Fast Car

Ceretta intima

25 maggio 2021.

Sono in lizza per la mia tosatura estiva.

Da Luisa, sempre da Luisa, perché è l’unica da cui non mi disturbi farmi fare la ceretta integrale. Alcune sembrano giudicanti quando la chiedi intera; altre, forse più avvezze a pratiche BDSM che all’arte dell’epilazione, sembrano sempre sul punto di strapparti il clitoride con la cera. Quindi, Luisa. Luisa fa sentire a suo agio la mia fica. 

Ci stiamo aggiornando sulle novità. Lei ha quasi sessant’anni, e un matrimonio naufragato alle spalle. Mi racconta che il tipo nuovo – conosciuto a lezione di salsa, dopo una lunga fase di comprensibilissima androfobia – in realtà aveva un’altra. Altre due, a essere precisi. Che poi lei e quell’altra prima, quell’altra ancora dopo, si sono viste, e si sono abbracciate. Non è ancora il tempo di Shakira e Clara ma, a differenza della cantante, Luisa è stata brava, e infatti tutte insieme hanno cacciato il coglione a pedate dalle loro vite. Mentre ne parliamo immaginiamo spedizioni punitive, torture con la cera. Una volta ho letto da qualche parte una frase che faceva più o meno così: “se puoi cucinare una torta, puoi preparare una bomba”. If you can bake a cake, you can make a bomb. Pensa se per lavoro strappi i peli intimi alla gente, cosa puoi combinare. In potenza, certo. 

Al fedifrago diagnostichiamo una forma di narcisismo patologico – con quello si va sul sicuro. 

«Ho letto un libro, ultimamente, si chiama La scienza del male di Simon Baron-Cohen. L’autore è tipo il fratello dell’attore che fa Borat, però fa lo psichiatra a livelli alti, e dice che le persone con scarsa o nulla empatia spesso sono narcisiste o borderline. Dice anche che non è vero quello che diceva Hannah Arendt, il male non è per niente banale. Non è solo un discorso di conformis… ouch!» dolore «…di conformismo» concludo dopo l’ennesimo strappo turbolento. La scienza del male dovrebbe essere un libro sulla ceretta all’inguine, mica sul nazismo.

«C’ha ragione Borat», dice Luisa solenne. «Stanno male di capoccia, te lo dico io. E la cosa peggiore è che in terapia ci va la gente a cui fanno danni, per riacchiapparsi. E loro? Liberi, a manipolare la prossima.» 

«Che merde», concordiamo in coro.

Sento il suono di un messaggio. È nella chat di Facebook, leggo:

Proprio bello il libro, però magari meglio parlarne dal vivo. Ti posso chiamare?

«Ah!» esclamo. «Guarda questo, per esempio. Manco lo conosco, si è letto il mio libro e mi vuole addirittura chiamare. Ma chi cazzo è, che vuole?»

Non faccio in tempo a finire la frase che arriva un altro messaggio.

«Comunque la pubblicità della barca piccola e malandata era dopo Casper, ti sei sbagliata.» 

Deglutisco. C’è solo una persona al mondo che può correggere questo dettaglio del mio libro. L’unica che può saperlo. Quella per la quale l’ho scritto, il libro. La stessa persona che non vedo e non sento da dieci anni, senza conoscerne il motivo. 

«A-aspè. Luisa, non hai capito che è successo.»

L’estetista alza lo sguardo, intercettando i miei occhi sconvolti. 

«Mi ha scritto mio fratello.»

Non devo spiegare altro. Lei sa. 

Sei tu zì?, gli scrivo.

E chi sennò? (emoticon con faccetta che ride). 

La ceretta finisce veloce, pago altrettanto rapida. Un attimo dopo sono al telefono con lui. Sentirne la voce è stranissimo. Sapere che ha letto il libro, lui che non legge, ancora di più. Ma il fatto che gli sia piaciuto è davvero inverosimile. Concordiamo di vederci da Rugiati, a due passi dal centro estetico, una pasticceria in cui andavamo quando eravamo piccoli. Lui prendeva i tartufi al cioccolato, io il mont blanc. Hanno il migliore di Roma, secondo me. Oggi però non è stagione, siamo a maggio, e in più ho lo stomaco serrato. Niente mont blanc, troppe emozioni. Ho il cuore impazzito e sudo. Sta davvero venendo qui?

