Ego

Anni passati a desiderare di arrivare fino a qui, dove sono ora. Anni a immaginare le sale gremite di lettori. Lettori voraci, intellettuali, uomini e donne di cultura. Quelli che riempiono i circoli letterari, che presenziano allo Strega, che hanno il coraggio di cambiare una letteratura ormai stanca, disidratata, ridondante. Sognavo di fare parte di un’élite di mostri sacri, gli immortali. Volevo diventare un classico. Mentre provo le cravatte sulla camicia, Vara mi sistema il colletto, mi pinza le palline lanuginose dalla giacca e le lascia nevicare sul parquet. Arriccia con l’indice un lungo filo di tessuto dalla spallina e me lo strappa con un colpo secco. «Hai ripassato il discorso?» Vara sa tutto. Conosce le mie intenzioni e mi ha aiutato durante la stesura. Al principio non era d’accordo. Quando le ho letto la bozza del discorso sbadigliavo in mutande, stravaccato sul divano, mentre Vara si smaltava le unghie. Mi ha detto senza troppi fronzoli che era una fesseria, che mi sarei giocato la carriera. Un azzardo inutile in grado di privarmi del rispetto dei miei colleghi costruito in anni di gavetta. Diranno di te che sei un ingrato, mi diceva, un presuntuoso arrogante. Ho fatto valere le mie ragioni mentre sullo schermo del televisore procedeva senza audio una conferenza di Guzzi su Nietzsche.

Quella sera di giugno, più di qualunque altra, ho capito che la verità si pronuncia sottovoce.

«Non ne ho bisogno». Ci interrompe la vibrazione del Redmi sul comodino delle quinte. Leggo sul display il nome di Calvarini, e solo dio sa quanto non me ne importa di parlare con lui. Ma è stato il mio primo editore. La mia coscienza, che si concretizza nelle corde vocali di Vara, mi dice di rispondere. Prima che possa premere sul tasto verde mi blocca la mano e mi guarda dritto in camera: «Niente battute sferzanti o confessioni. Nessuno deve sapere ciò che stai per fare». Annuisco e la bacio. «Eugenio, che piacere!» «Allora, come andiamo? Finalmente ce l’hai fatta, eh?» «Insomma, non è detto che vincerò lo Strega. Però essere arrivato fin qui è motivo d’orgoglio». «Ma certo che vincerai! L’ho letto, sai, il tuo libro. Del lupo e delle gonne è un romanzo sincero. È toccante, audace. Mica come quello che avevi pubblicato con noi!» Calvarini ride e sputa il fumo di decenni prima. Ricambio con una risata che mi ricorda la scuola, quando ridevi alle freddure del professore di matematica. «Non è che ti manco, Eugenio?» «Mi manchi sì. Adesso fai duecentomila copie all’anno. Vent’anni fa, con me, ti sbattevi a vendere duecento copie in tre anni. Fiere, eventi, presentazioni.

Avevamo le pezze al culo. Manco gli spicci per un ostello, ti ricordi? Abbiamo dormito sul divano di mio cognato. Che roba! Quanti soldi hai perso, Tiberio, quanti, dietro a editori come me?»

«Tanti». «Tanti, cazzo, puoi dirlo forte. Ma è grazie a me se sei dove sei ora, non è vero?» Non riesco a capire se la domanda sia realmente rivolta a me. Sembra che cerchi una conferma, una rassicurazione. «Certo». Sento bussare forte alla porta del camerino. Vara mi prende con due dita la mascella e mi raddrizza per accertarsi che il trucco non sia sbavato. Mi urlano che tra due minuti devo essere pronto.

«Scusa, devo andare.» «Vai, vai! Saluta Fazio da parte mia.»

