ingiallita violentati dall’asfalto della strada. In pochi metri c’era tutto e poi non c’era niente.

E fu proprio così, avventurandosi in quel nulla dalla parte opposta rispetto alle torri luminose dei cartelloni pubblicitari e alle campanelle dei trenini di natale coi pupazzi meccanici, che i bambini scoprirono il bosco. In pochi minuti erano in grado di uscire dal grigio sbiadito degli autosilos e immergersi nelle verdi sfumature degli alberi, dove la luce era qualcos’altro e lo scroscio eterno del torrente copriva il brusio delle macchine al di là. Armati di coltellino, affilavano le punte di rami spezzati e pattugliavano la foresta alla ricerca di mostri da infilzare. D’inverno, staccavano spade di ghiaccio e duellavano stillando gocce fra castelli di neve rosa nel respiro dei tronchi addormentati. Fin da subito percepirono il bosco come un’entità viva, lo sentivano respirare nel vento che alzava le foglie e nel fiume che scorreva tra le pietre, nei raggi di sole che li abbracciavano con colori sempre diversi e nelle ombre che volevano inghiottirli per non lasciarli più andar via.

Rotolavano nel fango e accarezzavano il muschio sulle cortecce, si arrampicavano tra le fronde e si gettavano in acqua, ebbri dei mille odori di quella madre che imparavano a conoscere sempre di più, stagione dopo stagione.

Quando, zuppi di sudore, si fermavano a respirare, andavano sul ponte metallico a guardare la cascata, mettendosi sulle punte per vedere oltre la ringhiera. Il getto costante, infinito, che accarezzava la roccia e si buttava nel vuoto, catturava i loro sguardi in una stretta magica. Rimanevano le ore a fissare la danza dell’arcobaleno sospeso. Quando spariva, inghiottito dal crepuscolo, si risvegliavano come da un sogno, stropicciandosi gli occhi.

Di là dal ponte la vista si apriva su un prato immenso, una caotica distesa di erbacce e cespugli. Al centro, invasa dalle sterpaglie ma ancora solida nella sua grigia essenza, come la rovina di un’antica civiltà, c’era la vecchia fabbrica di cemento. Abbandonata, dava l’idea di essere morta da tempo. La sua struttura spoglia, quasi ossea, la faceva assomigliare al fossile di un enorme animale, rimasto in piedi nonostante la fine, come il simbolo di un futuro già passato.

Ci volle poco perché i gemelli si insediassero su quella sponda del fiume. Quella cosa li affascinava. In un’ora ne avevano già esplorato tutti gli anfratti ma dopo mesi ancora non riuscivano a smettere di guardarla. Ne erano attratti come da una calamita, non potevano fare a meno di girarle attorno, ipnotizzati. Sentivano che in qualche modo era loro proprietà e a loro volta si credevano da lei posseduti. Se qualcuno intento a passeggiare, o peggio, un gruppetto di ragazzini rumorosi osava avvicinarsi alla struttura, i due rimanevano immobili, sentinelle spettrali, a scrutare ogni movimento degli intrusi dai due lati opposti della radura. Un giorno, quando dei ragazzi più grandi, infastiditi da quel fantasma che li fissava senza sbattere le palpebre, accerchiarono Tia e presero a spintonarlo, Matty sbucò da dietro e si avvinghiò sul più grosso, i denti immersi nel sangue dell’orecchio che si apriva, mentre il fratello raccoglieva una pietra appuntita e la affondava nella carne degli altri.

Si difendevano a vicenda contro qualunque pericolo, privi di muscoli a proteggere le loro ossa, non si trattenevano dal prendere le armi che il fiume gli donava. Nessuno si sarebbe più permesso di dare fastidio ai bambini della fabbrica.

Protetti da quelle mura diroccate, più accoglienti del cancello incrostato di casa e delle pareti asettiche finto-positive dell’aula scolastica, i gemelli intanto crescevano. Nella loro testa, diventarono uomini il giorno in cui riuscirono ad arrampicarsi, sollevandosi l’un l’altro, sulla scala arrugginita che pendeva nel vuoto, tagliata a metà. Giunti alla piattaforma sopraelevata, si stesero di schiena sul cemento ad ansimare, grondanti sudore e adrenalina, persi nel cielo lucido che faceva da soffitto infinito oltre il rettangolo delle pareti spezzate. Era stato lassù, ascoltando il fiume scorrere poco lontano sotto i raggi della luna, che si erano toccati per la prima volta, uno accanto all’altro, inseguendo quell’unica calda corrente fino ad espellerla in un brivido congiunto. Ed era sempre lì che andavano, in cerca del silenzio in quelle sere gonfie di urla come i loro volti pesti, a imprimersi i fantasmini sulle braccia con un pacchetto di sigarette rubato al padre.

