Il cancelletto color tronco albero, scrostato leggermente sul chiavistello, miele per api e vespe, si chiude dalla mano forte, come quella di un contadino che mangia albe e beve tramonti, di mia Nonna Luisa. Nonna con la ‘N’ maiuscola, perché credo che il suo nome proprio sia Nonna, appunto. Seguito da un secondo nome, più indicativo, e riservato più alle altre persone che pare non conoscano il primo e si limitano a chiamarla solo sotto Luisa. Che poi, per intero sarebbe: Nonna Maria Luisa.
Ma le vicine la chiamano Signora Luisa.
Alcuni, La Luisa.
Però, mamma e papà la chiamano da sempre Nonna Luisa, forse per differenziarla dall’altra nonna, madre di mio padre, che io chiamo: Nonna Laura. Le sue mani però sono pulite. Con una fede al dito. (Nonna Luisa invece, da quando è morto Nonno Vittorio – per Nonna: Vittorino – ne porta due di fedi.) Comunque, le mani di Nonna Laura sono senza segni evidenti ed indelebili. Senza graffi e senza storie. Sono ricamate più da racconti brevi e fiabe narrate con la testa su soffici cuscini e colazioni da signori.
Nonna Luisa, a colazione mangia pane inzuppato nel latte. Da sempre. Da quando era bambina. Da quando fuori le pareti domestiche c’era posto solo per la guerra, e nei piatti si raccoglieva a cucchiaiate la paura, mandata giù da bicchieri d’acqua sporcati con del vino.
Quelle di mamma e papà, le loro mani, se ne stanno invece in auto. Nella macchina d’ufficio di papà, una Bmw color carbone. Sul volante si sono appena posate le sue. Con al polso sinistro un orologio regalatogli per il matrimonio da suo suocero, padre di mia madre, nonché marito di mia Nonna.
Si, la stessa dalle mani forti e forgiate da anni di lavoro. Prima nella bottega tra due ponti nell’isola di Burano, poi dietro ai suoi tre bambini che negli anni si sono fatti adulti, ed ora a badare ai nipoti. Nello specifico, oggi, a badare a me. La quarta nipotina in ordine di nascita.
La mano destra di mamma, seguita dalla sua testa ricoperta da una chioma scura sgusciata fuori dal finestrino abbassato, sta sventolando come una bandiera al vento per salutarmi.
-Torniamo presto. Domenica dopo pranzo, saremo già di ritorno. Fai la brava e ascolta sempre la Nonna. – dice la voce di mamma che se la porta via il vento con la marcia ingranata da mio padre che ha già messo in moto e fatto partire la macchina, come se avesse una certa fretta, o un certo timore di perdere la vista dei monti. Come se ritardando troppo nei saluti, le montagne decidessero di smontarsi e ficcarsi dentro ad una scatola posandosi poi sotto il letto di un bambino e tirata fuori chissà poi quando. Meglio non rischiare. E se ne vanno lasciando le mie manine sul cancelletto e quelle di Nonna, una sulla mia piccola spalla tondeggiante e l’altra ancora a salutare, messa lì come a rassicurare i genitori, ormai svaniti dal nostro campo visivo, che la loro figlioletta starà bene in questi due giorni lontana da casa.
Ce ne stiamo lì un po’.
Davanti a noi la macchina prima parcheggiata con i visi di mamma e papà all’interno, non c’è più.
Il vialetto è sgombro. E affaccia sulle case delle vicine di Nonna. Con solamente parcheggiati davanti alle rispettive case, un maggiolone grigio, tutto curvo che soffre di nostalgia. Ed una bicicletta con ancorato dietro un carrellino, di quelli per fare la spesa in paese.
Il maggiolone sempre zitto e triste è della signora Luciana. Una donna sulla sessantina con un marito scorbutico, costantemente piegato sull’erba del loro giardino a raccogliere dal loro orticello: pomodori, ed insalata. Che di tanto in tanto, Nonna se ne ritrova un cesto proprio davanti al suo cancello con un bigliettino scritto a macchina.