Prima della ceretta avevo comprato un peluche, per cui me lo sono portata appresso. È un piccolo polipo, di quelli double face: un lato è viola e ha la boccuccia all’ingiù, l’altro è di un rosa maialino e, invece, sorride. L’ho comprato perché ero in ansia per le prime presentazioni del libro, e il peluche a forma di polpo imbronciato mi sembrava buono a sdrammatizzare questo sentimento, concretizzandolo in un oggetto, peraltro così kawaii. Decido che il polpo di peluche non è sufficiente a farmi da spalla in quest’incontro, così faccio un salto dal tabaccaio e compro le sigarette. Avevo provato a smettere di fumare per la quattordicesima volta, ma da quando è uscito il libro ho sbracato. Quando arriva, mio fratello non mi giudica. Mi dice che ha iniziato a farsi “le cannette”, così le chiama. Come raccontarsi dieci anni di vita? Parla lui. Tutto il tempo. Mi racconta che con la persona con cui sta da tanti anni non è un momento facile, che a volte se la prende con lei, si sfoga e lei è arrivata al punto in cui neanche gli risponde più. «A volte ho paura di diventare come papà.». Silenzio. Lo osservo. Rispetto all’ultima volta che l’ho visto, una decina di anni fa, ha tanti tatuaggi e un po’ di barba e di pancetta, ma non tanta, e poi è un sacco alto, e ha una collana a pallettoni e le scarpe da tennis bianche con il logo olografico, color unicorno, cangiante. Ha una maglia bianca a maniche corte con sopra una canotta da basket rosa che sfuma nel celeste, con dietro la scritta “Herro”. Non è diventato pacchiano per niente. Scommetto che ci sono pesci che hanno la stessa livrea, penso ridacchiando tra me e me. Che stupida. 

«Chi è Herro?» gli chiedo riferendomi alla maglia.

«Dovrebbe essere un giocatore, anche se non ne capisco di Nba. Mi piaceva.»

Annuisco. 

«E… che stai facendo ora?»

Riempio i silenzi, pochi, con domande. Lui non fa altrettanto. Mi racconta che faceva l’agente immobiliare prima, poi con la pandemia ha dovuto ripiegare su un lavoro come corriere per Amazon. Ammazzon, la chiama. Dice che potrebbero dargli l’indeterminato ma lui non desidera vivere e morire lì; dice anche che la vita è sopravvivenza, e che provare a essere cattivi quando si è in realtà incapaci di esserlo è un problema.

«Oh, zì» gli dico all’improvviso. «C’è una cosa di cui volevo chiederti scusa. Quando ho venduto i tuoi pantaloni della Jeckerson. Lavoravo al call center e stavo a rosica’ che eri sparito senza una parola. Così li ho venduti. C’ho fatto du’ spicci, ma se vuoi te li ridò. Non avrei dovuto.» 

Mi manda a fanculo e dice che mi perdona. Ci scambiamo un po’ di racconti dei nostri anni di tentativi di emancipazione definitiva dalla famiglia d’origine, che poi sono racconti di fallimento. Lui è passato da casa dei miei a una convivenza che ancora dura; io sempre da sola, al massimo coinquilini, molti. 

Decido di chiedergli, finalmente, un chiarimento. «Ma si può sapere perché sei sparito?»

«Ce l’avevo con loro» “loro” sono mamma e papà, «Sei stata un danno collaterale». Così, dice. Danno collaterale. Mi vengono in mente i droni che bombardano i civili, e i governi che quelle morti le definiscono proprio così, danni collaterali. Che dovrei dirgli? Che mi sta bene? Taccio di nuovo. Sono talmente felice di rivederlo che non so davvero prendermela con lui, problematizzare la minima cosa.

Prima di salutarci, seduti fuori dalla pasticceria, gli propongo di fare una cosa che facevamo da piccoli e che, da quando è sparito ma forse da qualche tempo prima, da sola non facevo più. 

«Il polipo come lo chiameresti?», gli chiedo agitando il peluche. 

Ci pensa un po’. Poi fa uno sguardo malandrino, cinque anni ha quello sguardo e per dieci mi era mancato, e dice: «Polpin». Si imbarazza e io sorrido forte: mi era mancato il suo, di sorriso, quello a metà. Per farglielo capire senza mezzi termini, giro il peluche appena ribattezzato Polpin dalla parte rosa, quella felice.

