Skincare

Prima che arrivasse T, dedicavo almeno un’ora al giorno alla skincare. Avevo insistito talmente tanto che alla fine mamma aveva fatto installare una mensola apposta per i miei prodotti del bagno, proprio di fianco al grande specchio in cui tutti i giorni, due volte al giorno, mi occupavo della mia faccia. Religiosamente, ogni sera, detergevo il viso e le parole di quella giornata scivolavano via, sulla superficie liscia della mia pelle – applicavo il detergente oleoso, praticando una leggera pressione con le dita, e i ricordi si scioglievano subito nell’aria, lasciando un’effervescenza che tutt’al più mi solleticava. Con la spugna di konjac (che tenevo accuratamente riposta nel mobiletto azzurro, secondo scaffale) completavo il lavoro, e osservavo gli ultimi residui di sporco depositarsi sulla superficie porosa e poi defluire, rassegnati, nel lavandino. A quel punto la mia pelle era pulita ma spenta, stanca da tutto quello sfregare e stropicciare e depurare: allora nebulizzavo il tonico (per assorbire meglio i principi attivi) e applicavo il siero alla vitamina C (principio attivo), immergevo l’anulare nel barattolino del contorno occhi con la polvere d’oro e lo stendevo sulle occhiaie, infine mi cospargevo fino al decolleté di una crema viso corposa, per la notte, che mi avrebbe schermata dagli incubi e mi avrebbe rinnovata in tempo per la mattina successiva. Praticando quell’ultimo passaggio, riuscivo a sentire l’aloe vera che veniva assorbita dagli strati dell’epidermide sempre più in profondità, una sorta di effetto trickle-down dermatologico. Nelle otto ore successive, quella pomata dal profumo delicato si faceva strada attraverso l’epitelio e giù per i fasci del tessuto muscolare, riattivando le mie capacità motorie, per giungere a una materia dura, mineralizzata, color avorio, e infiltrarsi tra le lamelle. Poi si mescolava al midollo, diluendolo e amalgamandosi al colore come tempere su una tavolozza. Quando mi svegliavo il giorno dopo non dovevo far altro che ripetere tutti i passaggi e sostituire la protezione solare alla crema idratante, che invece di trapassare i miei tessuti si rifletteva sull’esterno e inchiodava le cose al loro posto, ordinatamente.

Il mondo aveva finalmente senso, da quando mi curavo della mia pelle.

Eppure T – ancora mi chiedo come – sfuggiva all’effetto che fino a quel momento avevo considerato implacabile: l’avevo incontrato a una festa e, mentre tutti gli altri erano fissi ai loro posti, organizzati in modo schematico, lui si muoveva, spirito sfuggente, ballava libero. La sera che l’ho conosciuto non sono tornata a casa, e i prodotti sono rimasti chiusi sulla mensola, la spugna di konjac abbandonata nel mobiletto azzurro.

Tra le sue lenzuola, per una notte, gli ho permesso di vedere le parole della giornata sulla mia pelle, sbiadite ma non dissolte, e lui le ha accolte e accarezzate con dolcezza.

La vita di T era fatta di poche cose, ma salde: il disegno, la montagna, la musica, la ganja. La prima volta che lo vidi dipingere, attorcigliato tra spirali di fumo con Julee Cruise in sottofondo, mi innamorai di lui. E così il detergente, la spugna, il tonico, il siero, il contorno occhi e le creme passarono in breve tempo da un’esistenza sedentaria a una vita itinerante. Avevo adibito a beauty case una busta di tessuto bianca, con le rifiniture in verde, che la dentista mi aveva regalato dopo che i miei avevano sborsato migliaia di euro per l’apparecchio. Nel bagno di T non c’era nessuna mensola che potesse ospitare il mio arsenale di prodotti per il viso, quindi lasciavo la busta in camera sua ed era lì che praticavo la mia routine. All’inizio non aveva detto niente, mentre io sfregavo, nebulizzavo, spalmavo, lui fumava e mi raccontava la sua giornata di sera, sonnecchiava e rimandava le sveglie di mattina. Ogni tanto però succedeva che litigassimo, e poi quando facevamo pace voleva rimanere con me, nel letto a dipingere, per sempre. E allora mi tratteneva e si avvinghiava e io lo assecondavo, e finiva che rimanevamo intrecciati e impiastricciati di colore fino a mattina, e il beauty case rimaneva chiuso. “Dovresti uscire di più” mi diceva, “stare nella natura, respirare aria fresca, bere acqua di montagna”, suggeriva mentre eravamo entrambi al telefono in camera sua, poi mi accarezzava e mi diceva “sei così bella struccata, così vera” e io sorridevo e pensavo a loro, i prodotti, che funzionavano meglio dell’acqua di sorgente e dell’aria tersa del Monviso, ma se gliel’avessi detto non ci avrebbe creduto.

