Hyperloop

Sono eccitati. Da quando si è saputo che la linea hyperloop sarebbe passata dalla città e persino che il viaggio inaugurale sarebbe partito da qui non si è parlato d’altro. Giorno dopo giorno e quasi impercettibilmente la cosa ha cambiato forma e dalla notizia per quanto eccezionale fosse in origine ha assunto i contorni di un centro ideale, un nucleo, un polo, persino un obiettivo, per tutti, davvero per tutti, quindi ora che sono davanti ai portoni d’acciaio in attesa che si aprano e gli ascensori li portino a dieci chilometri sotto terra fino alla capsula d’acciaio senza finestrini né pertugi, ecco che davvero non vedono l’ora che le porte si aprano e li abbiano.

La discesa è rapida ma a loro sembra lunga perché sono abituati agli ascensori cittadini, dei condomini, delle case coloniche, dei musei, sono abituati ai tempi consueti e quindi non si rendono conto che la discesa in realtà è rapidissima, quasi a precipizio, ma comunque non gli pesa, parlano tra di loro, dei giardini e dei giocattoli, e infine certo anche del loro essere qui, ora in fondo alla discesa, sulla banchina enorme trapuntata dai pilastri in cemento armato che sostengono la crosta terrestre sopra le loro teste, così remota che nel buio che li sovrasta nemmeno la vedono, e nel buio i pilastri sembrano le colonne di un tempio di epoca sovietica.

Il treno è un’unica lunghissima capsula in forma di proiettile inserito nella canna del tubo totalmente senza aria in cui viaggerà libera da attrito o impedimento, come puntata alla tempia del globo terrestre, e lucida anche, scintillante come l’armatura di un Achille senza volto roso in sé da ingranaggi e magneti.

Si diffonde un mormorio nella folla, qualcuno applaude, molti anzi, è arrivato il tycoon, si sapeva che ci sarebbe stato anche lui, sul suo treno, per il viaggio inaugurale ma vederlo è un’altra cosa, i bodyguard gli camminano intorno ma non ce ne sarebbe nemmeno bisogno perché tutti fanno spontaneamente ala, timorosi e riverenti al cospetto del volto di Achille. Si gira un momento prima di salire, saluta, sorridente di un sorriso bello e cortese, e sincero.

Salgono tutti, nel vagone solo sedili in acciaio imbottiti e grandi monitor appesi al soffitto, ognuno prende posto, il suo posto, fuori dai portelloni ancora aperti la stampa filma, scatta foto, è un momento epocale, e loro ne sono protagonisti. Sugli schermi compare il tycoon, è nella cabina di comando di là dalla porta blindata, parla, dice molte cose, spiega la necessità di andare avanti, di proseguire, una necessità inaggirabile, come una forza fisica, il suo discorso è di una saggezza incontrovertibile. Finalmente i portelloni si chiudono, è ora di partire.

L’accelerazione è vertiginosa, in pochi minuti passano dalla stasi alla velocità del suono, ma di nuovo non se ne accorgono, i sistemi di isolamento li proteggono, all’interno della capsula l’unico modo di sapere la velocità è guardare i monitor ma questo non diminuisce l’eccitazione, anzi la circonda di una familiarità confortevole, gli adulti discutono, fanno considerazioni, i bambini giocano e quando passa il carrello vogliono il Kit-Kat o le patatine, nell’aria solo un sibilo, meno che un fischio, gli era stato spiegato che è un effetto dei motori a levitazione magnetica.

A poco a poco il sibilo cresce, in maniera sottile, ma non in senso fisico o acustico, piuttosto è una tensione, un’elettricità che si intensifica fino a raggiungere il livello cosciente, gli steward camminano più veloci, vanno avanti e indietro lungo il corridoio, parlano nell’auricolare mentre studiano nervosi i tablet, nelle paratie di acciaio vengono aperti pannelli di cui non si sarebbe sospettata l’esistenza, spie luccicano, tutti iniziano a guardarsi intorno.

