Dal finestrino
La 90 incede pachidermica lungo la circonvallazione. Ha l’andatura placida e silenziosa di una balena tra i flutti. La linea di filobus denominata 90 – così come la 91 che fa il suo medesimo percorso, ma al verso opposto – percorre la tratta più lunga di Milano: si snoda per quaranta chilometri suddivisi in sessantacinque fermate.
Carlo sale a Porta Vittoria, la decima fermata rispetto al capolinea a Est. Sono le 22.05, a quell’ora il bus è ancora affollato e l’odore acre generato dalle esalazioni di tante persone diverse racchiuse in pochi metri quadrati lo colpisce subito alle narici.
Il fastidio, tuttavia, è subito compensato dal diffuso tepore che lo abbraccia appena entrato in vettura.
A quell’ora, sulla 90, è ancora facile trovare le persone più disparate: lavoratori o lavoratrici che rientrano a casa dopo una giornata di lavoro infinita o al contrario che escono per iniziare il turno di notte, turisti coraggiosi che intraprendono percorsi meno battuti, allontanandosi dalle arterie stradali del centro città, abitanti delle periferie di ogni razza e provenienza, ragazzini poco più che maggiorenni, agghindati per fare serata.
Ci sono anche quelli come lui, diretti dietro stazione Centrale.
Carlo prende posto accanto a una donna di mezza età, visibilmente stanca, che guarda fuori dal finestrino senza degnarlo di uno sguardo.
Da circa un anno a questa parte, è abituato a non essere visto, e gli sta bene così.
L’uomo scende in via Tonale infilandosi a tracolla un borsone malmesso. Imbocca la lunga via Sammartini che costeggia i binari al di qua del muro: al numero 114 c’è un dormitorio per i senzatetto e, come ogni sera, proverà a trovare un letto lì. Arrivato all’ingresso, tuttavia, la fila è scoraggiante.
«Da quanto aspetti?» chiede all’ultimo della coda.
«Sarà mezz’ora» risponde quello. «Secondo me non ci entriamo.»
Carlo si rimbocca il borsone in spalla e decide di andarsene.
Tornando indietro passa accanto al sottopasso Mortirolo, dove già alcuni barboni si stanno accomodando su giacigli di fortuna tra un pilastro e l’altro: lui, si è detto, cercherà di evitare finché può di finire letteralmente sotto un ponte. Carlo costeggia gli ingressi laterali della stazione e si porta su piazza Luigi Savoia. Qui, si mette in attesa della 91 che gli farà fare il giro della città in direzione opposta alla 90, verso Lotto.
È una intirizzita sera di inizio dicembre, il fiato si trasforma all’istante in cristalli di ghiaccio e la nebbia è così fitta che riesce a infiltrarsi anche in città.
Carlo non ha altra scelta. Vive per strada da circa un anno, dopo che il divorzio con la moglie lo ha ridotto a un poveraccio. Lui e Matilde si erano innamorati da così giovani che quell’amore non era cambiato insieme a loro, atrofizzandosi prima del dovuto. O, per meglio dire, questo era quello che aveva dichiarato Matilde, lui non aveva potuto far altro che adeguarsi all’idea; solo dopo, aveva aggiunto che nella sua vita c’era anche un altro uomo, un certo Attilio che però era semplicemente stato il “faro che aveva fatto luce sulla sua grigia notte”.
Carlo ha provato a frequentare un’associazione per padri separati che proponeva incontri gratuiti di psicoterapia. Ha partecipato sia a incontri singoli che ad alcune sedute di gruppo, quelle in cui, a mo’ di alcolisti anonimi, tutti si siedono in cerchio e cercano, con difficoltà, di tirar fuori verità che nemmeno sanno bene dove trovare. Carlo, insomma, ci ha provato a trovare un senso, ma non ci è riuscito. Troppo buonismo, troppi stereotipi e frasi fatte, nessuno capiva che di lui si era rotto un pezzo, anzi due. Sua figlia Claudia è stata affidata alla moglie, come spesso accade in queste situazioni, e lui può vederla un giorno solo a settimana. Le questioni legali lo hanno logorato; presto, la sua attività professionale – una storica edicola in Piazzale Lagosta – è bastata solo per sostentare le spese degli alimenti, e nulla di più.
L’indigenza è stato il passo successivo.
Per strada, Carlo si è creato una nuova dimensione. Il suo unico scopo è la sopravvivenza, solo così riesce a stare a galla. Quando le tue preoccupazioni sono elementari, basiche, se concernono bisogni primari, semplici, è più difficile soccombervi.
Una corsa della 91 è in arrivo, Carlo la intravede in fondo al vialone, con quei fari ovoidali e distanti tra loro, inconfondibili, come occhi strabici.
