O vinci o impari

Faceva caldo, molto caldo. I ricci, troppo cresciuti, gli si allungavano sulla nuca provocandogli un fastidio peggio delle mutande appiccicate alle chiappe. I capelli sulla fronte, decisamente più corti, poteva domarli con un gesto delle mani. Tutt’altra storia, in effetti stava iniziando a maledire questa cosa dei capelli lunghi dietro che, come moltissimi suoi amici, anche lui aveva iniziato a usare. Una cosa da Mcgyver. Anzi, da Agassi, l’idolo di tutti i ragazzini che si avvicinavano al tennis in quegli anni. Meglio darci un taglio, ma ci avrebbe pensato domani.

Perché al momento a non essere gestibile era il fastidio di ritrovarsi di fronte Alessio. Ora. Dall’altra parte del campo da tennis in terra battuta, con lo stesso completino fighetto colorato e acceso con cui proprio Agassi aveva da poco scioccato il mondo della racchetta. Tutto rigorosamente coordinato, compreso il cappellino che organizzava quel suo ciuffetto biondo da bambino delle pubblicitàdellemerendine che gli era sempre stato sulle palle.

Perché già a scuola non aveva mai sopportato Alessio e il suo fare sempre disinvolto. L’atteggiamento semplice e non curante di chi è sempre a suo agio nel mondo… quelle cose come farelegiustebattute, ridereaquellegiuste, avereiltempogiustoperdirecose eccetera. Tutto un altro pianeta rispetto a chi affanna goffamente, azzarda ovunque passi in punta di talloni pestando anche merde ogni dieci passi.

Ecco, i tempi giusti. Forse gran parte della magia era tutta là e ora lui si trovava ad assaporarne l’amara mancanza proprio in una situazione dove il senso del ritmo e del sapersi muovere era decisivo. Semplicemente. Un mondo disegnato da un perimetro artificiale di righe. Storie da dentro o fuori. Rete o no. Poche mezze misure. Forse nessuna.

Insomma: dalla società pre-adolescenziale al campo da tennis. Sempre più difficile. Come in un videogioco. Magari uno di quelli da cui sua madre lo aveva strappato per iscriverlo al corso di tennis all’inizio di quell’anno.

 

«Stai diventando sempre più pigro e sedentario. Sei solo in seconda media. Non va bene, soprattutto alla tua età. Lo sport è importante per sviluppare corpo, anima e cervello. Lo sai come dicevano gli antichi romani?»

 

«Siii… mens sana in corpore sano! Me lo avrai detto mille volte…»

 

«e allora te lo ripeto la milleunesima: devi fare sport! Che ne dici tesoro se ti iscrivo a tennis? È uno sport così bello, mi piaceva così tanto quando ero giovane!»

 

«E poi cosa è successo? Sei diventata troppo vecchia?»

 

«Non fare lo stupido, amore, poi sei nato tu!»

 

«Che significa? Non potevi continuare a farlo? Così almeno non rompevi le scatole a me e mi lasciavi in pace!»

 

«Senti signorino, non ti rivolgi a me in questo modo! Ora spegni quel coso e vai a fare i compiti. Domani andiamo a chiedere informazioni per il corso di tennis. Vedrai che ti piacerà un sacco, sono sicurissima!»

 

«Se lo dici tu…»

Ed eccolo qualche mese dopo catapultato là, al torneo di fine anno. Al capolinea di un mondo troppo geometrico per uno con la testa sempre sulle nuvole. Un campo rettangolare ritmato da due metà perfettamente simmetriche, dai continui ‘poc’ della pallina che impatta sulle corde della racchetta e dal suono sordo del suo rimbalzare sulla terra battuta alzando un ciuffetto di polvere compatta. Ecco, quell’immagine lo rapiva sempre. Soprattutto quando la terra sporcava le righe, rendendole meno tragicamente bianche.

Un po’ come ora, che si trovava ad osservare i granelli di terra ricadere mentre veniva improvvisamente risvegliato dal perentorio “tre a zero per Alessio!” dopo che non era riuscito neanche a sfiorare l’ennesimo servizio vincente dell’avversario, rimbalzato proprio nell’angolo.