Col mondo al di fuori del bosco, il furto era naturale. Non c’erano alternative ma c’era anche qualcos’altro, la stessa brace accolta nella carne tornava ad accendersi nei loro occhi davanti alle file di scaffali ricolmi dei centri commerciali. Senza parole, si erano promessi che non avrebbero mai pagato per quelle cose. Era come pochi anni prima, intrufolarsi nei vigneti stando attenti alle tagliole, macchiarsi le mani strappando grappoli di uva americana e sentire l’acino che schizza via dalla buccia contro il palato.

Rubavano di tutto, ma perlopiù superalcolici e bombolette spray, sotto il cui getto le pareti della fabbrica rinascevano nei colori della sbronza creativa. Dopo l’ultimo sorso, con l’amaro che bruciava la gola e le labbra che chiedevano tabacco, si buttavano sul prato e tutto girava, la terra e il cielo e il sole e la polvere si mischiavano nella testa in ebollizione e quello scarabocchio sul muro splendeva come il rosone di una cattedrale. La collezione di bottiglie vuote si allungava ogni giorno di più, una vertebra dopo l’altra, era il loro serpente di vetro iridato.

Col tempo, nel pallido deserto tra la fermata del bus e il parcheggio mezzo vuoto, scoprirono un altro genere di commerciante, che non faceva risuonare casse e non emetteva scontrini. Con lui era diverso: occhi troppo simili ai loro, non gli avrebbero mai rubato niente. C’era sempre il modo di pagare, le grasse signore intente a caricare le borse piene sui suv, dimentiche dei portafogli in bella vista, abbondavano. Compravano fiori di un verde acceso, smeraldi brillanti ricchi di filamenti arancioni, e si stravaccavano in riva al fiume, appoggiati ai detriti della cava, passandosi la busta per annusare quel profumo resinoso, che riempiva i polmoni e irradiava la sua carezza lungo tutte le membra. E quando poi davano fuoco a quelle torce piene e assaporavano quel fumo così dolce sulla punta della lingua, la mente sembrava aprirsi e accogliere in sé i raggi di quella luce così viva, che osservavano scomporsi in un reticolo di stelle sotto la superficie dell’acqua. E mentre gli occhi si immergevano nell’iridescenza, la carne non chiedeva più niente e si abbandonava al riposo nel grembo della foresta. Rimanevano le ore distesi sul pietrisco, a farsi bagnare dal sole e a giocare con la malta, modellando umide forme che si seccavano in statuette votive.

In breve divennero acquirenti abituali, rubavano soltanto per comprare e non c’era giorno che passasse senza che quell’odore avesse lasciato la propria scia sugli argini del torrente. Un lunedì d’estate il ragazzo gli offrì qualcosa di diverso: due cartoncini sottili imbevuti di una rugiada particolare. Ne avevano già sentito parlare e il fascino per quell’esperienza indescrivibile superava di gran lunga il terrore che certe storie volevano incutere. Sul ponte, davanti alla cascata, espirarono profondamente e se li appoggiarono sulla lingua, sentendo la carta sciogliersi pian piano ed entrare a far parte di loro. Dopo una mezz’oretta a girarsi attorno e scrutarsi le percezioni sensoriali, si guardarono e nel medesimo istante starnutirono, riempiendo l’aria di vibrazioni che schizzavano dal collo come soda, e tutte quelle bollicine piegavano la faccia dall’interno e i due gemelli non riuscivano a smettere di ridere, senza più il controllo di loro stessi, presenti soltanto negli occhi che vedevano tutto storto, e continuavano a starnutire e dopo ogni starnuto li riprendeva quella risata infinita, a ondate che sembravano disgregarli sempre più, mentre si tenevano l’addome impazzito e come trottole scivolavano nell’acido mondo al di là della vista, tra schermi piatti da cartone animato e gallerie profonde da videogioco che si intercambiavano intrecciandosi come filtri sulle retine. Riacquistata la padronanza dei propri volti, si sdraiarono sulla bruga sassosa ed era tutto così molle, i loro corpi sciolti colavano come miele e si insinuavano tra la rena, inglobati nel terreno, pesanti e appiccicosi, fluidi viscosi di carne bollente. Incapaci di muovere un arto, tornarono a ridere fissando il cielo che si squagliava e gli gocciolava addosso, e l’infinito che li investì portò via le loro menti verso nuove costellazioni, grovigli di forme e di luci, gioielli impalpabili custoditi nelle pupille e ora vivi come nuvole nell’azzurro.

