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«Mi racconti una storia?», chiedo ubriaca al mio amico. Siamo abbracciati nel suo letto a soppalco, la mia miseria aggrovigliata alla sua.
«Va bene», fa lui, la bocca impastata.
«Me la fai con la voce da western», gl’ingiungo.
«Te la faccio con la voce da western»
Si schiarisce la gola e mi stringe più forte, poi comincia.
«Esiste una creatura che si chiama coccodronco»
«Coccodronco», ripeto soffocando una risatina che mi svela più infantile dei miei trent’anni.
«Sì, coccodronco»
«E com’è fatto?»
Lo sento sorridere al buio: «Il coccodronco è fulvo, di dimensioni contenute»
«Uh.»
«Una volta i coccodronchi che allevava Billy hanno mangiato la casa di Joe, rosicchiandola come dei fottuti castori»
«Quindi sono cattivi i coccodronchi?»
«Ma no, fanno il loro»
Resto in silenzio, il mio amico coglie la perplessità e socraticamente spiega: «La tigre è cattiva per quello che fa? No, fa il suo. Così anche i coccodronchi. Fanno il loro»
«I coccodronchi fanno il loro», ripeto.
Mi addormento tra le sue braccia, proprio nel bel mezzo di una storia complicatissima sui coccodronchi e un’altra creatura immaginaria, il tarteuil (“va pronunciato alla francese”), di cui mi resterà solo il ricordo della sua voce da western, con cui imita alla perfezione accenti non più rudi del suo, quello romano, solo rudi in modo diverso, accenti da cowboy che passa mattine a ruminare tabacco e ad allevare creature fulve, di dimensioni contenute; in grado di popolare storie della buonanotte e di mangiare la casa di Joe, rosicchiandola come dei fottuti castori. Favole che vogliono insegnarmi che la legge della natura esula da quella umana, che invece su tutto moraleggia, anche sugli animali di fantasia.
La mattina mi sveglio con un cerchio alla testa ben distante da un’aureola angelica. Molto più simile ai postumi di una sbornia, come sempre nell’ultimo periodo. Campo di reddito di cittadinanza, passo le giornate a schivare commenti su quelle come me, considerate alla quasi unanimità come dei parassiti sociali.
Mi ostino a ritenere che sia più parassita quell’1% di mondo che detiene, da solo, quanto il restante 99%.
Ma è difficile sentirsi parte di un tutto fatto di poveri, se perfino i poveri si fanno la guerra tra di loro.
Anche il mio amico la pensa così. Lui è molto più intelligente, e molto più sprecato. Quantomeno, io faccio la scrittrice. La faccio quasi gratis, come qualunque esordiente, il che significa che il reddito di cittadinanza è ciò che da un anno mi consente di tentare la realizzazione dei miei sogni, ma anche un sostituto di sussidi statali che in altri paesi – tipo la Francia – vengono dati a chi, come me, fa un lavoro che paga poco ma che è (sempre in altri paesi) considerato di pubblica utilità. Qui scrittrici e scrittori al massimo sono considerati di pubblica inutilità. Da cui il reddito di cittadinanza, e il sentirsi una parassita.
Mi sveglio e sento il mio amico parlare al telefono. È la prima volta che mi capita di ascoltarlo in veste di operatore del call center. Se non lo conoscessi non mi accorgerei dell’astio che malcela dietro parole pronunciate con un tono di voce estremamente educato, tuttavia gelido. Sembra un nobile decaduto. Dev’essere così che appare una persona intelligente e piena di talenti quando è costretta a performare un ruolo alienante.
Anch’io ho lavorato al call center, a suo tempo. È stato uno dei primi lavori che ho fatto e sono durata ben due anni. Due anni a fare da catalizzatore a tutti i vaffanculi d’Italia. Vaffanculi meritati, eh. Infatti, mentre il mio amico lavora a un call center inbound – riceve cioè delle chiamate – il mio era outbound, il che significa che ero io a importunare la gente. Lui è d’aiuto, io ero d’intralcio. Entrambi tuttavia portavamo soldi a qualche azienda ben più ricca di noi. È così che funziona, il capitalismo. Manco a dirlo.
Fingo di dormire ancora per non metterlo in imbarazzo. È che il mio amico ha più di cinquant’anni e davvero troppi talenti perché vengano sprecati da un’azienda che lo tratta da mezzo di produzione. Ed è fin troppo edotto sulla lotta di classe per non sapere che non è neanche una questione di “merito”: non esiste persona che si meriti la serie di lavori di merda che ci obbligano a fare per sopravvivere, punto.