Quante volte era successo? Già tre o quattro volte in così poco tempo? Forse di più…

Ora basta, sentiva dentro di sé emergere la riscossa. Come quando nei Cavalieri dello Zodiaco il personaggio malvagio sta per vincere il combattimento e una musichetta crescente segna il momento del riscatto per Pegasus e i suoi amici. L’ora di sovvertire gli eventi, di smuovere tutto e prendersi la rivincita. 

Ok, quindi era il suo momento di picchiare forte in battuta. D’altronde il servizio era una sua specialità: amava la sensazione di sfogare tutta la forza che aveva in corpo con una specie di saltino che gli sembrava, appunto, una mossa da cartone animato giapponese.

Sbam! 15-0 per lui, Alessio non era riuscito a prendere il suo colpo! Giusto il tempo di togliersi quel maledetto ciuffo di ricci dalla nuca e via un’altra cannonata… questa volta Alessio ci era arrivato, rimettendo la palla al centro a campo scoperto, pronto per il 30-0. 

Lo sapeva, in fondo lo sapeva. La sua grinta avrebbe avuto la meglio su quel fighetto tutto firmato e coordinato. Ora che la rabbia lo trascinava avrebbe travolto Alessio e quel suo sorrisetto beffardo di chi chiaramente, nella sua testa, ti perculava in continuazione.

Buum! Altro servizio vincente: 40-0. Il 3-1 sarebbe stata la prova del fatto che le forze in gioco stavano cambiando. Era arrivato il momento dei “perdenti” come i protagonisti di “IT” di Stephen King… che figurati poi se Alessio lo aveva mai letto. Ma chissenefregava…

Purtroppo però, a volte, le proprie paure non si materializzano solo sotto forma di clown inquietanti. Possono avere anche l’aspetto curato di un ragazzetto in uno sgargiante completino da tennis firmato. Ma non di uno a caso: quello che tu puoi anche canticchiare mentalmente la tua musichetta di riscossa ma lui tanto risponde al servizio rabbioso con un diretto all’angolo per il 40-15… ma anche, di rovescio, per il 40-30.

«Merda!»

Ok, ok, ok. Sangue freddo. Ora gliela faccio vedere io… glielo spengo subito quel sorrisetto 

Lancia la palla, ne osserva bene la superfice pelosa e giallastra mentre rotea sopra la sua testa pronto a sparare una bomba infuocata: fuori!

«cazzo, stracaaazzo e porcatroiaaa!»

«Ehi, ora basta. Ti chiedo di mantenere un comportamento corretto ed educato. Siamo su un campo da tennis!»

Mafottiti, chi è questo? Pensa di essere un vero arbitro? Glielo hanno spiegato che non siamo a Wimbledon? 

Ok, ora era pronto a scatenare l’inferno con la seconda di servizio: rete! 40-40. Faceva caldo, davvero un gran caldo. Troppo caldo, tanto da prendersi una piccola pausa. Non prima di sfilarsi la maglietta e lasciarla cadere per terra. La scusa giusta per guadagnare un po’ di tempo per calmare i nervi, rinfrescarsi un attimo, prendere un sorso d’acqua dall’angolo ombreggiato dove era seduta sua madre. 

Già, sua madre. Si era praticamente dimenticato che era venuta a vederlo. Anzi, a dire il vero erano proprio arrivati insieme.

«Cosa stai facendo?»

«Bevo un sorso d’acqua, non si vede?»

«Intendo la maglietta, rimettila subito!»

«Ma ho caldo!»

«Non mi interessa, non sta bene e poi così la maglietta si sporca di terra. E comportati in modo educato, per favore. Non ti ricordi? Il tennis è lo sport dei gesti bianchi!»

«See… vabbè!»

«Dai, io credo in te. Lo so che ce la puoi fare!»

«Vedrai mà, ora io lo straccio questo sbruffone.»