Vara mi prende per mano e mi chiede se sono sicuro. Mi sussurra all’orecchio che la tv è solo un occhio: se voglio posso renderlo cieco. Una truccatrice mi tampona la fronte con un dischetto di cotone e Fazio mi presenta. Sono, saggista, sceneggiatore, letterato. Fondatore di Chi abbaia non scrive, un format su Youtube di scrittori, noti e non, che analizzano il panorama culturale contemporaneo. Autore del podcast L’apparente su Audible, da centinaia di migliaia di ascolti ogni anno. Candidato al Premio Strega con Del lupo e delle gonne. Il romanzo è rimasto primo in classifica per ventinove settimane di fila. Candidato Oscar come miglior sceneggiatura originale e miglior film straniero per Più in là di un ciao. Sono qui a parlare di “quello che voglio”: Tiberio Livella. Una volta mia zia è stata ospite di Mi manda Rai 3. Era stata chiamata per testimoniare un caso di truffa, denunciare un broker infame che si era intascato i suoi risparmi. Mi aveva detto che in tv nulla è reale, se non quello che stai dicendo tu, l’ignara, il cittadino pellegrino, di passaggio solo per l’indignazione del giorno. Con il senno di poi si era pentita. Io invece nella tv ci sguazzavo. Dicevo quello che volevano sentirsi dire. Stavo al gioco dei conduttori, dei giornalisti, del pubblico. Non facevo né lo spaccone né l’intellettuale. Dispensavo sorrisi timidi e annuivo. Ora finalmente sono qui per dire qualcosa che penso sul serio. Mi accoglie un applauso fragoroso, lungo, sorridente. Le luci di scena non mi accecano, mi rimbalzano sui vestiti che mi hanno scelto. Impeccabile. «Vedete, io ho impiegato anni. Anni. Per capire e accettare il fatto che sono uno scrittore. Perché essere scrittore significa avere a che fare con le parole tutti i santi giorni. Dare valore a ogni singola sillaba, sapere quando disinnescarla. Misurare la sua temperatura interna ed esterna, riconoscere l’esatto momento in cui pronunciarla e vederla morire. Per molto tempo ho ascoltato professori emeriti e insegnanti di scrittura creativa. Ho letto e riletto manuali di narrativa e ho assorbito con trasporto tante delle conferenze degli scrittori più affermati del mondo. Ho imparato molto. Ho preso per oro colato i loro consigli e ho messo in discussione la loro poetica fino a un certo punto, perché pensavo di non essere all’altezza. Perché mi dicevo che, in fondo, non ero abbastanza colto e non sarei mai stato capace di arrivare al livello delle loro elucubrazioni. Mi sono rassegnato, quindi, a definire la mia opinione come di serie b. Finché, dopo aver fatto scuola ed essermi convinto che era giunto il momento di scrivere qualcosa, ho iniziato a pensarmi come uno scrittore indipendente da ogni punto di vista, che fosse esso di un collega, di un maestro o di un lettore. Eppure più il tempo passava, più avanzavo nella mia missione di scrivere un libro degno, più mi rendevo conto che, malgrado gli sforzi, non avrei mai avuto il rispetto degli autori che tanto stimavo. Sentivo che non sarei mai stato all’altezza delle mie stesse aspettative. Ho trascorso notti intere a battere al pc. Ho saltato dei pasti. Mi sono dimenticato di bere, di farmi la doccia, di radermi, di togliermi il pigiama. E solo dopo aver ultimato il mio primo romanzo mi sono guardato allo specchio, ho raccolto il coraggio che avevo in corpo e nello spirito e ho mandato il manoscritto a una piccola casa editrice indipendente italiana. Per poi sentirmi dire… niente. Non ho ricevuto alcuna mail. Così l’ho mandato ad altri e ad altri ancora e non è mai arrivata nessuna risposta. Allora ho scritto un altro romanzo e, due anni dopo, mi è apparsa nella sezione posta in arrivo una sola mail che diceva, in soldoni: no, grazie. Quello è stato il momento, dopo ormai quattro anni che avevo cominciato a scrivere e credere in questa cosa della letteratura, nel quale mi sono interrogato. Mi sono chiesto: sono portato per essere un romanziere? E la risposta è stata: no. Ed è per questo che ho continuato a scrivere». Le mie parole cadono lente nel silenzio. Fiocchi di pulviscolo sui sedili del teatro televisivo. Parte un applauso breve e sentito, quasi commosso. Qui, per me, arriva la verità. Dopo aver deglutito l’ultima goccia sul fondo. «All’età di trentadue anni, dopo aver metabolizzato l’ennesimo rifiuto, ricevo finalmente un sì dalla Calvarini Edizioni. Pubblico Caos, vengo e mi dedico a fuoco vivo alla promozione. Partecipo a tutte le fiere e agli eventi che mi vengono proposti. Rinuncio ai viaggi, alle gite romantiche con Vara, agli aperitivi del venerdì sera, pur di racimolare i soldi necessari. In un anno e dopo tante ore di duro lavoro riusciamo a vendere duecentododici copie del mio primo romanzo. Dopo ben quindici anni, eccomi qui. Ora posso dire di essere uno degli scrittori italiani più riconosciuti nel panorama letterario nostrano. Durante il mio percorso ho conosciuto esimi letterati, autori premiati. Ho avuto il piacere di chiacchierare con grandi personalità della cultura italiana. Ho conosciuto autori cani, aspiranti scrittori, scribacchini, ma pochi, veramente pochi, scrittori che abbiano avuto l’onestà intellettuale di definirsi esseri umani. Ho desiderato tanto fare parte di questo mondo da averlo idealizzato. Credevo che in questo settore si trovassero le più grandi menti del territorio, persone abili a comprendere la vita, a saperla raccontare. Artisti in grado di sentirsi parte di qualcosa senza avere la presunzione di avere la verità in tasca. Invece, solo ora, dopo aver aggiunto un’altra targhetta alla mia bacheca, dopo aver guadagnato la stima dell’Italia intera, posso dire che questo mondo non mi appartiene. Non mi appartiene più, poiché credo, forse, di averlo smascherato.

