Collage di momenti particolarmente insignificanti

Questo è uno di quei racconti brevi che, di certo, non sono nati per rimanere impressi nella storia.

Uno di quei racconti che cerca di lasciare qualcosa a chi lo legge o a chi ne sente parlare, spesso fallendo miseramente. Non assicurerò che questo sarà uno di quei casi ben riusciti né che non ci sarà effettivamente questo intento di trasmettere qualcosa. Anzi non aggiungerò nient’altro in questo senso. L’unico elemento di cui, però, posso dirmi certo è che le prossime pagine esistono e che un ragazzo normale ne è il protagonista. Ma protagonista di che storia? Vi chiederete, forse. Beh, è difficile da spiegare, e forse sarebbe persino controproducente.

Mi imbarazzo un po’ a dirlo. Potrebbe sembrare tutto uno scherzo ma si tratta dei momenti morti di Tancredi (il ragazzo normale sopra citato) in una giornata scelta in modo totalmente arbitrario. Si parla solo di momenti particolarmente insignificanti.

Lo incontriamo poco prima che si svegli. Forse però è meglio parlare al passato da qui in poi, visto che tutto è già bello che successo e finito. Fuori era ancora immerso nella penombra della prima luce, mentre la stanza era buia. Furono i fruscii che emergevano pian piano dal silenzio a far capire che stava per svegliarsi. E infatti aprì gli occhi, accese la luce più vicina e si guardò intorno agitato, come spaventato da qualche cosa, forse dai rumori dall’esterno, da un incubo o da voci interiori moleste. Un profondo sospiro, chissà se di sollievo o di fastidio, si diffuse dalle sue labbra. Sprofondò nel materasso fissando perso il soffitto. Tutto rimase immobile finché decise di alzarsi e prepararsi. Lo attendeva una giornata importante. Per questa ragione la sera precedente era andato a dormire molto presto programmando di svegliarsi alle sei in punto. E infatti di lì a pochi secondi suonò la sveglia puntata sul suo Iphone. Si allungò verso il comodino per disattivarla e si affrettò verso il piccolo bagno comunicante. Anche lì dentro si accese una luce al suo passaggio, quella appena sopra lo specchio del lavandino. Il pallido petto nudo del ragazzo rifletteva la gialla tonalità della lampadina, dandogli un aspetto più malaticcio di quanto non fosse in realtà. Un profondo scaracchio permise di andare oltre. Lasciò scorrere l’acqua e si lavò la faccia. Si concentrò sulla sua immagine, come scorgendo qualcosa di inedito. Come se a guardarlo fosse qualcun altro, di esterno.

Si guardò allo specchio, tirandosi la faccia con i suoi due manoni, abbastanza sproporzionati rispetto al resto del corpo, e ripeté tra sé e sé il suo nome come un mantra. «Tancredi. Tancredi Tancredi.»