Stettero immersi nella sinestesia, il tempo non c'era e se c'era era una grossa ciambella volteggiante, ma ci fu un istante in cui l'aridità prese possesso di ogni cosa e risucchiò l'aria dai polmoni e Matty e Tia erano soltanto due sacche di pelle raggrinzita sul punto di polverizzarsi, poco più che sabbia, foglie secche bisognose d'acqua.

 E strisciando come due pietosi lombrichi, i ragazzi raggiunsero il fiume e si buttarono tra le sue braccia freschissime, gemendo di piacere. E mentre Tia galleggiava sulla superficie e chiudendo gli occhi si fondeva placido con il blu diventando sempre più sottile, liquido informe nella corrente, senza più sentire nulla e forse per la prima volta sentendo tutto, lasciandosi semplicemente fluire in qualcosa di più grande di lui, abbandonandosi a quella consapevolezza inespressa dove Tia non era più, era il fiume e il vento e la foresta intera, mentre quel corpo non più abitato accoglieva in sé l’infinito e sorrideva senza neanche saperlo, Matty gattonava sul letto del fiume e le gole rocciose che si chiudevano su di lui erano le fauci di un drago millenario che ad ogni respiro sgretolava pezzi della sua carne e la pelle si sbriciolava e del ragazzo rimanevano solo le ossa traballanti in preda al panico senza fine, e volti di streghe ridevano di lui tutt’attorno, mentre cercava di fermare quel flusso infinito e le gocce d’acqua scivolavano tra le sue dita e lui non poteva trattenere nulla e piangendo gridava Non siamo niente e più cercava di riaffermare la sua esistenza con le urla più sentiva il vuoto crescere dentro di lui e investire qualunque cosa e non sapeva più chi era Matty ma sapeva che qualcosa c’era stato e non riusciva a lasciarlo andare e piangeva e si dibatteva tra i flutti di quel vortice nero, incapace di tutto fuorché soffrire, inconsistente di fronte al flusso crudele che tutto avrebbe portato via, e quando fu al limite della disperazione, in preda a conati di vomito che non espellevano niente, ecco che sentì un braccio cingergli la schiena e il bacio del fratello sul collo che lo invitava all’abbandono, e finalmente accettò il suo destino e abbracciando il nulla ritrovò sé stesso, tenendo stretta quella mano, lacrimando su quel petto nell’umida pace di un nuovo utero.

Secoli dopo quel momento, si accasciarono fradici sulla sponda di terra e insieme si riconobbero in una piccola libellula sul punto di affogare e insieme le porsero un filo d’erba a cui aggrapparsi, e lei fu di nuovo libera e nei suoi occhi alieni scoprirono la stessa gratitudine che era in loro. Poco prima che le forme e i colori tornassero a stabilizzarsi, Mattia sentì un richiamo provenire da un punto del terreno. In preda alla foga, si mise a scavare e, con le unghie lacerate dalla ghiaia, portò alla luce una scatola di legno ricoperta di strane incisioni. Dentro, perfettamente riposta nel suo cantuccio di velluto, una pistola di quelle vecchie, con la rotellina. Il ragazzo la estrasse e, come nei film, fece scattare in fuori il tamburo, al cui interno un proiettile aspettava da chissà quanto il suo destino. Dopo l’eccitazione, un’ombra di inquietudine iniziò ad aleggiare nell’aria sopra di lui, riportandolo a loro. Senza dirsi nulla, decisero di richiuderla nella scatola e la seppellirono dov’era rimasta fino ad allora.

Ci volle del tempo prima di riprendersi da quel giorno. La Terra ruotava sempre su sé stessa ma niente sarebbe mai stato come prima, erano i loro occhi a essere cambiati e ora ogni frammento di realtà conteneva una luce nuova, la griglia degli orari non contava più, il tempo si era come dilatato e anche l’istante più misero poteva celare un segreto che aspettava soltanto di essere scoperto.

