Prospettive

14 aprile

Ho preso posto davanti alla finestra, dove la luce arriva sul tavolo. Qui, potrò starmene tranquillo a scrivere, lontano dai curiosi.

Da ragazzo mi divertivo a fare un gioco: guardavo i piedi degli altri. Vi assicuro che ero in grado d’indovinare il carattere delle persone dal modello di scarpe. 

Le facce m’interessano poco. Ci ho sempre visto delle maschere, volti rasati davanti a uno specchio, oppure bocche e zigomi rifatti fino all’ossesso.

Alle facce che ho conosciuto nella mia vita preferisco il viso itterico del tipo che lavora qui in mensa. Ogni giorno la sua schiena ad arco si allunga sopra al bancone; è uno dei pochi che mi sta simpatico qui.

Voi potreste ancora vederli, quei piedi, e neppure ci fareste caso. Io non posso, ma li ricordo tutti e allora li metto subito su carta.

In fondo, non mi lamento. Dopo la mezza giornata di lavoro, ho parecchio tempo libero. A volte mi metto a scrivere, soprattutto dopo pranzo e la sera.

Di notte, quando gli altri diventano meno chiassosi, mi arriva la risata di mio padre. Si accasciava davanti alla TV sulla poggia sedere: così chiamava la sua poltrona. Di lui ricordo la birra nella mano sinistra e la sigaretta nell’altra; la faccia sudata e poi le righe verticali sulle unghie. A ogni respiro lanciava lunghi fischi fino a perdere i sensi; la stoffa dello schienale aveva un alone di sudore beige scuro, come un grosso buco nero. 

Le ali dei colombi fanno lo stesso rumore dei raggi della mia bici. Quando chiudo gli occhi e poggio la testa sul cuscino sento l’odore dell’inchiostro. Da bambino tagliavo l’aria sopra la due ruote mentre distribuivo i quotidiani. Rivedo la nostra strada polverosa e sento la voce calma di mia madre; me la ricordo in piedi sotto il porticato di casa nostra. 

Metteva le mani sui fianchi, i capelli erano legati in una coda bassa. Urlava: “Dan – solo lei mi chiamava così – Dan, non correre mi fai venire uno spavento!”

Mi manca la sua voce. Lei era la parte migliore delle nostre giornate, a casa: l’unica ragione per cui abbiamo resistito. La mattina, si alzava prima di noi figli, prima che lui si svegliasse. Si sforzava di sembrare di buon umore. Continuava a sorridere mentre mi accarezzava i capelli. Nessuno parlava; anche in quel momento familiare dove avremmo potuto confrontarci, facevamo cadere gli occhi nei piatti, e basta.

Siamo davvero bipolari. Ci sentiamo in diritto di criticare il vicino di casa se lascia la spazzatura sul pianerottolo o diamo del delinquente a chi passa col rosso. Scommetto che siete di quelli che vanno in chiesa a pulirsi la coscienza, magari solo a Pasqua, sennò è peccato mortale.

Per uno come me che ha vissuto il perturbante per quasi tutta la vita è facile riconoscere le persone dietro le maschere.

Quando sono stato affidato alla nuova famiglia avevo undici anni, dopo che nostra madre è morta.

Non ho più avuto notizie dei miei fratelli. Negli occhi di quella famiglia c’era il bisogno di fare del bene a un ragazzo rovinato dalla vita. Sono scappato dopo neanche un anno.

Ho messo su i jeans con cui ero arrivato. Aprire la porta e andare via è stato semplice, come respirare. 

Mi sono perso, quasi subito: barbone, ladro, tossico… Se fossi morto, forse, sarebbe stata la mia salvezza. Era il 2008, avevo vent’anni e avevo già bruciato la mia vita. 

Mi acciuffarono. Qualcuno, in aula, disse che ero il soggetto giusto per la “TEC”: la terapia elettroconvulsivante. Ma l’avvocato d’ufficio fu davvero bravo: niente Tec. 

