Come invecchia una voce

Quando incontrai Saverio, avevo appena lasciato mio figlio alla sua prima lezione di propedeutica al  teatro. Nella stessa scuola, da bambino avevo frequentato un corso di tip tap: era stata proprio quella di  Saverio, la classe cui mia madre mi aveva iscritto. Nel suo modo di raccomandarsi di salvaguardare le  caviglie – aveva un fruscio nella voce, rotondo, come avesse le corde imbottite di ovatta – c’era  qualcosa di paterno, e per chi come me, il proprio padre non l’aveva mai conosciuto, era sufficiente a sopportare una disciplina imposta, cui non potei oppormi fino a quando mia madre stessa vide la mia poca attitudine al ballo, e al ritmo in generale.  

Era un uomo basso e minuto, con orecchie grandi e occhi piccoli e umidi, molto distanti tra di loro,  che, in combinazione alla sua straordinaria velocità nel piegare e stendere le gambe in ogni loro  articolazione, lo facevano sembrare una rana; e quando lo incontrai, quella volta, niente di tutto questo  era cambiato. Gli erano semplicemente spuntate le rughe, e gli si era arcuata un po’ la schiena.  

Quel pomeriggio mi imbattei in lui all’angolo della strada, dove il palazzo in cui aveva sede la scuola  lasciava spazio a un cantiere di ristrutturazione. Lui era in piedi sul marciapiede opposto, con lo sguardo  puntato verso l’alto – la pelle del collo tirata in opposizione alla curva dettata dalle spalle. Stava  osservando, attraverso le assi dell’impalcatura, due operai intenti a sistemare la facciata. 

«Saverio?» dissi, avvicinandomi. 

Si voltò verso di me e mi restituì uno sguardo cordiale e distaccato, con un’aria interrogativa e timorosa  sul fondo delle pupille. 

«Salve» rispose. 

«Saverio, non mi riconosce?». 

Alzò le sopracciglia e dischiuse un poco le labbra, e le rughe che gli incorniciavano il viso rilevarono un  imbarazzo quasi infantile. 

«Ultima fila, – proseguii – sulla destra, il bambino con le scarpe sbiadite sulle punte, e la claquette  sinistra che saltava sempre a metà lezione». 

Saverio strizzò un poco le palpebre, aggiungendo al proprio beneducato disagio una punta di fastidio,  come se lo stessi importunando. Allora arricciai le labbra nel tentativo di riprodurre la smorfia che ero  solito fare quando perdevo la pazienza e, dopo aver seguito con le pupille ogni mio lineamento, lui disse: «Il piccolo Vanni?». 

Annuii. 

«Il piccolo Vanni!» ripeté. 

Aprì le braccia per la sorpresa, poi allungò una mano e strinse la mia. Portò l’altra a contatto con la mia  spalla, in modo da rendere quel saluto visibilmente partecipe ed entusiasta.

La pelle del suo palmo era a tratti ruvida e sudaticcia, e i suoi indumenti emanavano odore di umido, naftalina e potpourri – odore che già aveva quando era il mio maestro.

«Saranno passati quasi trent’anni» dissi. 

«Anche di più, – rispose, le palpebre strette in due mezzelune felici – ero già vecchio quando eri mio  allievo». 

«La ricordo giovane e forte, invece». 

«Dammi del tu Vanni, per favore, tutto già mi ricorda che ormai sono un anziano rincoglionito». «Non dica così». 

«Oh sì, invece. Da vecchi o si rincoglionisce o si diventa filosofi. A me è capitata la prima». «Non è quel che mi sembra di vedere». «Certo, in entrambi i casi si diventa stronzi».

«Era un uomo buono invece». 

«Del tu Vanni, ti prego, del tu». 

«Eri un uomo buono, e certe cose non cambiano». 

«Ero un insegnante piuttosto spietato invece. Ma me ne sono accorto solo quando ho smesso». «Con me eri molto comprensivo». 

«Perché non avevi speranze».

Scoppiò in una risata semplice, priva di giudizio. Nel modo in cui le sue spalle curve si agitarono per  sostenere quella constatazione, riconobbi quel qualcosa di paterno che tanto me lo fece adorare da  bambino, ed ebbi un improvviso bisogno di abbracciarlo. 

«Ero pessimo, ha ragione». 

«Del tu Vanni, ti prego». 

«Scusi, è più forte di me. Per me era un tale idolo». 

«Non abbastanza da farti amare il tip tap». 

«Adoravo lei, non il tip tap». 

«È già qualcosa, anche se come insegnante ho fallito, in questi termini». 

Saverio spostò lo sguardo di nuovo sui due operai. Con una spatola stavano riempiendo i buchi lasciati  dall’usura nell’intonaco. 

«Abita ancora qui vicino?». 

«Sì». 

