Acquario notturno
Ci siamo trasferite al 91 di via L. un mercoledì d’inizio estate, trasportate dalla danza delle prime lucciole.
I traslochi ci hanno sempre rese inquiete. Tutto quello che possediamo trova spazio in tre scatole di cartone e due grandi borse blu dell’Ikea dai manici sfrangiati.
Ci incupisce. Prima di lasciare una casa abbiamo preso il vizio di incidere il soffitto del bagno con una lama di vetro. Un po’ per dare ai prossimi inquilini quel senso di mistero e paranoia tipico dei nuovi inizi, un po’ per pisciare sul territorio. Una finta volpe domestica. È tutto ciò che rimarrebbe di noi se le scatole andassero perse. Una traccia del nostro passaggio. “Siamo state qui”.
L’appartamento di Via L. è ampio e luminoso, con mura spesse e fredde, prive di tatto per due anni prima del nostro arrivo. Betti, la proprietaria, è morta sulla poltrona del salotto, la polvere si è ispessita sui mobili. Questa casa è stata un dono. Per i nomadi è difficile trovare un luogo di pace durante i temporali estivi. Il proprietario è l’amico di un amico. “C’è da pulire e ripitturare. Il lavandino della cucina perde, non c’è parcheggio e il bagno è in comune, ma se ti autogestisci, puoi restare”. La luce e l’acqua c’erano già, abbiamo comprato un nuovo allaccio per la bombola del gas e coperto i pavimenti, piegati dal peso della vita di Betti, con dei vecchi lenzuoli trovati negli armadi. Abbiamo accarezzato le pareti con una spatola per scoprire strati e strati di colore. Abbiamo scelto di celebrare il loro passato, muovendo il pennello solo dove non si poteva farne a meno. Nel mentre, cantavamo vecchie melodie francesi. È curioso, non parliamo il francese, mai studiato. Abbiamo sparso luci calde, pietre e libri come briciole per tutte le stanze, bagno escluso. Nonostante non ci sia molto da sistemare, fatichiamo sempre a trovare gli oggetti che più di tutti vorremmo vedere prendere possesso della casa. Ci raccomandiamo sempre di scrivere con un pennarello il contenuto su ogni scatola mentre impacchettiamo, ma adoriamo far arrabbiare la noi del futuro. La immaginiamo ribaltare le borse e frustrarsi perché non trova nulla di quello che sta cercando, poi preoccuparsi di aver dimenticato qualcosa e domandarsi se effettivamente il dvd della Principessa Mononoke non l’abbia prestato a qualcuno.
Dovremmo essere più delicate con lei, ma non è molto gentile con me e le altre, le noi del passato. Ci giudica ingenue e deboli, forse pure un po’ cazzone. Non ci ascolta mai, eppure ci incolpa sempre. La nostra piccola rivincita è un profondo malessere vestito da dispetto. Lei pensa che sia difficile aprire le scatole in un posto nuovo, ma non è quando stipiamo tutto.
Noi impacchettiamo le nostre vite mentre lei ancora non esiste. Nascerà solo più avanti.
Le candele questa volta le abbiamo messe insieme ai libri, una piccola offerta di pace.
Le tende non le ha ancora montate nessuno. C’è sempre un forestiero disposto a farlo. Durante i primi traslochi ci affidavamo a conoscenti e amici, poi sono arrivati dei tulipani e i randagi sono sembrati più facili da gestire. Le sappiamo montare le tende, ma diventa subito duro a tutti quando muovono i primi passi sulla scala e gli tendiamo il trapano. La nostra faccia è ad altezza cazzo e a loro sembra di tenerlo in mano. Loro si eccitano e noi ridiamo. Fanno tenerezza. Però niente premio finché la casa non è vestita. Ci piace sentire la grana del cotone sulle cosce e il viso arrossato contro i vetri freddi delle finestre.
Il venerdì è passato Fra. Pedalava verso le Alpi quando ci siamo incrociati al benzinaio. Aveva una gomma a terra. Una volta gonfiata, siamo andati diretti verso via L. . Al numero 53 ci siamo baciati, al 67 ci ha detto di non aver mai fatto una cosa del genere e al 72 sapevamo che stava mentendo.