«Porto fuori la cana», dice quando ha finito. «Se vuoi puoi restare a sonnecchiare»
«No, vengo con te». Aggiungo: «Se non m’accollo».
«Non t’accolli», sorride. Ha un sorriso da pirata e occhi luccicanti. Ho sempre paura di essergli di troppo, eppure la nostra amicizia così bizzarra, tra un uomo di cinquant’anni e una donna di trenta, riesce sempre a essere la cosa meno fraintendibile e più familiare che esista. Mi passa consigli sulla musica, mi ha fatto conoscere Billy Bragg e vedere quel video di lui che manda a quel paese Paolo Di Canio e poi gli dedica All you fascists are bound to lose. Tollera divertito il mio atteggiamento ruffiano verso il romanismo; sa che il mio tifo per l’As Roma è giovane e ignorante, che risale solo a quando ho visto un tipo apparentemente senza emozioni scoppiare a piangere e afflosciarsi per terra ripetendo “questo è il giorno più bello della mia vita”, precisamente dopo Roma-Barcellona 2018. Sento la Roma ma non la capisco. Al mio amico basta che io la senta. Credo che per lui sia meglio chi la sente senza capirla di chi la capisce senza sentirla. Cose strane. Cose da romanisti.
«Ma insomma» fa lui, «si può sapere perché sei tornata a Roma?»
«Pffff», sospiro. «Lo vuoi proprio sapere?»
«Eh»
«C’hai presente Loris Salcazzo, il giornalista?»
«Ah sì. Quello che è stato cacciato a calci in culo dalle femministe di Radiondarossa, mi sa»
«Boh, non so molto di questa storia… comunque. Loris Salcazzo mi ha chiamata mentre stavo a Padova e stavo ancora insieme a quel coglione di Niccolò, prima di scoprire tutte le corna che m’ha messo e di realizzare che tanto a me piaceva ancora quell’altro coglione di prima. Mi chiama Loris Salcazzo e mi dice: sta per aprire una redazione di un giornale famoso. Mi fa il nome di ‘sto giornale, non lo conosco anche se in America è una roba grossa. Stiamo facendo i colloqui, dice, e io ho proposto te».
«Anvedi»
«Aspetta, aspetta. Per fartela breve, mi fanno fare avanti e indietro tra Padova e Roma per ben tre volte. Per i colloqui, no? Manco dovessi entrare nella Nasa. Tipo 500 euro in biglietti del treno, mai rimborsati. Mi fanno fare un articolo di prova non pagato, ma non un articolo qualsiasi: un’inchiesta per la quale dovevo andare a Treviso. E calcola che quel mese stavo già senza una lira. Vabbè, faccio tutto questo, sembra che mi abbiano presa, mi costringono pure ad aprire partita Iva…»
«E poi?»
«Intanto esce fuori che la direttrice è nientemeno che Cocorita De André. Che poi al colloquio era pure tutta carina, eh, non pensavo mica. Dolcissima, mi ha detto che secondo lei avevo una buona stella»
«Tu? Una buona stella?»
Ridiamo.
«Ma che ne so. Mi sa che m’ha fatto love bombing. Forse questa roba esiste pure sul lavoro. Comunque, ti giuro, era carina all’inizio. Carinissima. Mi ha detto anche che le sembravo sprecata per il posto che mi stavano offrendo, sostanzialmente un co.co.co. per stare lì full time, performare come pazzi, sabato e domenica inclusi, “perché sai, c’è tanto lavoro da fare, ci vuole passione”. A “ci vuole passione” ho pensato: ma chi sei, Eros Ramazzotti? Però diceva che pagavano tanto, e sono stata zitta. 1200 euro. Boh. Per me è tanto davvero, ma per un full time con un co.co.co.? Così, un giorno le chiedo se posso collaborare da esterna, cosa che in effetti in uno dei tre colloqui mi era stata prospettata. E lei mi risponde stranita. Mi dice che chiunque avrebbe fatto a gara per stare al posto mio. Per non stranirla ancora di più le racconto che il motivo per cui gliel’ho chiesto è che ho avuto brutte esperienze nel giornalismo in passato. Quella roba di molestie di quel pezzo di merda di direttore che sai. Là perde la brocca. Come se stessi dando a lei della molestatrice. Parte completamente per la tangente, non mi ascolta, io balbetto che non intendevo, non volevo offenderla, non…»
«Vabbè, ma poi ha capito?»