Posso dire di aver demolito fino a ridurre in cenere le fondamenta questo skyline di dimore del sapere, per poi scoprire che non erano altro che gazebi volanti, baracche fatiscenti, abitati da borghesi viziati, pensatori mediocri e pigri, poser cerebrali che si avvalgono di buoni propositi.

Autori, editori, uomini e donne di alto rango, troppo impegnati a godere della propria immagine riflessa, narcisisti patologici che adorano annegare nel suono della propria voce, sollazzarsi dei propri deliri astrusi, godere delle proprie masturbazioni mentali, ingozzarsi di aria fritta, colpevoli prima di tutto di non aver riconosciuto a se stessi la loro più grande colpa: quella dell’arroganza di voler insegnare a tutti di aver capito tutto della vita, del mondo e di ciò che lo abita. Ho scoperto con mia più profonda delusione di essere io stesso vittima di questo stereotipo radicale dello scrittore impegnato, attivista dalla buona condotta morale, frequentatore dei salotti, calato così tanto bene nei panni da aver smarrito la propria identità primordiale. Ormai le persone si aspettano da me, quando parlo, che io abbia sempre qualcosa di interessante da dire, qualche illuminazione da spacciare. Sono stato sommerso fino a sentirmi vuoto dai complimenti e dalle leccate di culo dei prosseneti del giornalismo, della critica letteraria. Sono stato fermato per strada per sorridere a innumerevoli selfie, ho firmato fino a slogarmi il polso migliaia di finte dediche e autografi. Ho stretto mani a sconosciuti facendo finta di essere loro amico e mi sono congratulato con colleghi che intimamente disprezzavo. Ho riletto negli anni tutte le pagine che ho scritto da quando sono diventato un autore popolare e non ho riconosciuto l’autenticità di nemmeno una parola. Non ricordo più la sensazione, quel brivido quasi libidico, di dire la verità al foglio. Forse oggi troppo spesso confondiamo i significati di autenticità e verità. Io non ho mai scritto e non ho mai voluto scrivere la verità. Ho provato invece per tutta la vita a compiere l’impresa più grande per ogni scrittore: quella di scrivere qualcosa di autentico. La sola differenza, a mio modesto parere, tra l’essenza della verità e quella dell’autenticità è l’umiltà. Ammettere a se stessi e al mondo che la mia opinione non è superiore a quella di un collega più o meno affermato. Ho trovato l’autenticità nella vita povera, nelle parole non dette, nei silenzi assordanti e in quelli quieti. Nella finezza della sabbia o nel sale perduto del mare. Ho trovato il mio concetto di autenticità nella condivisione sincera e disinteressata delle idee, ma più di tutto nel desiderio di volerle ascoltare davvero, senza sentire l’urgenza di voler rispondere al mio interlocutore e fargli capire che le mie ragioni fossero più valide, più intrise di significato e per questo più meritevoli di essere ascoltate.

Ho scoperto con rammarico di essere un illuso, che all'editoria italiana piace crogiolarsi nei profitti mascherando la propria avidità di mercato dietro i temi caldi variabili della nostra epoca, tirando di tanto in tanto fuori dal cilindro, e solo quando la magia ormai aveva perso il suo fascino e si era svelato il trucco, la vera letteratura.

Mi avete deluso anche voi. Voi che mi avete comprato solo quando ormai mi ero già venduto. State sempre a lamentarvi, tutti, che circolano da anni gli stessi nomi, libri che si somigliano tutti, ma appena una voce fuori dal coro emerge, ecco che vi girate dall’altra parte. Piagnucolate per il prezzo dei libri e poi siete in coda per la nuova edizione di un libro che già avete in triplice copia. Avete letto gli influencer, i calciatori, le dive cadute, tutti i fenomeni del momento. Volevate mangiare sano e siete andati al fast food. Là fuori, da qualche parte, c’è un altro giovane Tiberio Livella che sta sperimentando la letteratura, ma non è ancora nessuno, e quindi lo snobberete. Quando si sarà annacquato, spenderà i suoi risparmi per pagare un agente letterario e lui saprà trovargli una buona casa editrice che, fidatevi, saprà come piazzarlo sul vostro comodino. Io sono Tiberio Livella e non ho più niente da dire.»

Immagine generata con DALL-E
“a woman pulls a thread from the shoulder of a man’s jacket, Impressionist painting”