La loro cagnetta, di nome Kira, scorrazza intorno ai due padroni come una saetta impazzita. Sempre impaziente di giocare, e se non ascoltata e accontentata nella sua semplice richiesta, si mette ad abbaiare facendo da allarme per tutto il vicinato.
La bicicletta rossa munita di carrellino incorporato è della signora Laura, che non è l’altra mia nonna, ma condividono lo stesso nome, abita nella casa accanto.
Se ne sta tutto il santo giorno con il viso alla finestra. Come se facesse gli agguati alla stregua di un gatto annoiato. Aspettando solo di trovare un passante, uno qualunque, da salutare.
Così poi, potrò tornare e fare compagnia dalla porta a finestra di Nonna alla signora Laura, offrire le mie chiacchiere allenate da finestra a finestra. Così magari, non sarà più così tanto sola e non sarà più costretta a fare gli agguati.
Ma per ora sono troppo piccola. E la mia voce troppo debole.
Nonna è rientrata in casa che sul fuoco ha lasciato il ragù.
Io, ancora con le mani al cancello, mi domando quanto sono alte queste montagne ed al perché una bambina piccola non possa andare lì ad osservarle da vicino.
La testina della signora Laura sbuca leggermente dalla finestra con un lenzuolo pronto ad essere sbattuto, così me ne scappo in casa a raggiungere Nonna indaffarata per il pranzo del sabato.
Casa di Nonna è grande. Grande quanto un castello. Un castello che prende vita nelle prime ore pomeridiane, quando non è sorvegliato dall’occhio vigile di Nonna, che dopo aver mangiato si appisola sulla sedia della cucina a guardare Forum e La signora in giallo alla tv.
Lì, il mondo, quello sconosciuto agli occhi dei grandi, prende vita ed incomincia a muoversi e a respirare a pieni polmoni. Il tempo smette di esistere. Di camminare tra i minuti come fa sempre. Si prende una pausa, e lascia il posto alla fantasia che per natura non ha ticchettii che la possano in qualche modo limitare.
Le scale, due rampe di gradini in marmo con uno scorri mano di un legno pregiato, si alzano e prendono a scambiarsi di posizione. Ad inclinarsi ed abbassarsi. Lo specchio, gigantesco, dalla cornice dorata e piena di incisioni fatte a mano, messo tra le due rampe, mostra ai pochi occhi attenti, universi infinitamente spaziosi, nei quali puoi entrare solo se conti fino a tre e chiudi forte gli occhi.
I quadri, due mastodontiche cornici dorate che tengono ferme le fotografie dipinte da un abile pittore negli anni antecedenti alla guerra, si risvegliano e ti indicano le stanze segrete e il modo in cui accedervi. Anche per questo, vale la questione di contare fino a tre con gli occhi chiusi fortissimo.
Quando ho chiesto a Nonna chi fossero i due signori ritratti in quelle pose così nobili, mi ha risposto: Nonna Giulia e Nonno Savino.
Allora io ho pensato, hanno lo stesso nome di Nonna, solo che il secondo cambia. Anziché Luisa, c’è Giulia. E Nonna Giulia, la madre di mia Nonna è uguale-uguale a lei. L’unica differenza la si trova tutta nei capelli. Quelli di Nonna Luisa sono corti e biondi, quasi miele.
Quelli che sovrastano la testa di Nonna Giulia invece sono legati in uno chignon e sono bianchi.
Ma occhi, labbra ed espressione sono la medesima.
Nonno Savino invece, non somiglia affatto a Nonno Vittorio, il che forse è normale visto che non è imparentato con lui. Però non somiglia neanche un pochino nemmeno a Nonna.
Ha due occhi fondi. Una sottile striscia senza espressione al posto della bocca. Ma se ti avvicini e guardi meglio e con più attenzione, si nota che un occhio è dipinto in modo diverso dall’altro. Quando ho chiesto a Nonna il motivo, lei mi ha mostrato delle sue fotografie, antecedenti ad un incidente che gli ha cambiato la vita e il modo di vederla. Ho capito anche il perché di quella bocca così tirata e sofferente nel ritratto.