Arrivati a casa ci ha domandato dove potesse mettere la bici, non voleva lasciarla fuori.
«Non sai quante me ne abbiano inculate.»
L’abbiamo legata alla rete del cortile e siamo entrati senza toccarci. La scala era già nel salotto, aperta, torreggiava su di noi come un faro. Fra ha visto il trapano sulla libreria.
«A casa ne ho uno uguale»
«Ci scommetto.»
Aveva la barba ispida e la pelle di sale. L’abbiamo assaggiata sul tappeto, un’unghia di sole tra i capelli e le tende dolci sulle dita dei piedi. Sono quelle verdi che ora ondeggiano nell’aria fredda di gennaio mentre iniziamo a riporre i vestiti piegati senza cura nelle scatole. Le scostiamo per uscire a fumare, abitudine sana che ci imponiamo ogni volta che entriamo in una nuova casa e che abbandoniamo la prima volta che rientriamo con le gambe pesanti, come a dicembre.
La vista dà sull’uscita di una galleria e l’imbocco di un’altra, entrambe sorvegliate da cipressi lunghi e alteri. Il suono delle macchine risucchiato dalle luci arancioni ci ha inseguite nel sonno per mesi. Il nostro balcone galleggia tra case con giardini brillanti e recinzioni appuntite. I cani abbaiano quando passano le automobili e il vento scuote le cime affilate degli alberi.
Nascosto da lampioni, rami e rumori di ruote, c’è il lago.
Vedo qualche luccichio sfocato muoversi da dietro il cancello della villa di fronte. Il posteggio è vuoto e le siepi che le fanno da scudo stanno iniziando a strisciare verso gli angoli del tetto.
Non è sempre stato così.
A metà dicembre la cenere cadeva nervosa verso la strada, e quello stesso edificio era pallido e severo al chiarore dei lampioni. Non pensavamo fosse abitato finché non abbiamo visto una macchina scura posteggiare nel piazzale. È successo spesso, poi. La stessa macchina, la luce che lampeggia mentre il cancello si fa da parte, e un uomo dai capelli radi che stringe a sé un corpo fumoso avvolto in un lungo cappotto che lascia intravedere solo i piedi nudi, arrossati dalla brina.
Non volevamo sembrare troppo invadenti e ci siamo nascoste dietro alle tende. Non abbiamo più fumato fuori, un grande sacrificio.
Lui arrivava intorno alle 23:30, nel weekend anche più tardi. Parcheggiava lontano dalla strada principale e camminava verso il citofono. Abbiamo sempre pensato avesse il timore di sporgere il dito oltre le maniche del giubbotto, ma alla fine lo affondava sul bottone ogni volta. Un gesto quasi violento, rassegnato.
Poi, aspettava di vedere il cancello aprirsi lento davanti a lui, accompagnato dalla luce intermittente che trasformava le ombre e i confini del suo corpo.
Quando il moto si arrestava, prima di allungare il piede oltre il binario, guardava in alto. Non sappiamo cosa cercasse. Le stelle, con tutti questi lampioni e segnali luminosi non riescono a bucare il cielo. La luna si tiene a distanza. Forse è lei che cercava.
Prendeva un respiro profondo, lo sappiamo perché le spalle gli sfioravano i lobi delle orecchie. Lasciava cadere il piede sul pietrisco con un tonfo sordo e trottava come un bambino all’uscita di scuola verso il portone. Faceva la stessa danza all’uscita, solo in un passo a due. Lei non lo accompagnava mai oltre il cancello. Il loro saluto sembrava sempre eterno, un addio definitivo tra due corpi bui.
A pensarci ora, mentre spegniamo la sigaretta contro la ringhiera, non lo abbiamo mai visto espirare. Forse tratteneva il fiato durante l'intera serata. Forse la villa era una casa per pesci notturni.
Con l’inizio di gennaio, le loro serate insieme si allungavano. Lui non è mai rimasto a dormire. Quando il cielo inizia a colorarsi di lavanda, accelerava il passo e poi i giri del motore. Non aspettava nemmeno che si scaldasse il vetro. Grattava la superficie gelida del parabrezza con una vecchia carta da gioco.