Una volta tornata a casa, sul mio diario scriverò: 25 maggio 2021, il giorno più bello della mia vita.

Nel mio elemento

Sei mesi dopo, inizio a capire non solo che la scrittura è un atto magico, capace di resuscitare i morti. Ma anche che non conviene farlo. È come nei film, quando torni indietro nel tempo e cambi le cose: provaci. Guarda che succede. Ti dice culo se scampi all’apocalisse.

Domani devo partire per la Sicilia, ho un paio di date in cui devo presentare il mio libro e sono contenta di tornare in una regione di cui mi sono innamorata. Stasera, però, sono di nuovo Martina la sorella maggiore. Quella che la chiami e si precipita. Quella che ti difende dai cattivi. Senza aspettarsi che tu difenda lei. Mio fratello in questi mesi mi ha spiegato il reale motivo per cui è sparito per un decennio: la relazione con la tipa. Lei ha quindici anni più di lui e viene da una situazione familiare complessa; rumeno-tedesca, la mamma si prostituiva. L’ha presto lasciata alla nonna, che però non la trattava bene. Da piccola passava molto tempo per i boschi. Quando è venuta qui in Italia si è rimboccata le maniche e si è messa a lavorare, ma con gli uomini non è sempre stata fortunata: quello prima di mio fratello una volta le ha messo le mani al collo e per poco non l’ammazzava. Di una così, diresti che è tosta. Che è risolta, ormai. E che, di certo, non è violenta a sua volta. Bene: solenni cazzate. A quanto pare è lei che l’ha allontanato dalla famiglia, e la cosa a lui è andata bene perché aveva i suoi motivi per andare avanti con la sua vita rispetto a noi. Se non fosse che litigano in modo violento. Lui è troppo più grosso di lei, e – mi ha detto – non si azzarderebbe mai a toccarla. Me l’ha giurato, e ho deciso di crederci. Lei, invece, gli ha lanciato un portacandele di vetro in testa, gliel’ha aperta e non è manco potuto andare all’ospedale, perché la tipa era terrorizzata di beccarsi denunce. Il colmo a quanto pare l’ha raggiunto dopo che ci siamo rappacificati (“il tuo libro mi ha salvato zì, pensavo che non mi voleste bene, che tu non mi volessi bene”): gli ha chiamato le guardie a casa. Perché? Non le piace che lui si fumi una ninna-canna, a volte, prima di dormire. Così ha pensato bene di chiamargli le guardie. È un Vito terrorizzato quello che mi telefona il giorno prima della mia partenza per la Sicilia, all’ora di cena. «L’ho lasciata ma non mi vuole fare andare via di casa. Sono paralizzato. Non so che fare.»

«Come, non sai che fare? Non puoi semplicemente uscire?»

«Non mi riesco a muovere, ti dico. Mi sento bloccato. Lei non mi fa uscire, e se insisto fisicamente ho paura che chiama le guardie di nuovo.»

«Vito», gli dico col tono più serio che possiedo. «Giurami che non hai mai alzato una sola mano su di lei.»

«Giuro. Mi vieni a prendere?»

«Certo.» 

Sembra una di quelle conversazioni che fai da piccolo coi walkie-talkie. Che il mondo fuori, quello immaginario, è pieno di mostri e voi siete gli eroi e allora vi passate le informazioni di soppiatto, e poi vincete tutto. Perché il gioco l’avete inventato voi. E vincere nel gioco vi aiuta a fingere di vincere in una realtà che non potete cambiare, perché siete troppo piccoli. Una realtà in cui non fate che perdere, e perdere, e perdere. Ma poi si cresce. No?

Ho trent'anni, domani devo stare in Sicilia, e mi sorprendo della naturalezza oscena con cui ho dismesso i panni di scrittrice per indossare quelli di sorella maggiore. So che non sono sani. È per questo che provo disgusto per la rapidità con cui entro nel ruolo.

La freddezza lucida di ogni gesto che cozza così forte, e non da oggi, con la mia normale goffaggine. Sono così fin da bambina: nella crisi ho il massimo controllo. Nella quotidianità, invece, mi perdo in un bicchier d’acqua. Si vede che serviva che qualcuno assumesse questo ruolo, in famiglia. Ero io.

Sono io. 