A Milano si hanno poche certezze, la 90 e la 91 sono tra queste: sono le 23.45 e Carlo sa dove passare la notte.
I sedili posteriori della 91 riescono a essere piuttosto comodi, quando l’unico luogo caldo del circondario è un autobus di linea.
Salito a bordo, tuttavia, i posti sono già occupati da Arturo. A quest’ultimo le sofferenze della vita devono avergli sottratto la voglia di parlare. È un tipo taciturno e paziente, e ciò lo rende un prezioso compagno di avventure notturne per Carlo, un perfetto ascoltatore delle sue storie. A Carlo piace parlare. Solo, non è facile trovare qualcuno disposto a dargli retta perché i suoi unici argomenti sono Matilde e Claudia, Claudia e Matilde. Il tempo le ha rese figure mitologiche, ogni ricordo è una gloria.
Ad Arturo ha raccontato le storie migliori, perché lui non fa domande, annuisce e basta. E allora Carlo può spaziare in lungo e in largo, narrare la sua storia d’amore o la nascita della sua bambina come fossero un film al cinema.
«Artù, uè!» gli dice, andando verso di lui. «Artù, mi hai fregato il posto stasera.»
Quello, già sonnecchiante, dà scarsi segni di interazione, ma si fa un po’ da parte per lasciare che anche l’amico si accomodi sulle sedie degli ultimi.
«Grazie, Artù» gli fa Carlo, mentre prende posto e si strofina le mani per riscaldarle. L’uomo agguanta il borsone e lo appallottola per bene, poi lo incastra tra la spalla e il finestrino e ci appoggia la testa. Il suo sguardo vaga lungo i contorni della città. I pensieri fluttuano, Carlo se li figura uscire dal cervello e attraversare il vetro, per poi restare lì, sospesi, come a prendere aria fuori dal finestrino.
Il filobus percorre viale Sondrio e passa di fronte all’istituto Salesiano Don Bosco.
«Mia figlia andava a scuola lì alle elementari, sai Artù?» afferma Carlo con un sospiro. «Io e Matilde pensavamo in grande per lei.»
«Dovevi vederla il primo giorno di scuola, Artù: Claudia era così agitata» continua. «Non sapeva scegliere come vestirsi. Quando si è decisa le avevo fatto una serie di fotografie per immortalare quel giorno, doveva essere indimenticabile. Ce l’ho ancora qua una di quelle fotografie.»
Lo sguardo sognante segue il profilo nero dell’edificio scolastico; quando la 91 supera il semaforo, l’istituto sparisce. L’autobus va oltre e, sulla destra, le sagome tozze delle villette basse intorno a piazza Carbonari prendono il suo posto.
Intanto, dopo aver frugato nelle tasche del cappotto, Carlo tira fuori alcune foto stropicciate. Ne sceglie una e la mostra ad Arturo.
«Eccola» dice. «Questa è Claudia, ormai qualche anno fa. Quel giorno ha voluto farsi due codine ai lati del capo, a tutti i costi.»
Arturo apre mezzo occhio e annuisce.
«Se penso che adesso i capelli li porta solo sciolti e lunghissimi. Non vuole tagliarli mai, Artù.»
Carlo torna col pensiero alla settimana precedente. Vede Claudia una volta a settimana, di mercoledì, e, non volendole far sapere che non ha fissa dimora, ogni volta si inventa un posto nuovo dove portarla. Per l’occasione riesce anche a farsi una doccia, a profumarsi un pochino grazie all’aiuto di un suo vecchio amico che gli consente di usare il bagno del bar di cui è proprietario.
Carlo, ogni settimana, la porta fuori a cena, racimolando col raschietto qualche soldo dalla cassa semivuota dell’edicola.
«Claudia, come va la scuola, cara?» le domanda quel mercoledì, mentre si accomodano alla Pizzeria La Fontana, un locale spartano e rumoroso, ma con la nomea piuttosto fondata di proporre la pizza al trancio più buona di Milano.
«Va bene, papà» risponde lei lisciandosi i capelli lunghi e lucidi e guardandosi intorno con aria sospettosa.
«Il ristoratore è mio amico qui, sai» le spiega Carlo, intercettando il suo sguardo scettico. «Il locale è alla buona, ma le pizze sono ottime!»
«Bene» ribatte lei, accennando un sorriso ma venendo subito distratta dalle notifiche del cellulare. Claudia afferra lesta il telefonino, sfoderando dita affusolate come stecche di legno e laccate di un rosso molto acceso.
Carlo, un po’ stranito, le domanda se non sia un po’ giovane per dipingersi le unghie di quel colore che gli pareva anche un tantino aggressivo.