Nonna, mi ha raccontato, mostrandomi Nonno Savino in una foto in bianco e nero con gli occhiali scuri, che ha perso, a seguito di un incidente su di una nave quando diciottenne faceva il militare, l’occhio sinistro.
E io quasi piangente e spaventata le avevo domandato come facesse ora, con un buco in mezzo alla faccia. Nonna mi ha rassicurata prendendomi tra le sue braccia, e con l’indice asciugandomi le lacrime, che lo ha “sostituito” con uno nuovo di zecca. Ancora più bello di quello che aveva prima. Solo, non funzionava come quello naturale. «Il mondo, Titti, si può vedere benissimo anche con un occhio chiuso, se solo si dà alle cose il giusto valore e la meritata attenzione», mi aveva detto sorridendomi per tranquillizzarmi. Più avanti mi ha rivelato che suo papà, Nonno Savino, possedeva un bicchiere con dell’acqua che teneva proprio accanto al letto sul comodino.
«Che cosa ci tiene lì dentro, Nonna?», avevo domandato senza pensare cosa potesse essere. Avrei immaginato una dentiera. O qualunque altra cosa potesse starci in uno spazio così circoscritto. Magari un pesciolino rosso. Nonna mi disse che lì ci teneva il suo occhio. Quello nuovo. In vetro e azzurro.
Ma Nonno Savino, aveva gli occhi castani. Perciò da quell’incidente, nessuno, nemmeno la moglie e la figlia, lo videro più senza i suoi occhiali scuri. E neppure videro più il suo sorriso.
Le stanze che abitiamo durante il giorno e nelle quali non ci sono problemi per entrare, sono: il soggiorno, ampio con due poltrone in pelle color verde bottiglia, che guardano un piccolo televisore che prende solo pochi canali. A notte tarda programmi con bollino rosso, che Nonna ha prontamente criptato, e che io non posso sapere di che parlano.
Accanto alle due regali poltrone, c’è un tavolo lungo-lungo in legno d’acero, che io e Nonna quando siamo sole senza mia cugina Elettra di due anni più piccola di me, o la zia di Roma con gli altri miei due cugini, Alberto detto ‘Bobo’ e Gianluca detto ‘Giangi’, assieme a mio zio Andrea, o qualunque altro famigliare o ospite che si fermi per trascorrere del tempo da Nonna, non lo usiamo. La tavola preparata per pranzo e cena e specialmente per le abbondanti e sempre gioiose colazioni, è quella della cucina, che in realtà non è la cucina principale dove il cibo viene preparato.
Ci sono i fornelli, lo scolapiatti, un microonde e pure forno e lavello. Ma sia il forno che il lavello non funzionano più da anni. Infatti, sul fondo del lavello ci sono riviste ammassate di Nonna e della mia cuginetta quando trascorre i suoi pomeriggi qui dopo scuola, portandosi appresso pure i suoi pastelli. E nel forno invece ci sono tutte quante belle stipate vecchie fotografie di Nonna giovane. Della mia mamma bambina, di Nonno Vittorio e dei loro anni trascorsi insieme. Di mio zio Candido, uguale in tutto a Nonno. Mia zia Anna, uguale in tutto alla mia mamma. Gemelle con un mezzo anno di differenza, ma la differenza non la trova mai nessuno.
Ci manca che quasi mi confonda anche io.
Solo che il profumo della mia mamma è inconfondibile. Ha il sapore di casa. Che può essere ovunque se ci sono le sue braccia che mi tengono stretta.
Nonna, è simile in questo a mamma.
Non hanno certamente lo stesso profumo. Anzi. Due cose assolutamente diverse. Come il giorno e la notte. Il sole e la luna. Ed altre cento cose così.
Ma entrambe, hanno quel profumo che se ci leggi bene dentro porta sulla scritta di casa. Famiglia. Abbracci e carezze.
È inconfondibile. Lo sono entrambi. E solo i loro mi richiamano così fortemente. Nessun altro profumo mi parla in quel modo. Con quella delicatezza. Con quell’affetto profondo.
E non ci sono nomi.
