Spoglie

Osservo quella cornice di cenere dove un tempo sorgeva la porta di casa mia, di casa nostra. Da dietro mi giunge una flebile voce, spuntata come dal nulla, che riconosco subito.

«Quando sei arrivata?» C’è una strana e inusuale nota d’agitazione nella voce di mio marito.

«Non so, da poco credo.»

Era l’uomo più calmo che avessi mai conosciuto. Per questo mi ero innamorata di lui, mitigava tutte le mie agitazioni. Con lui mi sentivo al sicuro, sempre. Qualunque cosa succedesse sapevo che lui rimaneva saldo. Io invece ero la creativa, l’artista, la pazza. Ci completavamo e ci amavamo follemente. Ma tutto prima o poi cambia e noi ce ne eravamo accorti troppo tardi.

 

Precedentemente c’era stata una discussione dai toni molto accessi. Nonostante cercassi di ripescare gli argomenti su cui ci eravamo incaponiti, i dettagli mi sfuggivano. Sapevo solo che avevamo litigato ancora e, prima di trovarci lì, non ci eravamo lasciati bene.

Fabio mi supera e si appoggia a ciò che rimane dello stipite. Fissa in silenzio il buio che si apre davanti a noi, poi sembra d’un tratto accorgersi della superficie fuligginosa e prende ad accarezzarla con occhi assenti.

«Cos’è successo?» mi chiede.

«Non lo so.» rispondo io con voce tremante. «Ma adesso è solo un mucchio di cenere.»

«Non si è salvato nulla?» continua lui con crescente irrequietezza.

«No, non credo. Sarà tutto bruciato là dentro.»

«E noi dove eravamo mentre succedeva?»

Mentre pronuncia quelle parole, Fabio mi fissa per la prima volta da quando è arrivato. Non so bene cosa rispondere, tentenno.

«Dove eravamo Carlotta!» il suo urlo è assordante.

«Non lo so!» La mia risposta, nonostante sia urlata, si perde nel nulla.

Sento una fitta al petto, un dolore atroce che si diffonde immediatamente alla testa. Fabio non mi dà tregua.

«Adesso cosa facciamo?! Abbiamo perso tutto!» Sferra un pungo, gli si rompe la voce e comincia a piangere. Io non riesco nemmeno a parlare.

Sento i singhiozzi dell’uomo della mia vita, sento la puzza di bruciato che ancora satura l’aria e sento il sapore delle nostre lacrime.

Ma non posso andare alla deriva, devo farmi forza. Prendo la mano di Fabio e la stringo come fosse la prima volta.

«Dobbiamo essere forti.» Lui tira su col naso e si schiarisce la gola.

«Grazie.» ma si scosta infastidito.

«Non dirlo neanche per…»

«No davvero. Grazie di tutto. Ma…» si interrompe così. Gli sorrido e lui mi precede dentro casa.

«Voglie vedere un ultima volta.»

Lo seguo e ci immergiamo nel nero. Le pupille si adattano in pochi battiti di ciglia. Ci ritroviamo entrambi ad osservare il ricordo del modesto soggiorno con il cucinino al lato opposto. Lo scheletro della cucina è l’unico riferimento all’arredamento passato, il resto invece è decisamente irriconoscibile. Sento il lutto per i momenti passati qui, un peso ingombrante. Pensare alle ore trascorse mi spaventa, questi numeri impenetrabili sono cifre troppo diverse per ognuno.

 

Intanto non mi sono mossa, piantata nelle mie riflessioni. Vedo Fabio vagare leggerissimo nella cucina e lo raggiungo aggirando le macerie sparse al suolo. Gli odori perduti mi invadono le narici, seguiti subito da sapori irrecuperabili che mi fanno deglutire un fiume di saliva. Risate e sussurri mi arrivano alle orecchie da una distanza siderale, in sottofondo una tv accesa. È tutto persino più doloroso di quanto immaginassi. Arrivo alle sue spalle e lo scopro a stringere tra le mani qualcosa. Si gira verso di me, dischiude le dita ed esplode nella risata più triste che abbia mai sentito.

«L’avresti mai detto che sarebbe sopravvissuto proprio lui?»

Sul palmo dondola un po’ annerito il primissimo oggetto che avevamo comprato per quei ripiani: un buffo pollo di ceramica. Era tanto ridicolo e di cattivo gusto che non avevamo resistito, doveva essere nostro. La ritta cresta blu, il corpo tozzo, il becco all’insù, hanno ormai perso tutta la loro lucentezza. Adesso ha un che di etereo, quasi impalpabile, come fosse l’ombra dell’originale. Appoggio la mia mano su quella di Fabio e percepisco la ceramica polverosa sporcarmi.

«Magari troveremo qualcos’altro.»

Lui annuisce, si sfila nuovamente dalla mia presa e, dopo aver appoggiato il sopravvissuto sul primo ripiano ancora disponibile, prosegue oltre. Appena prima di seguirlo, di fianco al soprammobile, scorgo, o meglio rammento, i frammenti di un bicchiere. Ero stata io a romperlo? Il rumore del vetro schiantato sul muro mi sembra fin troppo familiare, così come le urla e i pianti che lo accompagnano. Mi ritrovo ad osservare solo grigi residui.