Le ultime sue parole prima di raccattare la maglietta, provando a scrollarla – ma quanto rimaneva attaccata la terra rossa? – e tornare al servizio. Non gli era affatto piaciuto lo sguardo strano con cui sua madre aveva risposto alla sua affermazione. Forse non gli riconosceva quell’atteggiamento spavaldo. Ma forse, in effetti, anche per lui era una sorpresa: sembravano parole pronunciate da qualcun altro. 

Il momento era decisivo. Servizio, risposta lunga. Il tentativo di incrociare all’angolo, la risposta di un potente diretto impossibile da raggiungere.

Pazienza. Era a un colpo dall’andare ancora più sotto nel punteggio… il fiatone aumentava e sentiva le vene tamburellare sulle tempie. Tamtam-tamtam-tamtam. Eccolo, era il momento della riscossa. Suoni tribali. Il ritmo giusto, quello che spinge alla vittoria. Almeno pensava così, in fondo lui non aveva mai vinto niente!

Sbam, rete! 

Ok, la seconda l’avrebbe messa più morbida. Ragionata. Poc! Alessio rispondeva con un rovescio insidioso che firma il 4-0.

«Vaffanculo! testadicazzo!»

La vergogna. La finta di perdere l’appoggio del piede e lasciarsi cadere rotolando per terra. Tutto insieme, ma non prima di lanciare per aria la racchetta… 

Nel rialzarsi una mancanza si fa strada con la coda dell’occhio: sua madre non è più seduta nell’angolo dove era prima. Anzi, a guardare meglio non c’è proprio più! Ad assistere alla disfatta si potevano contare solo l’arbitro, qualche maestro della scuola e una manciata di compagni di corso. Nessuno di loro però particolarmente interessato a quanto stava accadendo sul rettangolo di gioco. Su di lui solo gli occhi di Alessio, naturalmente ambigui e sicuramente carichi di perculate.

Ma davvero ha quel sorrisetto fisso? Insomma, avrà quella smorfia anche mentre dorme? Non so, anche quando si fa una sega?

Intanto il sorrisetto. Quel sorrisetto odioso si alza verso la sfera e… Fiott! un colpo di quelli difficili anche solo da veder arrivare. Altro che rimonta. Tempo di drappo rosso, corna abbassate e si inizia a rincorrere palline da una parte all’altra in un ciclo infinito di affanno-sbuffi-ricciappiccicatialcollo-fastidio-rabbia. 

«Aaaaaaah!»

… mentre la povera racchetta compie l’ennesimo volo per aria, ecco accorgersi che la madre è tornata là, al suo posto. Da quanto? Non importa, perché in qualche modo la sua presenza è in grado di rassicurarlo. La tentazione di voltarsi a guardarla è forte, ma si può combattere: meglio evitare sguardi di disapprovazione: siamo al 5-0!

La racchetta torna finalmente in pugno, ma il gesto di chinarsi ad afferrare una pallina finisce per far incrociare lo sguardi dei due ragazzi: Alessio, in posizione, non sembra neanche sudato mentre aspetta il suo servizio. La tentazione di lanciargli una pallina addosso viene accantonata come un brutto sogno prima del suono della sveglia e il pensiero torna alla madre.

Da quanto tempo sarà tornata al suo posto? Si starà vergognando tantissimo…

Ormai la concentrazione è andata. L’animo battagliero no, ma da solo non porta grandi cose: ecco quindi che, senza farlo apposta, la battuta lunghissima sarebbe finita addosso ad Alessio, se solo questo non avesse evitato l’impatto con un lieve spostamento laterale. L’imprevisto modifica per un attimo la tanto odiata smorfia. Ma è solo un attimo. Anzi, magari è solo un’impressione. Ma ormai basta. È la resa. 

D’un tratto sorge dall’abisso un’illuminazione. Il finale è già chiaro, non resta che corrergli incontro: puf-rete, puf-rete, puf-rete. Colpi sempre più forti, sempre a rete. Intenzionalmente. Con serafica determinazione fino al 6-0 finale.

Game-set-match. Direbbero su campi più celebrati. Qui, invece:

«Ok, partita finita ragazzi. Forza, a rete per i saluti e complimenti!»