«E rientra mai a scuola?». 

«Ci passo davanti, ma no, non entro».  

«Perché?». 

«C’è qualcosa che mi respinge». 

«Nostalgia?». 

Fece una lunga pausa, durante la quale osservò gli angeli di pietra che reggevano il tetto del palazzo,  visibili oltre l’ultimo piano dell’impalcatura. Poi disse: «Sì, nostalgia». Mi mise di nuovo una mano sulla  spalla e aggiunse: «E tu? Come mai da queste parti?». 

«Ho iscritto mio figlio». 

«Tip tap?». 

«Propedeutica al teatro». 

«Se è come te, meglio per lui, effettivamente». 

«Oh, lui è meglio di me in tutto, già adesso». 

«Come si chiama?». 

«Luca». 

«E quanti anni ha?». 

«Sei». 

«La stessa età che avevi tu quando hai iniziato con me». 

«Ne avevo otto». 

«Sì, beh, eri comunque un pischello anche tu». 

Rise di nuovo, ma le spalle rimasero immobili, come appesantite da una profonda malinconia. Tornò  quindi a osservare l’impalcatura, questa volta seguendo con lo sguardo un secchiello appeso a una corda  che un operaio stava tirando a sé a grosse bracciate. 

«In realtà oggi sono qui per il cantiere. È vero, sai? A una certa età inizia a piacerti guardare queste  cose». 

«Sul serio?». 

«Sì». 

«Ma i cantieri sono oggettivamente brutti». «Non è questione di estetica. C’è un senso di attesa e di rinnovo, in tutte quelle passerelle di metallo. E poi, a questa età, non si sa mai se si sarà ancora vivi una volta che i lavori saranno finiti. È una sfida con sé stessi».

Nella voce gli apparve uno stridio, come se l’ovatta che aveva intorno alle corde avesse preso fuoco e  avesse crepitato per qualche istante sul fondo della sua gola. Il suono era emerso ruvido, inasprito da  una paura che Saverio tentò di velare con una risata – la paura di chi sa che ciò che sta dicendo sarà presto vero. E mentre tramutava la risata in un accesso di tosse, pensai a quanto potesse invecchiare  una voce: la sua si era fatta più stanca, slabbrata, accompagnata da una raschiatura che, ci feci caso solo  in quel momento, era presente nel suo tono a prescindere dalle risa, o dalla tosse. 

«Sarà qui per la fine di questi e di molti altri» dissi. 

«Non so, Vanni, non so» rispose.

 

Un’automobile si fermò davanti a noi, e nei secondi che trascorsero per cui uno dei passeggeri  scendesse e recuperasse un borsone dal bagagliaio, fummo raggiunti dalla musica che suonava  attraverso i finestrini abbassati. Saverio allora mosse i piedi e mi fece segno di imitarlo. Nominava i  passi di tip tap che stava eseguendo in modo che li riproducessi, ma io stetti fermo a guardarlo: era  ancora la rana agile che ricordavo, e, cosa che mi aveva sempre stupito, sembrava fossero i colpi dei suoi tacchi a decidere il ritmo della musica, non il contrario. 

L’automobile ripartì e Saverio si fermò appoggiandomi di nuovo una mano sulla spalla, questa volta per  reggersi nel riprendere fiato. 

«Mi hai fatto ballare da solo» disse. 

«Non ricordavo una singola cosa di quelle che ha detto». 

Iniziò a squillare il mio telefono, e lo portai all’orecchio. Quando riagganciai dissi: «Era la scuola. Luca  ha messo il broncio e non riescono più a convincerlo a seguire la lezione. Devo andare a vedere se  posso dare una mano». 

«Tutto suo padre». 

«Certe cose non si possono proprio cambiare, – mi avvicinai a Saverio, e gli strinsi la mano – è stata  davvero una bellissima sorpresa rivederla qui». 

«Anche per me Vanni, anche per me». 

«La prossima volta prometto che mi impegnerò a darle del tu». 

Mi guardò con i suoi occhi umidi e distanti, la bocca aperta con gli angoli all’ingiù, come fosse arresa  alla fatica, e il collo rugoso che un poco tremava nell’affanno del respiro. 

«Promettimi invece che farai provare il tip tap a tuo figlio, – disse, la voce tutto d’un tratto tornata alla  rotondità di un tempo, senza un’incrinatura, come se a parlare fosse il giovane uomo che si  preoccupava per le mie caviglie – almeno provare». 

«Promesso». 

Mi avviai verso la scuola e, prima di chiudere la porta dietro di me, lanciai un’ultima occhiata a Saverio.  Aveva il viso rivolto di nuovo in direzione dell’impalcatura, ma i suoi occhi erano puntati su, in alto,  ben oltre il tetto.

Immagine generata con DALL-E
“still life painting of tap shoes”