Non era un nome così comune, ed era uno di quei nomi che quando senti ti suona male, come un barattolo pieno di bulloni. Ma aveva imparato a conviverci. Per un aspirante autore è importante avere una visione della vita ben definita. Deve, perlomeno, sapere quello che vuole e Tancredi faceva di tutto per dare quest’impressione. Quando parlava in pubblico soppesava ossessivamente le parole, cercando di evitare di risultare banale e costruire periodi quanto più complessi e completi la situazione gli permettesse. Molti lo consideravano un perfezionista, fino alla pedanteria, ma a lui stava bene così. «Per essere presi sul serio bisogna essere precisi», affermava spesso risoluto. Nonostante fosse anche un po’ introverso, non ne soffriva poi molto di questo suo aspetto, piuttosto lo sfruttava per corroborare ulteriormente l’immagine che voleva restituire: acuto e impegnato. Aveva da sempre la passione per la scrittura. Aveva scritto di tutto: racconti, poesie, articoli e persino romanzi brevi. Ma uno dei suoi più grandi amori era il cinema. Aveva cominciato a frequentare le sale del cinema prima ancora di andare a scuola, con suo padre. Il mondo aveva cominciato a scoprilo nel buio, proiettato sullo schermo bianco. Pendeva dalle labbra di volti giganteschi, veniva rapito dai colori della luce e godeva di storie incredibili, sempre ammutolito ed estatico. Il cinema faceva ormai parte di lui. Era nel suo cervello, nel suo cuore e nel suo sangue. Conclusi i suoi studi aveva trovato quasi subito un piccolo lavoro per una produzione della sua zona. Proprio lì era diretto quella mattina, al suo primo giorno di lavoro. Tornato nella camera, un po’ annebbiato, indossò i vestiti messi da parte sempre la sera precedente residuo malconcio di un passato natale. Prima infilò i jeans da battaglia, poi la sua maglietta preferita seguita infine dal maglione un po’ sformato. Bastarono un paio di annusate perché si ricordasse del deodorante, recuperato dal bagno e applicato alle ascelle e, perché no, un po’ su tutto il corpo. Come questi momenti, mille altri. Sembravano momenti come tanti, e in effetti lo erano, eppure ogni volta cambiava qualcosa. Allora come oggi. Si guardò poi un paio di volte attorno per fare mente locale, sondando l’intera stanza che componeva la sua abitazione, un angusto monolocale che appena riusciva a permettersi. Agguantò il borsone con tutto l’essenziale per la giornata. Doveva aver preso ogni cosa e non poteva tergiversare oltre, aveva una tabella di marcia da seguire. Aprì la porta e poi fuori, verso l’autobus che lo avrebbe portato alla sua destinazione. Il telefono gli squillò nella tasca dei jeans. Il numero non appariva sullo schermo, ma c’era solo la scritta numero sconosciuto. Tancredi deglutì preoccupato senza una vera ragione e rispose. «Pronto?» Una voce gli parlò ma, prima di decifrare il significato di quelle parole, capì che cosa stava succedendo. Svoltato l’angolo vide la fermata del bus . Si sentiva meglio dopo aver attaccato la telefonata di poc’anzi. Non c’era nessuno quando arrivò Tancredi. Faceva freddo, ma non troppo. Era al calduccio grazie al pesante maglione, ma i piedi leggermente sudati lo infastidivano. Si imbarazzava molto per questo suo difetto e aveva l’ansia che qualcuno ne venisse a conoscenza. Bastava il minimo sforzo perché le piante sotto le calze iniziassero a sudare. Questo lo portava spesso a muoversi in giro con i piedi stretti nelle scarpe per cercare di eliminare il fastidio. Alla fermata si aggiunse un’anziana, un grasso omone, una bassa ragazzina e un buffo signore dai baffi a manubrio. Come se qualcosa avesse colpito la sua attenzione, si cominciò a soffermare molto su tutto ciò che entrava nel suo campo visivo. Era una strana sensazione, quasi un non pensiero diffuso. Osservava con inusitata attenzione ciò che gli succedeva attorno e ciò che gli succedeva dentro, in un continuo scambio. Poi del movimento interruppe il momento e lo riportò al presente. L’agitazione profusa dalle figure umane coinvolse anche Tancredi, mentre in lontananza si profilava una miniatura dell’autobus che si faceva pian piano più grande. Lento si fermò e ripartì seguendo il traffico e la segnaletica. Appena la destinazione divenne leggibile scoprì che non si trattava del suo di pullman e tutto il sollievo accumulato si dissipò nel nulla, lasciandolo vuoto e sconsolato. Rischiava di fare ritardo. Il coro contrariato di chi lo circondava si unì al sospiro del ragazzo. Non una parola fu proferita da chicchessia, solo l’imbarazzante silenzio di circostanza saturava l’aria attorno alla fermata finché, finalmente, non arrivò il bus che tutti aspettavano. Superato l’autista vide che i sedili erano già per metà occupati. Altri furono riempite dalle quattro figure che l’avevano anticipato. Puntò comunque il posto più vicino e ci si sedette tranquillo, rivolto nel senso opposto a quello di marcia. Poi notò degli occhi magnetici che, subito, si distinsero da tutti gli altri. Una ragazza lo guardava incuriosita, cercando di fare finta di nulla. I due cominciarono allora, maliziosamente, a scambiarsi sguardi traversi, occhiate silenziose. L’indifferenza si fece complicità. Finché un sorriso, tanto eloquente da non lasciare spazio a dubbi, spinse Tancredi ad avvicinarsi alla ragazza. In pochi passi le fu davanti e, un po’ impacciato, impiegò qualche secondo per trovare cosa dirle. Col profumo di lei ancora nelle narici, arrivò con tutta calma a destinazione. Riuscì a trovarla facilmente, senza dover nemmeno chiedere informazioni in giro. Il set era vuoto, non c’era ancora nessuno. Il teatro di posa così com’era sembrava