Sui monitor la velocità continua a salire, avrebbe dovuto stabilizzarsi a due volte la velocità del suono ma continua a salire, gli steward ora corrono avanti e indietro, qualcuno picchia addirittura sulla porta blindata della cabina, urla di aprire, dai quadri elettrici sprizza qualche scintilla, la velocità continua a salire, ora qualcuno urla.

Ma dura un momento, è un momento di panico assoluto ma è solo un momento, poi qualcosa cambia. La velocità ora è folle, non la si legge più sui monitor, sono saltati, ma ora la si percepisce, nel corpo, nell’organismo, fino alle cellule. È una calma lunga e diluita, come corpi che si allungano in un principio di liquefazione, escono dalla loro forma senza perderne il funzionamento che si trascende invece, ora è chiaro senza che nessuno lo abbia detto: non è possibile fermare il treno, una qualche legge ignota ha preso il sopravvento e lo proietta in un’accelerazione asintotica e ogni cosa con lui. Una torpida angoscia li abbraccia nella calma, è così, non ci si può fare nulla, sono sottratti alla vita, alla morte, continueranno così, all’infinito, per sempre.

I loro corpi non sono più nemmeno corpi, hanno lasciato alle spalle e da molto la velocità della luce, i loro contorni sono liquidi, i vicini di posto si guardano tra di loro e vedono filamenti di corrente, consustanziali ai loro pensieri e alle loro aspirazioni, alle loro espirazioni eterne ed infinite come lacrime di latte.

Non c’è modo di dire per quanto viaggino, il tempo consueto ha perso ogni senso, ora le paratie sono pulviscolo, trasparenti e al di là è manifesto ogni processo di evoluzione, di comparsa, espansione, dissoluzione e rovina, le rovine sono ovunque, di vite, civiltà, regioni, pianeti, galassie, di particelle, della luce, e tutte sono pacifiche e si susseguono per miliardi di eoni, così come il loro sonno.

Poi, lentamente, come al principio, qualcosa sorge, si intensifica, prende corpo, è il dolore delle forme che rientrano nei corpi, una pesantezza che si fa nausea, i pensieri si separano dalla polpa che torna a essere se stessa, una novità già accaduta eppure dimenticata: stanno rallentando. Ora ognuno è di nuovo se stesso e non più altro, ricompaiono i discorsi e le questioni, ricompare il panico, la memoria di quello che è accaduto, la paura da impazzire di quello che è successo, delle sue conseguenze, di ciò che potrebbe ancora accadere.

E invece non accade nulla che non si situi su una linea di ragionevolezza e consuetudine: il tempo è di nuovo noto, un treno sta rallentando, niente di più, e il terrore è il terrore che deve essere. Quando finalmente sono fermi tutti si precipitano al portellone, vengono fatte saltare le cariche di emergenza, qualcuno muore calpestato nella calca.

Fuori non c’è più alcun fuori, solo oscurità, bella e serena attraversata da miriadi e miriadi di microscopici frammenti di luce alla deriva in preda a un’angoscia senza affanno, meravigliosa nella sua esattezza, e loro sono abbacinati dalla misura che è misura di giustezza, della loro giustezza anche, di ogni giustezza, e le traiettorie sono line, contorni, profili di forme al di là di ogni forma consueta, improponibili, irricevibili, architetture che non gli appartengono, e una commozione incontenibile li assale, la gratitudine che gli sia stato riservato l’onore di conoscere che mai nulla gli era appartenuto davvero, mai nulla era stato per loro, né la luce né il buio né cosa tra questi. Dalla cabina esce il Tycoon, e gli applausi echeggiano muti nello spazio e nel tempo sottratti ai loro pensieri, alla loro presenza.  

Immagine generata con DALL-E
“un treno a forma di siluro è in arrivo in una stazione sotterranea del futuro dove tanta gente è in attesa, dipinto nello stile di jaques louis david”