Ho sentito molti racconti su di ‘lei’ da chi ci è passato. Nelle strutture, di notte, mentre gli altri ricoverati facevano finta di dormire, sistemati come bestie dentro le loro cuccette, ecco che due o tre infermieri piombavano su qualcuno. Al prescelto, per impedirgli di urlare, veniva messo un fazzoletto in bocca, portato nell’altra stanza e legato al lettino. 

Mi hanno raccontato di come usavano la macchina: prima poco, poi aumentavano l’intensità, ma senza esagerare, altrimenti ne uscivi peggio di un vegetale. Uno psicologo una volta disse che era come aggiustare una radio che non funziona bene. 

Nessuno può distruggermi il pensiero.

Ne ho fatta di strada: mi sono mischiato ai delinquenti, ho rubato, ho corso sotto molti tunnel per sfuggire alla polizia. Ho picchiato coi pugni e con qualsiasi oggetto mi capitasse a tiro. 

Ho visto morire tanti amici. Ho bruciato ogni possibilità, e che fine ho fatto? 

A volte credo che a Dio piaccia mescolare le carte delle nostre vite.

Vengo da una famiglia dove il giorno più felice è stato quando mio padre ha dimenticato di picchiarci. Sono cresciuto tra bottiglie di vino e pile di lattine di birra sul pavimento. L’ho guardato in faccia solo una volta: il giorno in cui è morto. 

A volte sono stanco di me stesso, stanco di essere considerato spazzatura. Se avessi avuto tanti soldi sarei scappato da quella dannata vita e avrei convinto mia madre a fare lo stesso, prima che morisse di dispiacere per quell’uomo di merda. 

Ci saremmo sparpagliati nel mondo, avrei messo su famiglia e la mia vita avrebbe avuto la sua seconda possibilità. 

Mio padre urlava dallo stomaco mangiato dall’alcool: “Tua madre… è tutta colpa sua!” Quando finiva di picchiarla si giustificava, dicendo che le donne portano gli uomini alla rovina. Non so cosa pensassero i miei fratelli di quei discorsi. Non c’era la voglia di chiedere, di capire.

Vi giuro! Io non ho mai alzato una mano su una donna. Ho conosciuto la morte, la paura, ma la violenza sulle donne, quella no, non mi appartiene. Chiedetelo alle mie ex: ancora mi cercano.

Chiuso in questo carcere ho tanto tempo per scrivere. Dicono che sia terapeutico. A volte, per allontanare i demoni del passato metto le dita sulle mie palpebre e premo, li ributto dentro.

Ci sono momenti in cui mi sento libero, come quando ero un accattone. In quel periodo, dovevo solo preoccuparmi di racimolare il necessario per campare. 

Qui dentro ho imparato che, quando capisci dove tira il vento, campi tranquillo; ho capito chi è che comanda e mi guardo bene dal litigarci. Ho anche diversi alleati. Ma lo sanno: non voglio guai. 

Anche la preghiera mi aiuta: Dio è un interlocutore interessante. Sto imparando a fare pace con me stesso. Questo non vuol dire che sia pentito per ciò che ho fatto. Se non lo avessi spinto giù per le scale, nostro padre ci avrebbe uccisi nel sonno. Lo rifarei, sia chiaro! 

Sarebbe già tanto poter rimanere qui, seduto per un tempo incalcolabile a guardare fuori, anche se fuori c’è il nulla. Perché, quando torno nella mia cella, la mente inizia a giocare, a fare brutti scherzi. Qui posso spostare l’attenzione, giocare coi ricordi, fingere che non sia successo. 

Scrivo e disegno.

Questo sono io.

Immagine generata con DALL-E
“a man sitting on an armchair with a beer in one hand and a cigarette in the other is illuminated by the light of the TV, oil painting of the scene seen from the back of the armchair”