senza fine, il corpo di Tancredi un insignificante puntino in un bunker nel nulla. Udiva solo il cuore pompargli sangue in ogni estremità. Il silenzio acuiva ogni altro senso, ma Tancredi faticava a tenere il passo dei suoi pensieri. Nel giro di poche ore sarebbe stato tutto travolto dal suo opposto, popolato da un’infinità di rumori, voci, suoni, vita, corpi, strumenti, colori a formare una delle più grandi finzioni artistiche. Era elettrizzante. E finalmente ne avrebbe fatto davvero parte anche lui, un modesto tassello di quella costruzione fantastica. Non stava più nella pelle. I battiti aumentarono, un fischio occluse i suoi timpani, strati di sudore cominciarono a ricoprirgli le mani, sentiva la voce sciogliersi. Il borsone che stringeva nel palmo cadde a terra con un debolissimo tonfo. Il suo fisico non era pronto all’insostenibile peso dei propri sogni, ne era ancora vittima. Magari un giorno tutto ciò sarebbe stato gestibile come una banale pelle d’oca. La porta alle spalle di Tancredi, da cui lui stesso era entrato, cigolò appena prima di richiudersi. Era arrivato qualcun altro. Si voltò lentamente e vide il primo gruppetto di elettricisti. Gli fece un cenno di saluto, che loro ricambiarono subito, e corse nella loro direzione. Finalmente avrebbe potuto parlare con qualcuno, il primo scambio del suo nuovo lavoro. Ma doveva dimostrare la sua preparazione, non poteva sembrare uno sprovveduto appena assunto. I suoi studi dovevano essere pur serviti a qualcosa. Faticava a dissimulare l’eccitazione, ma trovò subito qualcosa da dire: “…” Sobbalzava di nuovo su un pullman. Il tragitto era lo stesso di quella mattina, ma all’inverso. I sedili erano quasi tutti vuoti, l’orario era tardo e probabilmente la maggior parte dei possibili passeggeri erano già rincasati. Tancredi era ancora frizzante. Non pensava si sarebbe inserito subito tanto bene, era stato accolto non come l’ultima ruota del carro ma come un’utile e necessaria aggiunta al modesto gruppo di lavoro. Le luci dei lampioni fuori, intanto, passavano come una scia di luce, svelando sfocati paesaggi desolati che facevano da sfondo al suo turbinio mentale. Mille idee gli frullavano già nella testa. Possibilità, traguardi, proposte, miglioramenti riguardo sé stesso, le sue mansioni, il suo rapporto con gli altri, come rendere ancora più impattante il suo intervento…finalmente la sua fermata. Tancredi si alzò e si accostò alla porta automatica, ma il bus inchiodò bruscamente e lo stridere di freni si diffuse nel silenzio. Per poco non cadde, fortuna che si appese in tempo al corrimano più vicino. Si sporse poi verso la strada per capire cosa diamine fosse successo. Dopo una sequenza quasi automatica di azioni, che tutti possono fin troppo bene immaginare e di cui non ho sinceramente nemmeno voglia di riferire perché porterebbe via troppo tempo alla narrazione distraendo il lettore da ciò che sta leggendo e che con impegno cerca di decodificare secondo dei suoi schemi mentali per carpire il messaggio che si nasconde dietro a questi meri segni grafici che messi in un determinato ordine piuttosto che un altro guadagnano significati che rimandano a riferimenti convenzionali si infilò sotto alle lenzuola al caldo ma un po’ intontito. Spense la luce e tutto scomparve. Ripensò di nuovo alla giornata appena passata, diede ancora più ordine al caos della vita. Era il suo personale tentativo di comprendere il significato di tutto ciò che aveva vissuto, spesso si rendeva conto dell’illusione, ma non importava. Allora gli basta. Le nuove conoscenze fatte sul set sarebbero diventate quelle di una vita? E chissà se con quella ragazza del pullman sarebbe poi nato qualcosa. Mentre cercava di addormentarsi decise che un giorno avrebbe raccontato proprio questi istanti che ti cambiano, se ci fai davvero caso. Avrebbe mostrato a tutti quegli attimi che erano già stati per troppo tempo ignorati. Perché alla fine l’unica compagnia che non ti abbandona mai è la tua. Non c’è nessuno a salvarti da quella angosciante compagnia con te stesso. Il buio non fa che peggiorare le cose, amplifica ciò che non si vede e che rimane ad attendere oltre la soglia della tua coscienza. In agguato, fino a quel momento pensi di potere tutto, che niente possa toccarti, di essere cambiato da quei giorni in cui avevi paura dell’oscurità, dei pagliacci, dei serpenti, del futuro, della morte, della vita stessa, di qualsiasi cosa; solo allora realizzi che è tutto un autoinganno per andare avanti. Tutte quelle fobie non sono sparite, sono state sostituite e così continuerà ad accadere. Può non essere per sempre perché c’è un’unica arma per uccidere i demoni, ed è la consapevolezza, la luce da seguire. Almeno questa è il mio modesto pensiero, credo. Chissà se anche Tancredi fece quei pensieri da solo nel suo letto. Si potrebbe pensare persiano di chiederglielo direttamente, ma ciò andrebbe contro le (nebulose) volontà di questo specifico racconto. In fondo, fino a questo punto, le nostre sono state solo sovrastrutture originate dall’osservazione di un giovane uomo qualunque, preso in un giorno qualsiasi, fatte da un cronista indefinito, per uno scopo non ben precisato. Tante chiacchiere in compagnia fanno proprio volare il tempo…oh, ma solo ora mi rendo conto che il giovane uomo ormai dormiva già e mi sa che è ora di chiudere. Che possiate anche voi presto godere di questi momenti particolarmente insignificanti.

Immagine generata con DALL-E
“at a bus stop there is a boy in jeans and a sweater, an old woman, a fat man, a short girl and a funny gentleman with a handlebar moustache. painted in the style of edward hopper”