Lo sono ancora, penso mentre premo l’acceleratore della Smart sulla Colombo. Lo sono ancora, penso mentre citofono all’indirizzo che mi ha dato, nei pressi dell’Eur. Lo sono ancora, penso mentre mi risponde lei, e capisco che non mi aspettava. Lo sono ancora, mentre salgo le scale e suono alla porta. Il cuore mi batte meno forte di quello di un rettile. Avevo dimenticato quanto funziono nelle emergenze. Sembro fatta in provetta per questo, e forse è così.

Se c’è una cosa che ho imparato dalle mie esperienze con le persone violente ma infami, cioè  quelle che hanno la denuncia facile e pretestuosa, è registrare. Non dovrebbe essere legale, ma ci sono dei casi in cui la legge invece te lo consente: per esempio quando un capo molesto ha già dato prova di esserlo. Avvio una nota audio dell’iPhone un secondo prima di suonare, lo rimetto in borsa; sto registrando, mentre entro a casa loro. Ho già deciso che, se lei alzerà le mani su di me o su di lui, non reagirò.  

«Ciao» dico.

Nessuna risposta, da mio fratello solo un cenno.

Fa impressione vedere un uomo adulto, di quasi trent’anni e alto un metro e novanta, tutto rannicchiato vicino a una quarantacinquenne bassina ma non minuta, le ciglia finte e l’abbronzatura, i capelli corti, le unghie lunghe. È lei a parlare.

«Tu stai facendo una cosa che non devi fare, eh.»

Ci metto un attimo a capire che sta parlando con me.

«Stai parlando con me?»

«Sì, sto parlando con te, idiota

Idiota. 

Respiro. Ho un obiettivo: portare quel coglione di mio fratello fuori da questa casa. Ai cocci della mia dignità di coatta che non può darle un cazzotto e mandarla a fanculo ci pensiamo dopo. 

«Non raccolgo.»

«Sta parlando con me!» mi imita in falsetto la stronza. «Poverina, guarda quanto sei stupida. Come tuo fratello.»

«Ah» rispondo noncurante. Come a dire: registrato. In tutti i sensi.

È Vito ad agitarsi. Parla con lei, ha il tono di uno di quelli che nei film cercano di calmare un pazzo: 

«Non devi chiamare le guardie. Adesso non ti mettere a chiamare le guardie. Mi rovini la vita, a chiamare le guardie.» 

Non riesco a vederlo così, e una cosa la dico: «Guarda che è diritto tuo invitare la gente a casa. Che gli deve di’ alle guardie?»

A questo punto gli si avvicina minacciosa, sembra volerlo colpire. «Non risponderle, è una provocazione!» so benissimo – e lo sa anche lui, ma è una testa calda – che se alza un solo dito lei chiamerà la polizia. Non reagisce, infatti.

Lei cambia bersaglio. Punta su di me. Mi prende per il collo e mi butta fuori di casa. Resto lì. Non mi ha manco fatto male. Come dicevo, con la dignità farò i conti più tardi. Ma come sa chi è cresciuto in un contesto violento, è il risultato che conta, non chi mena di più. Il risultato qua è portare fuori da questa gabbia la persona che ha chiesto di farlo, e uscirne puliti, senza denunce. Resto ferma. Fuori dalla porta. Li sento discutere. Lui si dev’essere fatto forza, perché dopo una lunga litigata mi raggiunge fuori. Trema da capo a piedi, provo molta tenerezza ma anche una punta di fastidio: proprio io, che ho scritto un libro sulla violenza maschile, mi trovo a dover ragionare di donne abusanti. È il karma o cosa? L’adrenalina scende mentre saliamo insieme nella mia macchina. Gli viene da piangere e continua a ripetere che si è tenuta il suo gatto. 

Double face

È passato esattamente un anno dal 25 maggio 2021, il giorno in cui è tornato. “Il giorno più bello della mia vita”, a leggere il mio diario. Il giorno da cui il polpo di peluche ha avuto, fisso, un sorriso sulla faccia. Ma forse avrei dovuto ricordarmi che certi polpi sono double face.

Lo dico chiaro e tondo: quest’anno ho avuto un aborto. Precisamente il 28 aprile, infatti l’ho soprannominato Benito, perché qualunque cosa fosse è morto lo stesso giorno del duce. Non l’ho detto alla mia famiglia. Dopo vari tira e molla – non è finita davvero quella sera di sei mesi fa – mio fratello e la tipa si sono lasciati definitivamente negli stessi giorni del mio aborto. Avrebbe voluto che gli stessi vicino, ma non potevo. Quando sono riapparsa, a maggio per l’appunto, e ci siamo visti (sempre da Rugiati), gli ho spiegato il perché. Si è arrabbiato. 