Sentivano di aver capito qualcosa di molto importante, qualcosa su di loro che però andava anche oltre, qualcosa che avrebbero dovuto custodire e che si promisero non avrebbero mai dimenticato. E all’inizio fu davvero così.

Ma gli anni passavano, la scuola li abbandonava e il lavoro non li voleva, mentre le botte aumentavano e le giornate tornavano a stringersi ricomponendo le sbarre della gabbia spezzata. A poco a poco i ricordi sfumarono e con essi gli insegnamenti del fiume. Ai parcheggi non si vide più il tipo dei cartoncini, niente più fanciulle dagli occhi caleidoscopici e i due ragazzi conobbero Bianca, innamorandosi perdutamente. Lei aveva gli occhi freddi e i capelli di cenere, li faceva sentire come se non avessero bisogno della terra sotto i piedi e potessero librarsi, lontani da tutto, a osservare il mondo dall’alto, e finalmente respirare. Erano sempre insieme, tutti e tre, e lei rideva a vederli impazzire per contendersi un suo bacio nel gioco della bottiglia. Rideva sul collo e la sua risata era come uno scricchiolio, era una crepa che si allargava ogni volta di più. Avrebbero fatto qualsiasi cosa per sentirla ridere di nuovo, per frantumare la realtà e le loro ossa con lei. Per lei rubavano molto più di prima e non importava se qualcun altro si faceva del male, per lei litigavano e si picchiavano ma da soli riuscivano a trattenerla per molto meno e quindi tornavano insieme, odiandosi di gelosia, marcendo pian piano, approfittando di ogni minima distrazione per fottersi a vicenda, per un altro istante di quel fiato chimico, un respiro, ancora uno, solo un altro sorso di quella saliva ammoniacata. Corrosi dalla reciproca falsità, non andavano neanche più al fiume. La fabbrica e la cascata divennero foto sfocate, ora giravano per altri boschi, dove lei era sempre lì ad aspettarli, attorniata da orde di pretendenti con gli occhi scavati e le gengive marroni. Li invitava a sdraiarsi sul suo letto di plastica ghiacciata, accanto al telo di aghi e carta stagnola dove dormiva sua sorella Nera. Quella ogni tanto alzava un poco le palpebre, e i loro sguardi quasi si incrociavano. Nell’aria grigia i ragazzi correvano, non facevano che correre, inseguivano i minuti che gli si sfilacciavano addosso, i brividi tagliavano come frammenti di specchi e il tempo non era mai abbastanza, sempre troppo tardi, sempre di fretta, sempre sudati, sembrava che i giorni stessi avessero meno ore, da quando il pianeta aveva smesso di cercare il sole per girare attorno a quella roccia spenta.

Una sera la situazione precipitò. Bianca non c’era e uno dei due doveva averla nascosta da qualche parte per tenerla tutta per sé. Folli e soli, venne loro la stessa idea. Era giunto il momento di farla finita, lei non poteva essere di entrambi. Si ritrovarono sull’argine del fiume, uno di fronte all’altro sotto l’opale di luna. Tra i graffi e i pugni in faccia, presero a scavare con rabbia animalesca, urlando e spintonandosi fino ad aprire la scatola. Rotolando tra i sassi, le nocche ricoperte di terra e sangue, cercavano di strapparsi il ferro dalle mani, uniti ormai solo dall’odio in un groviglio di dolore.

Le unghie nella carne, i denti fracassati, stavano per perdersi davanti all’acqua che li aveva cresciuti, quando una risata ubriaca risuonò nel buio e li costrinse a fermarsi.

L’uomo barcollava, mano nella mano con Bianca. “Io lo sapevo che eravate dei drogati schifosi” diceva, con quel tono che conoscevano fin troppo bene.

Il respiro del drago vibrò per tutta la foresta, i gemelli si guardarono e il ricordo tornò vivido nei loro occhi. Come si era permesso, lui, di calpestare i loro sassi, di sentire il fruscio del loro fiume?

Mattia si alzò in piedi, puntò l’arma davanti a sé e spinse forte il dito contro il grilletto.

Immagine generata con DALL-E
“two male twins standing holding hands in front of a forest, painted in the style of hopper”