Ogni tanto guardava indietro. Alcune persone riescono a frenare questo movimento, consapevoli che non ci sia nessuno ad accogliere il loro volto. La maggior parte non riesce a fare altrimenti. Noi pensiamo a Orfeo.
L’uomo ha uno sguardo diverso, ma una tensione simile. Vorrebbe riuscire a desiderare di voltarsi. Avere speranza. Ma lui sa. Il cappotto è appeso, i piedi rosa avvolti in spesse calze di lana, il cancello è chiuso. Le macchine interrompono il suono del lago e viceversa.
Qualche settimana fa lui non è arrivato. Verso mezzanotte, il corpo pallido è uscito dal cancello. Indossava una sottoveste rosa che lasciava intravedere una costellazione di nei dai profili duri sulla clavicola sinistra, la testa rasata percorsa da venature cremisi. Si è accucciata davanti al cancello, cercava qualcosa.
Ha preso un sasso dal viale e l’ha lanciato verso la luce intermittente. Il suo corpo si è piegato come fosse l’asola di un laccio di scarpe, di quelle nuove che non vedi l’ora di sporcare nella terra. È rimasta così per qualche secondo, poi ha raccolto un frammento da terra ed è scivolata di nuovo dentro casa.
È tornato una sola volta dopo quella sera, mercoledì scorso. Lei lo ha aspettato fuori. Un lungo abito color lillà le faceva brillare la pelle candida, attraversata da fili rossi tesi come la tela di un ragno. I nei appuntati come medaglie dopo una guerra.
Era splendida.
Si sono presi per mano, lui l’ha fatta salire sulle sue scarpe lucide e hanno ondeggiato così per un po’. Lucciole invernali, lenti e sole, circondate da echi di parole provenienti dal loro acquario notturno, seguendo i ritmi che avevano cadenzato la loro danza fino a quel momento. Il fruscio dei cipressi, le auto che bucano la galleria e il lampeggiare della luce, ora nuda, da sopra il cancello. L’unico testimone, oltre a noi, di un tratto delle loro vite.
Lui ha nascosto le occhiaie di ciclamino tra le ossa sporgenti di lei. Ha sussurrato qualcosa alla sua pelle.
Les caresses les plus pures,
les serments au fond des bois,
les fleurs qu’on retrouve dans un livre,
dont le parfum vous enivre,
se sont envolés. Pourquoi ?
O almeno così ci è sembrato.
Abbiamo sentito una fitta stringerci la gola e avvertito il bisogno di bere. Ci siamo versate due dita di gin con del succo di lime, ma tornate alla finestra loro non c’erano più.
Oggi è giovedì, l’aria profuma di neve e stiamo chiudendo i piatti nelle scatole. Sopra ci scriviamo “Prodotti per pulire”. Abbiamo quasi finito.
Mentre vaghiamo per casa fingendo di controllare di aver preso tutto, le calze rotolano verso le caviglie. Decidiamo di toglierle.
Prendiamo la scala e la portiamo in bagno, vicino alla vasca.
Affondiamo le mani nelle tasche del cappotto e ne estraiamo una lunga scheggia di vetro.
Ci arrampichiamo a passo deciso fino al soffitto, e incidiamo un solco profondo tra le crepe che si diramano come tentacoli di medusa sopra la nostra testa.
Quando la lama incide l’intonaco, tratteniamo il fiato. All’inizio faceva male, ora è più un fastidio, come farsi un tatuaggio. Una linea rossa e brillante si apre sul nostro petto. Anche stavolta siamo riuscite a evitare i nei che sporgono dalle clavicole ossute. Siamo dimagrite, viaggeremo più leggere.
Riponiamo il frammento nella tasca e torniamo ad appoggiare i piedi sul pavimento spoglio.
Scusaci, Betti. Lo facciamo per non essere ignorate dalla prossima noi.
“Siamo state qui”.
Immagine generata con DALL-E
“three cardboard boxes and two big blue bags in front of a door, oil painting”