«Me lo potevi dire prima!»

«Scusa. Te lo sto dicendo ora. Non era facile.»

Continua ad arrabbiarsi. Dopo un po’ – quando gli dico che non mi aiuta se fa così – si calma. Ne esco amareggiata ma lo perdono lo stesso. 

Un mese dopo andiamo al mare insieme. I nostri genitori hanno affittato una casa nel posto in cui andavamo in vacanza da piccoli, e per una settimana ci dovremmo stare noi due, da soli.

Di quella vacanza ho qualche flash. La pizza esageratamente grossa che mangiamo in un locale nuovo. Lui che attacca bottone con chiunque, tranne che con me. Continua a dire che non mi sente quando parlo.

Ricordo una conversazione con due ragazzi sul carcere, entrambi lavorano nella ristorazione e uno dei due c’è stato, dentro. Ci stanno simpatici ma mio fratello si mostra infastidito quando quello che è stato dentro mi offre un cocktail lasciando su un biglietto il suo numero. Non li rivedrò più.

Vivendo insieme a mio fratello per una settimana mi accorgo quasi subito che ha sviluppato una serie di manie. Deve lavare col bicarbonato le verdure (sue e degli altri), o non si mangiano. La tavoletta del cesso va lasciata chiusa e la porta e la finestra aperte, altrimenti s’incazza di brutto. Si lava le mani molto più spesso di prima. Come papà.

Vuole andare tutte le sere a cena fuori, ma io ho dei problemi con questa cosa. Intanto, dopo l’aborto mi dà fastidio gonfiarmi per colpa del troppo cibo. Sto cercando di riprendere il controllo del mio corpo. Ma soprattutto, non ho i soldi per andare a cena fuori ogni sera.

Il quarto o quinto giorno glielo dico: «Non te la prendere zì, io stasera non ho fame. Vado alla libreria sul molo e mi fermo al locale accanto. Quando hai finito ti aspetto lì». 

Acconsente.

In libreria scelgo Spezzate. Perché ci piace quando le donne sbagliano, di Sady Doyle. Fin dalle prime pagine mi accorgo che è un libro grandioso; felice della mia scelta mi fermo al bar che dà sul porticciolo e ordino uno spritz con noccioline e patatine. Leggo. Sto nella mia bolla. Serenità. 

A un certo punto parte una canzone: “povero gabbiano”, fa. È un meme che gira sui social, e sentendola mi viene da ridere. Al tavolo vicino c’è una decina di persone, tutti tra i quaranta e i sessant’anni credo, uomini e donne, e iniziano a ridere della canzone anche loro. Ci troviamo sul meme e mi sorprende, pensavo fossero troppo vecchi per queste cose. Un paio di battute sceme e mi trovo a dover chiudere il mio libro.

«Che leggi?»

In breve tempo però scopro che sono simpatici. Esce fuori anche che uno è stato fino a poco fa assessore alla cultura del posto. Parliamo della libreria, che è la prima Feltrinelli aperta in un paese così piccolo e che quest’anno stanno lanciando alla grande proprio per questo motivo, con presentazioni di Saviano e non so chi altro. Comunque, gente grossa. Dico che non vorrei che le persone ora venissero in massa in questo posto, che è bello perché lo conoscono in pochi e che il mercato rovina sempre tutto. Dico che Hemingway ci ha scritto Il vecchio e il mare ma poi l’ha ambientato a Cuba, e che se perfino lui ha mantenuto l’omertà su questo paesino sarebbe bene che lo facesse chiunque. Considerazioni da anziana, sicuramente. Pertanto ben accolte dal gruppo di anziani vicino a me. 

Arriva mio fratello.

Trova una situazione di convivialità che – per una volta – non gira intorno a lui e che non ha contribuito a creare. Si stranisce, nelle chiacchierate sui libri non si diverte e mi dice che si va a fare un giro. «Da solo, sicuro?» «Sì, avoja, non c’è problema. Poi ci ribecchiamo per le chiavi». In effetti, le chiavi della casa affittata (di cui ci hanno dato un mazzo solo) stasera per la prima volta dall’inizio della vacanza ce le ho io. 

Passa un’ora, forse due, mi chiama. 

«Oh, ‘ndo stai?» 