«Sembrava di sì! Tant’è che mi dicono: devi aprire partita Iva entro oggi per fare il contratto. Vogliamo solo gente con la partita Iva. Nel frattempo mi avevano già commissionato un secondo articolo, che avevo scritto. Apro partita Iva, chiedo loro se è confermato tutto, loro dicono sì-sì. Nel fine settimana faccio il trasloco da Padova a Roma in fretta e furia, “lunedì ti aspettiamo in redazione”. Così dicono».
«Non mi di’ che dopo tutto ‘sto cottolengo ti hanno lasciata senza lavoro!»
«Bello, “cottolengo”», sorrido. «Comunque aspe’, mica è finita. Allora, è domenica, sono in autostrada. Mi squilla il telefono e per poco non sbando leggendo il nome: è Cocorita De André. A rischio di fare il botto le scrivo che sto guidando, ma che se vuole però possiamo sentirci, mi fermo al primo Autogrill se serve. Lei risponde che non c’è problema, ci sentiremo stasera. Torno finalmente a casa, c’ho l’ansia, provo a scriverle. Mi risponde piccata: “Sono in diretta Tv col mio programma la domenica sera, da due anni. Pensavo lo sapessi”. I miei se la vedono pure quella merda, certo che lo sapevo! La tv non ce l’ho da un secolo, però, e la mia vita francamente non gira attorno a lei. Comunque. Vabbè, per fartela breve mi ha pisciata. Il giorno del trasloco. Mi ha detto che quello non era il posto per me»
Il mio amico rimette il guinzaglio a Sally Brown, la cagnolona con gli occhi buoni. Controlla che non le si sia ficcato qualche forasacco nella pelliccia color cioccolato. Una volta le è successo, ha ancora la cicatrice, la scemotta. Dopo il check canino, rompe il silenzio chiedendo:
«Perché, era il posto per te?»
«Macché»
Passeggiamo in silenzio. Mi perdo nei ricordi della prima e unica riunione di redazione a cui mi abbiano concesso di partecipare. Una decina di persone. A capotavola, Cocorita, appollaiata come una grossa pappagalla con gli occhiali di vetro di Murano e i vestiti eleganti, il suo sontuoso piumaggio variopinto. Ricordo la sua aria di sufficienza alla Miranda Priestly, senza essere Meryl Streep. La spocchia con cui dice che l’ufficio stampa non deve toccare il comunicato a cui ha lavorato perché “ci sarà un motivo per cui questa… come si chiama… questa Silvia… è solo Silvia mentre io sono Cocorita De André!”.
Ancora basita per il modo in cui ogni individuo della redazione le lecca il culo riducendosi a tassello del suo grosso ego piumato, non sono però pronta alla scena seguente. Dobbiamo trovare un nome a delle figure fatte a fumetto appositamente per la rivista. Uno di loro esclama, con l’aria di un’illuminazione: «Ce l’ho, ce l’ho!». E scandisce fiero: «I nani moretti».
Poi si affretta a spiegare: «Sono due nani un po’ mori, un po’ scuri…». Mentre trasalisco pensando al retrogusto da giornale di regime, nonché a quanto mi darebbe fastidio se fossi affetta da nanismo, vedo lei, Cocorita, andare inaspettatamente in sollucchero. «Geniale!». Immagino di prendere appunti su quello che succede qua dentro per scriverci un libro e sopravvivere psicologicamente all’ambiente. Già lo vedo. Titolo: La redazione. Sottotitolo: Il diavolo veste Prada incontra Boris.
Questi miei flashback, che assumono sempre più l’aspetto di una sindrome post-traumatica da stress, vengono interrotti da un foglietto che cade dalla tasca del mio amico.
«Oh, zì! Ti sei perso questo».
«Che è?», prende in mano il pezzo di carta. «Ah»
Sorride misteriosamente, ora. Sembra ridacchiare tra sé e sé. Gli chiedo di cosa si tratti. Lui risponde con nonchalance:
«Sai quando al call center trovi un cliente particolarmente stronzo? Di quelli che, pure se tu fai tutto bene, ti devono rovinare la vita? Ecco, quelli di solito mi chiedono di parlare con un superiore. E mi chiedono pure il mio numero identificativo». La bocca si allarga in un sorriso. «Quando lo fanno, io gli detto questo. Ci credi che non se ne accorge mai nessuno?»
«Accorge di cosa?»
Il mio amico mi porge il foglietto. Sopra, una sequenza di numeri e lettere con nessunissimo margine di fraintendimento. C’è scritto:
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Immagine generata con DALL-E
“a hen dressed as a career woman is in front of a meeting table, surrealist painting”