Complimenti? complimenti un cazzo!

D’un tratto i muscoli di collo e viso sono rilassati. E lui non è neanche più infastidito dal caldo. È tutto chiaro. Com’è che lo chiamano? un deja vù, quando ti sembra di aver già preso parte a quella scena, per quanto strana. Si avvicina, disinvolto forse più dell’altro, tutto sorriso e giovale soddisfazione – oppure è solo stronzo e beffardo? – e con la mano tesa oltre la rete. Lui abbozza una smorfia mentre gli viene in mente una cosa che aveva letto da qualche parte. Forse su un libro di scuola. Forse glielo aveva raccontato sua madre. Poco importa.

«Lo sai da cosa nasce la tradizione di stringersi la mano? Si usava anticamente per dimostrare che non si impugnavano armi e che quindi si avevano intenzioni pacifiche.»

È un attimo. Lo sguardo perplesso di Alessio dura giusto il tempo necessario perché la racchetta impugnata dall’altro, con la sinistra, disegni un arco prima di stamparsi con il profilo di carbonio sul suo viso. 

«Complimenti per la partita, è stato un piacere!»

Tutti corrono a soccorrere il ferito, a terra. L’altro si gira, con calma, e inizia a correre. Ma non scappa. A questo ritmo, indisturbato, infila il vialetto mentre nessuno cerca di fermarlo. Intorno è tutto silenzio, lui sente solo un leggero fischio alle tempie.

Con uno strano ritmo, quasi al trotto, esce così per strada e inizia ad accelerare leggermente. Sinistro-destro-sinistro-destro, sempre più veloce. Ancora un po’. Di più. E come accelera sente affievolirsi non solo il fischio alle tempie, ma tutti i suoni diventano ovattati. 

È allora che avverte un sollievo generale simile a quando, ancora piccolo, fai un brutto sogno e la mamma arriva, rassicurante. O come la sensazione di una sega la mattina prima di andare a scuola.

Anche lo sguardo è coinvolto in questo generale senso di immersione. Gli occhi mettono a fuoco solo quei pochi dettagli di fronte a loro necessari per orientare la corsa. Destro-sinistro-destro-sinistro. Niente di più semplice, niente di più vitale e inebriante. Sinistro-destro-sinistro-destro. Vortice privo di tutto.

D’un tratto si ferma. Ha fame. È buio. È molto stanco, ma per la prima volta la fatica fisica non lo infastidisce. E poi non c’è neanche più caldo.

C’è un problema, però: dove è finito a forza di correre? La mamma sarà preoccupatissima, deve assolutamente telefonarle per farsi venire a prendere. Già, ma dove? Ah tra l’altro sarà arrabbiatissima per il suo comportamento e la figuraccia, si accorge di non averci neanche pensato. Anzi, per l’esattezza non ha pensato proprio a niente in tutto questo tempo. Forse per questo è felice. Ha la testa completamente svuotata. E’ bellissimo. Deve dirglielo.

Nel marsupio ha delle monete. Dall’altra parte della strada c’è un telefono.

«Pronto?»

«Ciao mamma»

«Madovediavoloseifinito? Sono ore che ti cerco, sei pazzo? Macometièvenutoinmentedispaccarelafacciaaquelragazzo? È un miracolo se non ti denuncia! Ma devi pr…»

«Senti, senti, ho una cosa da dirti. Ho deciso. Nella vita voglio solo correre. Ah, devo anche tagliarmi questi capelli lunghi dietro. Che oltre a essere orrendi sono anche tremendamente scomodi.»

«Cosa stai dicendo? Ma dove sei? Pronto?»

Clic.

Ah, non le ho neanche più chiesto di venirmi a prendere. Vabbè, tanto non so neanche dove mi trovo. Chiederò indicazioni e tornerò a casa correndo. In fondo non sono poi così stanco. Ed è una serata così bella…

Immagine generata con DALL-E
“una pallina da tennis in movimento esce dalla linea di fondo del campo, dipinto futurista”