«Al posto di prima.» 

«Vabbè, vie’ al bar…» 

Insomma, ci accordiamo per un altro bar, a qualcosa come 5 minuti a piedi da dove mi trovo. 

A chiacchierare sono rimasti solo in due, l’ex assessore alla cultura – col quale stiamo cercando di organizzare una presentazione del mio libro insieme a un’antropologa che amo e che, incredibilmente, lui conosce – e suo cugino, un anziano con l’aria del pescatore. 

L’ex assessore mi dice che può darmi un passaggio in motorino. Io dico che non c’è bisogno. Lui dice che è a due passi, e che almeno finiamo di decidere per la presentazione. Io dico okay, nessun problema. Salgo sul motorino, il viaggio dura un minuto netto, arriviamo. Mio fratello li guarda male, come se il solo essere uomini entrambi li rendesse automaticamente dei nemici. Io non me ne accorgo subito. Anzi, nell’immediato i due decidono che dobbiamo troppo assaggiare un dolcetto locale che qui fanno benissimo, e ce lo offrono. È alla mandorla, è ottimo e piace a entrambi. Subito dopo, li salutiamo. Io e mio fratello prendiamo la nostra strada: passano due secondi, il tempo che il motorino con i due sopra ci superi e giri l’angolo, e lui cambia. Cambia, precisamente, con la rapidità che ci vuole a far passare il polpo di peluche da una faccia all’altra. La stessa, identica e feroce imprevedibilità con cui nostro padre ci somministrava da piccoli i suoi cambi d’umore, la sua rabbia senz’appello. Double face

«Dammi le chiavi!» intima. 

«Oh, ma che c’hai?»

«Ma che sei mongoloide?»

«Che hai detto, scusa?»

Nostro zio ha la sindrome di Down. Che proprio lui usi la parola mongoloide come offesa mi fa bruciare di odio. 

«Sì, sei mongoloide. Che non lo vedevi che quelli erano grandi, e ci stavano provando con te?»

«Ma che cazzo dici? Parlavamo di lavoro!»

«Se, se, sai che gliene frega a quelli del lavoro.»

«Ma poi pure se fosse, scusa, se uno ci prova con me che fastidio dà a te? Semmai, io dico di no e basta.»

È la prima volta che mio fratello si comporta come uno di quei fratelli protettivi. Mi fa schifo che abbia scelto di essere protettivo proprio nell’unica maniera patriarcale disponibile. Nell’unico modo in cui non solo non mi protegge proprio da nessuno, ma soprattutto mi danneggia, colpevolizzandomi. Di cosa, poi?

«Dammi le chiavi!» ripete.

«Ma scusa, quando siamo a casa le tiro fuori io, che è ‘sta fretta? Ma si può sapere che c’hai?»

«C’ho che sei mongoloide.». E mi mette le mani nella borsa. 

Succede in un attimo. 

Gli do una spinta per allontanarlo. Lui per tutta risposta fa lo stesso gesto che la sua ex ha imparato dal suo ex. Lo stesso gesto che le ha visto usarmi contro durante l’operazione salvataggio, l’anno scorso. Mi mette le mani al collo. Mi solleva e mi butta a terra. Per strada. 

Poi scappa via. 

 

Mi accorgo che cadendo ho perso un orecchino. Erano un regalo di compleanno e mi piacevano così tanto che non me li toglievo da un mese, ma non fa niente ora. Chiamo Michele P., un mio amico che è originario della zona. Tremo. Ho il cervello in pappa. E capisco che non è vero che mi attivo nelle crisi: io mi attivo solo quando c’è da aiutare qualcun altro. Per quanto riguarda me, devo imparare tutto daccapo. «No, sto a Roma, cavolo».

«Che devo fare?»

«Puoi fare due cose. La prima è fare le valigie, dormire in spiaggia e domani ritornare a Roma. La seconda è trovare un modo di arrivare alla stazione più vicina e tornare già oggi. Ma non so se ci sono taxi a quest’ora, lì.» 

Mi fa compagnia al telefono mentre torno a casa di corsa, faccio la valigia alla velocità della luce, lasciando le chiavi sullo stuoino, e me la trascino appresso per le scalette che conducono alla spiaggia. È orribile avere paura nello stesso posto dove andavo da piccola, il posto dov’ero felice, lo scrigno dei miei ricordi d’infanzia, quelli belli, ma belli per davvero.