Un giorno discutemmo perché dovevamo fare una gita fuori città, ma io avevo il ciclo e avevo tergiversato fino alla mattina stessa, per poi dirgli che non sarei andata.
«Cazzo Fra, potevi dirmelo prima però, io ho detto agli altri che non c’ero per stare con te» aveva urlato, «Adesso mi tocca stare qua a non fare un cazzo.»
Io uscii da casa sua sbattendo la porta e con il senso di colpa che mi prendeva alla gola, poi andai a lezione. Nel pomeriggio realizzai che quella mattina avevo dimenticato tutto da lui: il detergente, la spugna, il tonico, il siero, il contorno occhi, le creme, tutto dentro la busta di tessuto. Gli scrissi un messaggio ma lui lo visualizzò senza rispondere.

Era da tanto che non mi guardavo nello specchio di casa mia, mi resi conto mentre osservavo il mio riflesso che perdeva la sua forma e diventava progressivamente più sfocato. Sentivo le guance in fiamme, quel “cazzo, Fra” inciso sulla pelle, ma non vedevo niente, era tutto annebbiato. Per la prima volta da tanto tempo, avevo un bisogno fisico di depurarmi dai resti della giornata, non potevo andarmene a dormire con quel marchio a fuoco sulla pelle. A malincuore, mi arrangiai: recuperai un sapone di Marsiglia, una spugna da cucina, uno spray con dell’acqua, l’olio alla mandorla di mia madre e la sua crema per il corpo. Detersi con foga, nebulizzai, nutrii il viso con quei prodotti improvvisati, un surrogato di skincare. Completata la routine, la mia faccia nello specchio era di nuovo nitida, ma sapevo che nessuna di quelle pomate di ripiego avrebbe raggiunto i muscoli, le ossa o il midollo, lenendo completamente il malessere che provavo. La mattina dopo presi il solito pullman per andare a casa sua, e il tragitto mi sembrò lunghissimo nonostante fossero solo una ventina di minuti. Avevo un taglietto sul mento che continuava a bruciare – dovevo aver sfregato quel punto con troppa veemenza – quindi scesi alla fermata prima per passare in farmacia a comprare un cerotto. Camminando per il viale, mi resi conto che non avevo mai percorso quel tratto a piedi: gli alberi, che sull’autobus si susseguivano veloci e indistinguibili, ora erano maestosi e diversi fra loro, riuscivo a vederne la forma delle foglie e i movimenti causati dal vento. In mancanza dei miei soliti riferimenti visivi, mi appigliai a loro, al profilo delle montagne e al verde.

T mi stava aspettando, la sua camera era in ordine e stava ascoltando i The Mamas & The Papas che piacciono più a me che a lui. Piansi e facemmo pace. Lui mi mostrò la busta di tessuto, abbandonata sulla sua scrivania. In quei momenti di sollievo, dopo una litigata, diventavo più accomodante – era quasi sempre colpa mia, e a me spettava farmi perdonare. T nel tempo aveva testato i miei limiti, e a ogni litigio sapeva di poter alzare, seppur di poco, l’asticella – di questo mi sono accorta solo recentemente. Quel giorno, mentre eravamo ancora nudi, mi accarezzò i capelli e mi disse:
«Sei troppo bella, voglio dipingerti.»

«Dimmi che posa devo fare» replicai.

«No, non hai capito. Non voglio farti un ritratto, voglio che tu sia la mia tela. Voglio renderti un’opera d’arte, cazzo.»

Avevo riso.
«Sì certo.»

Mi aveva guardata dritta negli occhi:
«Faccio sul serio, Fra.»

Io allora avevo acconsentito. L’avevo osservato mentre si girava un purino, tirava fuori i pennelli, preparava i colori a olio, faceva schizzi a matita su un foglio di carta, mi scrutava strizzando gli occhi. Non parlavamo, né io né lui, T mi dava istruzioni muovendomi le braccia, aggiustandomi le mani, il volto. Iniziò coi pennelli: stese una base color ocra sulla mia faccia e percorse il tragitto dall’attaccatura dei capelli al mento, aggirando il cerotto, con un verde smeraldo. Poi proseguì con le mani: l’indice tracciava forme grossolane, mentre applicava pressione col mignolo laddove voleva disegnare dei pois. Col fondo del palmo creava delle sfumature, con le unghie le linee più sottili. Non me ne rendevo ancora conto, ma in quel momento T stava trasponendo sé stesso sulla mia pelle, stava sovrapponendo la sua arte chiassosa alla mia, al contrario delicata e invisibile. Ci mise ben più di un’ora e ben più di qualche strato a completare la sua opera, a guardarmi e a dire: 

«Sei la cosa più bella che abbia mai visto.»

Quel giorno, mentre guardavo T sorridendo, i colori, impressi sulla pelle, avevano già iniziato ad asciugarsi e a fare il loro corso verso il centro del mio corpo. L’odore morbido dell’olio stava sostituendo l’aloe vera e presto avrebbero dipinto il midollo di linee, pois, forme irregolari, si sarebbero infiltrati nel mio sistema circolatorio e avrebbero pompato il cuore di pigmenti. Avevo recuperato il beauty case, i miei prodotti erano al sicuro a qualche metro di distanza da me, eppure sapevo che per il detergente, la spugna, il tonico, il siero, il contorno occhi, le creme era già troppo tardi.

Immagine generata con DALL-E
“painting of a white canvas bag overturned on a desk, many skincare products come out, music posters on the background wall, an ashtray”