«Uffa, pa’! Ho quasi quindici anni ormai» ribatte lei, spazientita. «E poi tu non sarai troppo vecchio per indossare quei cappellini da atleta di parkour?!»
Carlo, ferito, porta istintivamente le mani al berretto giallo di maglia spessa che porta ben calato sul capo: una salvezza nelle notti d’inverno. Sorvolando su cosa diavolo sia un parkour, le rispose per le rime.
«Signorina, un po’ di rispetto per il tuo anziano padre» cerca di fare l’altezzoso, provando a nascondere la vergogna, ma non è molto sicuro di essere parso convincente.
Claudia sorride di nuovo, questa volta in modo più aperto e cordiale. A Carlo pare di ritrovare la bimba di un tempo. Che però, a quanto pare, bimba non è più.
Da quando possiede un cellulare? Sua madre le concede di pitturarsi le unghie con tale facilità? E a chi diavolo sta scrivendo muovendo quei piccoli artigli sullo schermo del telefonino?!
«Con chi chatti?» le domanda.
«Papà» esclama lei trascinando la “a” con petulanza «sei peggio di mamma! Nessuno in particolare, mi scrivo con gli amici.»
Bene, pensa Carlo, nel giro di cinque minuti si è preso del vecchio e del rompiballe. Durante quella cena, inizia a osservare Claudia con occhio diverso, come da una nuova angolazione. Si liscia i capelli continuamente: li afferra con le dita dalla metà della loro lunghezza e li stende giù fino alle punte, districando alcuni piccoli nodi.
Claudia cela una nuova sicurezza. Dopo quelle prime battute un po’ acide, chiacchiera col padre del più e del meno: gli racconta che a scuola le materie si fanno sempre più difficili, che la sua materia preferita è inglese e, infatti, riesce sempre a prendere voti buoni. Fece anche menzione di Attilio, di sfuggita, alludendo al fatto che è spesso a casa con lei e sua madre. Carlo non commenta nulla, ma il peso sul cuore che gli piomba in quel momento difficilmente lo abbandonerà.
«E tu papà? Come te la passi?» gli domanda tutto d’un tratto.
«Beh, alla grande» commenta lui, spaesato.
«Come procede l’edicola? Ne hai un po’ di clienti?» Claudia insiste, fissandolo candidamente.
«Beh», si ripete lui. «Certo, certo. Ovviamente, non ho l’affluenza di un supermercato, ma…»
«Mmm» mugugna lei «papà lo sai che non potrai andare avanti a lungo così, vero?»
Carlo si immobilizza e non sa cosa rispondere. Per un attimo, l’immagine di sua moglie si sovrappone a quella di Claudia. È fermamente convinto che quelle parole non siano tutta farina del suo sacco.
Carlo prende a domandarsi tra sé e sé dove sia finita la sua bambina. Quel vezzo di vanità coi capelli, quelle unghie sanguigne, quel rimprovero così materno, tradiscono una forma di femminilità inedita.
Claudia sta crescendo e a Carlo pare che la stia perdendo un’altra volta.
Il malinconico ricordo di Carlo viene interrotto da un chiassoso gruppo di giovani: cinque ragazzi e due ragazze, visibilmente su di giri, salgono sulla filovia alla fermata di Viale Stelvio/via Farini. A giudicare dall’abbigliamento succinto delle due ragazze, sembrano pronti per andare a ballare. Urlanti, si prendono a spintoni come fosse la cosa più divertente del mondo; le ragazze, si stringono la mano per non cadere mentre la 91 procede col suo fare maroso.
Uno dei ragazzi arpiona il cellulare. (Ha la stessa presa morbosa che avrebbe usato mia figlia, si ritrova a osservare Carlo) e subito lo sguaina per immortalare i suoi compagni in un video che chissà in quale parte dell’etere finirà.
Appena due fermate dopo, i ragazzi scendono dal bus, esibendosi in uno scoppio di ilarità ancora più fragoroso, se possibile.
Arturo mugugna qualche improperio nel suo dormiveglia e cambia posizione sul sedile, mentre dietro ai ragazzi scende anche una minuta donna cinese con addosso cuffie pelose e uno zainetto a forma di orsacchiotto. Carlo non si era nemmeno accorto della sua presenza.
Mentre i ragazzi, seguiti dalla cinese, scendono, dalla porta più vicina al conducente salgono due uomini dalla pelle olivastra, stretti dentro maglioni di lana variopinta: sono Mohammad e Afef.
Carlo li saluta con un cenno dal fondo dell’autobus: i poveri, un po’ come i ricchi, finiscono col conoscersi tutti.
A quanto pare, neanche loro hanno trovato altro posto dove dormire.