Dopo un po’ che sto in spiaggia e che tremo come una foglia, dico al mio amico: «Ehi, io mi sa che cerco un passaggio. Non dormirei comunque».

«Se domani mattina non mi scrivi, posso preoccuparmi?»

«Sì, se domani mattina non ti scrivo puoi preoccuparti.»

Salgo le stesse scalette di prima, torno in paese. Vado all’unico bar aperto. Dentro ci sono solo due persone: il ragazzo che ci lavora, e un altro ragazzo. Quest’ultimo è ubriaco come uno stronzo e non si regge in piedi, ma continua a ordinare rum. 

«Scusa, per caso sai come posso arrivare alla stazione?», chiedo a quello al bancone.

«Eh, ormai devi aspettare le sette di mattina e prendere un bus. Sennò si può provare a chiamare Luigi» indica uno dei tanti foglietti attaccati alla bacheca del bar, «a pagamento dà passaggi ai turisti, ma si deve spostare, non abita qua neanche lui.»

«Proverò a chiamarlo lo stesso, grazie.»

«Che ti porto?»

Ci penso. «Una birra.»

«Che birra?»

Il mio cervello va in automatico: «Peroni da sessantasei.» 

Mi vado a sedere, chiamo quel Luigi, non risponde. 

Nel frattempo il ragazzo ubriaco decide che gli sembra il caso di rivolgermi la parola.

«Io ti ho vista.»

Mi giro con la lentezza di un cattivo dei film. Non so se qualcuno ha mai provato la sensazione di sentirsi inquietante. Io mi sento così, ora. Svuotata di speranza, cattiva, davvero. Stanotte sarei capace di tutto.

È sempre con inquietante lentezza che gli domando: «Cosa hai detto, tu?»

«Sì, ti ho vista. Nella libreria» biascica.

Pensavo bluffasse, invece è vero. Ottimo, penso. Pure lo stalker, ora. 

«Guarda» gli dico. «Ho un coltello nella borsa. Facciamo che tu non mi rivolgi la parola finché non me ne vado, e non succede niente.»

Ride, lo stronzo. Fa qualche battutina per provarci.

Digrigno i denti. Mi odio per stare digrignando i denti. Da piccola ero terrorizzata da quel rumore, anche solo dalla fisionomia di chi lo faceva: era il segnale che mio padre stava per sbroccare. Li digrigno lo stesso.

«Forse non hai capito, sono seria». E ripeto più lentamente: «Ho un coltello nella borsa, e tu, coglione, oggi non mi parli o porcoddio ti giuro che finisci male.»

 

Questo è stato, francamente, solo l’inizio della notte più assurda della mia vita. Il resto non lo posso raccontare ora. In ogni caso, alla fine nessuno si è fatto male; tuttavia, qualche mese dopo ho cambiato città. 

Credo che il sogno di ogni bambina nata in una famiglia come la mia sia di prendere la patente appena compiuti i diciotto anni, caricarsi in macchina il fratellino, e portarlo in salvo, verso la libertà. 

Quello che succede più spesso però è che il fratellino diventi esattamente come vostro padre. 

E che le ex bambine cresciute troppo in fretta debbano rendersi conto, colpo dopo colpo, di quanto male facevano al fratello dandogli il privilegio di non difendersi mai da solo; e a loro stesse. Perché non hanno altre donne dietro la cui gonnella nascondersi. Devono diventare loro, quelle donne. Devono provare a diventare le madri che troppe volte hanno pregato di avere. Le madri che non possono condannare né redimere le loro per non essere riuscite a fare di meglio. 

“Scappa al primo schiaffo”: se tua mamma ci ha provato ma non ci è riuscita, tu hai il dovere morale di riuscirci. Difenditi e scappa. Vai verso il futuro, stronza.  

Non ti servono nemmeno tutti e due gli orecchini. Basta un po’ di musica nello stereo che ancora regge. Tracy Chapman, possibilmente. E una macchina. E poi una direzione, certo. Se hai tutte queste cose e un po’ di coraggio, lo ripeto, è il momento: vai verso il futuro, stronza. Stavolta, è tuo per davvero. 

 

You got a fast car
Is it fast enough so we can fly away?
We gotta make a decision
Leave tonight
Or leave and die this way.

Immagine generata con DALL-E
“oil painting in the style of Edward Hopper of an octopus reversible soft toy hanging from the rearview mirror of a car”