L’evanescente rumore di cocci proveniente dal bagno mi attira lì. I piedi di Fabio si trascinano in mezzo a quegli strumenti inerti, anneriti mucchi cacofonici, mentre esplora la piccola stanzetta.

Salta subito all’occhio quante cose sono sopravvissute al calore.

Probabilmente l’acqua aveva evitato i danni che invece avevano coinvolto gli altri locali, sembra quasi che tutto sia bruciato solo a metà. La porta è sparita, ma i sanitari sono al loro posto, intatti, semplicemente con un altro colore dipinto su parte del loro smalto. Quando ripenso a com’era prima quell’ambiente, mi vengono in mente tante parole sparse, come un banco di tonni. Intimità, battibecchi, spazi condivisi, odori. L’intimità guadagnata solo col tempo fece aprire quella porta all’inizio sempre chiusa. I battibecchi causati dagli spazi combattuti e dalle abitudini tanto criticate assunsero poi i connotati di interferenze radio. La stanza degli odori, tra fragranze, olezzi e profumi, nasconde ormai della nostalgia dietro a quel concentrato di effluvi. Poi sbatte una porta invisibile. Negli ultimi tempi era perennemente chiusa a chiave e la figura nello specchio sopra al lavandino sempre solitaria. Forse le fiamme ci hanno fatto un favore a divorare quella soglia di compensato.

Prima che possa entrare anche io in quel bagno bianco e nero, Fabio ,uscendo, mi passa affianco appoggiandomi una mano sulla spalla.

«Cosa ci è successo nell’ultimo periodo?»

«Di cosa stai parlando esattamente? Devi essere più specifico.» rispondo io acida.

«Prima o poi dovremo parlare anche di questo, non possiamo più continuare a fingere che sia tutto a posto.» Dentro di me so che ha ragione, ma…

«Aspetta…»

«Non fa niente.» e si sposta verso l’ultima camera, quella dove dormivamo.

Probabilmente i ricordi più intensi della nostra vita sono legati a questa stanza. Ma non riesco a non pensare anche ai più dolorosi. Percepisco quei silenzi strazianti nell’angolo in basso a destra, nascosti ad una prima e superficiale rievocazione. Il freddo di una lontananza incolmabile comincia a diffondersi nelle ossa, ma io mi affretto a scrollarmelo di dosso e a tornare cosciente di ciò che mi succede intorno. Fabio fissa oltre la porta della camera e si lancia subito al suo interno. Lo seguo agitata per questa sua reazione. Lo trovo chino davanti al materasso a mugolare qualcosa che decifro solo dopo qualche secondo.

«Non è possibile!» 

Il tono della sua voce mi fa gelare il sangue.

«Così mi spaventi.»

Sopra alla testiera è rimasta solo la cornice di metallo dell’unico quadro che avevamo in casa, le tela sostituita dall’intonaco cinereo.

Quel dipinto era l’unico su cui ci siamo trovati d’accordo, l’unico che piaceva ad entrambi. Ora è arte concettuale accidentale.

«Non è possibile, non è possibile, non è possibile, non è possibile, non è possibile.» Fabio sembra una registrazione in loop, immobile e gobbo sul nostro giaciglio. In quel momento capisco che per lui in realtà provo solo tiepidezze, ma non mi ci soffermo troppo e mi sporgo per conoscere l’origine di tanta sua incredulità nascosta dietro il suo ingombrante corpo. Sbianco immediatamente, divento un freddo cadavere.

Due statue di brace giacciono abbracciate con un’espressione deformata, dilaniata e dilaniante. Distinguo le forme, identifico la fisionomia e ci riconosco.

Queste spoglie siamo noi, o meglio eravamo noi.

Ma…ma quindi cosa siamo adesso? Fabio si gira verso di me con una maschera annichilita.

«Non capisco…»

«Non…non…non c’è più niente.» sento dire alla mia voce.

Un’esplosione mi colpisce in pieno petto. Il mio cervello impalpabile pulsa come un martello pneumatico. Non riesco ad afferrare singole sensazioni, sono investita da una valanga. Forse la cosa peggiore è rendermi conto di essere così addolorata, non per la perdita di quei ricordi, ma per il tempo perduto con essi. Ecco da dove veniva il dolore atroce, la sensazione di andare alla deriva, il peso ingombrante, il vuoto abissale. Finalmente realizzo. È questo che mi tormenta dall’inizio: che eravamo già arrivati alla fine di tutto. E che quei corpi sono abbracciati solo per paura. In quella casa ormai non rimane che la cenere di un tempo felice.

«Cosa siamo diventai? Chi siamo diventati?» mi chiede lui, inerme davanti a tutto questo. «Simulacri.» rispondo arresa.

Questa casa è stata consumata dall’abitudine. E ora solo il silenzio, infinito. La vertigine viene però interrotta da suoni ormai senza senso.

«Perché siamo ancora qua Carlotta?!»

Provo ad articolare una frase di senso compiuto ma, quando mi sopraggiunge la memoria di come sono giunta davanti a questa distesa di salme poco prima, l’unica cosa che sento è il fuoco bruciare.

Immagine generata con DALL-E
“a man and a woman seen from behind look at a house engulfed in flames, expressive oil painting”