I due uomini si accomodano ciascuno su uno dei doppi sedili in capo alla vettura e, come Carlo poco prima, appoggiano la fronte al vetro del finestrino.
Una nuova quiete abita la vettura. Ognuno, dalla sua postazione, sembra ancorarsi ai propri pensieri. Si lasciano andare a un torpore contemplativo e, per un attimo, la 91 diventa un luogo onirico senza spazio e senza tempo. Carlo non ha sonno e con lo sguardo continua a seguire il disegno della sua città, mentre i lampioni, fuori, delimitano le zone di chiaroscuro e creano un gioco di riflessi sghembi, a contrasto con la luce bianca e sterile che illumina l’interno del bus.
Non sa per quanto tempo regna quel silenzio vuoto, quella sospensione di realtà. Minuti, forse ore. Forse, alla fine si è anche appisolato un po’.
«Geneeeerale, dietro la collina ci sta la noootte crucca ed assassiiina» una voce sguaiata rompe il letargo della corsa, mentre le porte del filobus si aprono su piazza Lugano.
Un uomo tozzo e trasandato entra nel convoglio barcollante, con in mano una bottiglia di birra vuota. Lui, Carlo, non lo hai mai visto. Canta un pezzo di De Gregori, accentuando esageratamente le note lunghe della strofa: il risultato è disastroso. L’uomo è visibilmente ubriaco e lo accompagna una donna esile che tenta di sorreggerlo rischiando a ogni passo di essere buttata a terra.
Mentre il bus riprende la corsa, l’uomo sbanda bruscamente e, così facendo, inciampa sulle gambe di Mohammad che, distese sui sedili, fanno capolino sul corridoio del bus.
«Eh, amico, attento» si lamenta quello con la sua chiara inflessione egiziana.
«Cazzo vuoi, negro!» inveisce l’uomo ubriaco con una violenza sproporzionata alla circostanza.
«Stai buono Antonio, stai buono» tenta di calmarlo la donna e, strattonandolo a fatica, lo allontana da Mohammad.
«Mi scusi» dice poi rivolta a quest’ultimo «è stata una brutta giornata.»
«Generaaaale dietro la staziooone lo vedi il treeeno che portava al sooole» riprende a berciare Antonio come se non avesse appena insultato un uomo senza ragione e prende posto su un sedile al centro della vettura, piombandoci sopra con un tonfo sordo.
Intanto, sul bus, si è diffuso un clima di allerta e tutti – Carlo e Artù dal fondo e Mohammad e Afef dalla testa – guardano in tralice la strana coppia.
Nessuno di loro ha voglia di finire a tafferugli ma quando si tratta di difendersi è bene premunirsi.
Antonio, però, sembra aver già dimenticato quello scatto bellicoso e procede a cantare la canzone di De Gregori con voce sempre più flebile, mentre la donna gli ha preso una mano tra le sue, con fare premuroso.
«Passerà, Antonio, passerà» lo rabbonisce dandogli dei tenui colpetti sul dorso della mano.
Come tutti, su quel bus della notte, anche Antonio posa la fronte al finestrino e guarda fuori senza vedere nulla. Gli occhi assenti lasciano che all’esterno la città scorra.
Dentro la 91, di notte, è come se fosse il mondo fuori a muoversi, mentre ognuno resta chiuso nel proprio limbo di ricordi tristi e sogni annientati.
“Chissà cosa deve passare…” si domanda Carlo, di sfuggita, come per un riflesso incondizionato più che per una vera curiosità. È evidente che chi, come lui, si trova su quel vagone a notte così inoltrata deve celare un disagio di considerevole entità. Antonio, se non altro, sembra avere una spalla a cui appoggiarsi.
Il cetaceo delle strade milanesi procede imperterrito, lungo un tragitto segnato e sempre uguale. Supera la fermata di via Mac Mahon senza fermarsi e procede oltre, verso il capolinea di quella corsa.
A volte Carlo si domanda perché anche lui non riesca ad andare oltre, come la 90 e la 91, che procedono indisturbate, e ripassano dagli stessi luoghi ogni ora di ogni giorno.
Perché lui non ci ripassa, dalla sua vita di prima, per provare a rimettere insieme i pezzi? Perché non ci prova a uscire da quel limbo di stenti? Forse, non fa abbastanza sforzi per riuscirci?
Non lo sa bene, ma intanto non si muove da lì. Si stringe a sé stesso per farsi ancora più caldo, mentre Artù, accanto a lui, ha iniziato a russare.
A volte, la vita è meglio osservarla passare che starci dentro.
Immagine generata con DALL-E
“A homless is waiting a bus in the night, in the style of Edward hopper”