Non hanno un profumo che hanno tante signore, madri e nonne. Che puoi acquistare al primo negozio. O trovare ad una bancarella il giovedì mattina quando è giorno di mercato. È solo loro. È fatto delle loro emozioni raccolte nel tempo. Delle loro sensazioni. Di ciò che hanno visto ed annusato. Assorbito, detestato ed accolto. Respirato, sognato, toccato e non gradito.
Quante volte, ho sentito Nonna arrivare a prendermi a scuola, senza vederla, senza sapere prima che sarebbe arrivata facendomi una sorpresa, solo per il suo profumo che il mio naso sentiva nell’aria, che quando c’è lei si fa più fresca e serena.
Un giorno spero di aver lo stesso profumo, che faccia girare la testa per venire a cercarmi chi mi vuole e mi vorrà bene.
Poi, c’è un buio e stretto corridoio che subito sulla destra porta ad un bagno. Anche quello buio e stretto. Con i rotoli di carta igienica di scorta sistemati nella credenza che somiglia ad una finestra. Forse un tempo lo era. Magari era la finestra dove un bambino ammirava per la prima volta il mondo dalla sua cameretta.
Proseguendo per qualche passetto per il corridoio scarsamente illuminato, si apre poi una luminosissima cucina. Quella in funzione. Dove Nonna sta facendo il ragù, che invece di prepararlo la domenica mattina, si prende avanti già dal giorno prima, per avere il tempo di preparare al meglio altre squisite pietanze che solo una Nonna sa fare. Non c’è ricettario che tenga. Le nonne, tutte hanno un loro segreto, che si tramandano senza proferirne parola. Senza scriverlo da nessuna parte, altrimenti si rischierebbe di disperderne la magia. E se questo accadesse, che farebbero tutti i nipotini sparpagliati in ogni angolo della terra?
Lì, in quella cucina dal profumo introvabile in nessun’altra parte, c’è la famosa porta a finestra. Che porta sul giardino mattonato e sulla vista della finestra della temibile signora Laura. E poi al garage, passando prima per una panchina in legno sovrastata dagli amati Gerani e da sempre motivo di vanto di mia Nonna. «Guarda Titti, come sono belli quest’oggi i miei Gerani». Sedendo sulla sua sdraio bianca al fresco del suo ombrellone rosa con le frange.
Quanti pomeriggi passati sotto quell’ombrellone a guardare le poche macchine che passano sull’asfalto. Io coloro. E scrivo letterine che Nonna conserva sempre su un suo cassetto speciale.
Quando capita che bisticciamo, io ricorro subito alle scuse via corrispondenza.
Rubacchio un foglio dallo studio del nonno, dove teoricamente non potrei metterci piede. Non so cosa ci sia nascosto lì dentro, ma Nonna chiude sempre la porta a chiave e la nasconde su una sua traversa riposta nella sua cabina armadio. Io l’ho vista nascondere ed infilarla in quella tasca, perciò quando mi è strettamente necessario, la vado a ripescare, apro cautamente lo studio come fossi una super spia, e prendo i fogli del nonno. Lui gli usava per lavoro i fogli. Erano necessari, altrimenti, uno scrittore, dove altro potrebbe scriverle le sue parole? Poi richiudo tutto, facendo attenzione a non incrociare gli occhi di Nonna, e ripongo la chiave nel nascondiglio il quale dovrebbe essere segreto e mi metto a comporre le mie scuse su carta, utilizzando i pastelli di mia cugina Elettra che dimentica sempre qui.
Sulle biciclette ammassate. Su quella gialla di Nonna alla quale Nonno Vittorio ci ha montato su due rotelle più piccole, così che mia nonna potesse andarci in giro a fare la spesa senza preoccuparsi e vergognarsi che da bambina nessuno le ha insegnato a come si pedala sostenuta solamente da due ruote.
Sul bagno dismesso che apparteneva ad una vecchia discoteca che esisteva prima che i miei nonni la trasformassero nel loro piccolo paradiso terreste. Nonna lo chiama ancora così.
Gioco tra i loro ricordi sentendone l’odore. E rubandone un po’ per quando soffrirò di nostalgia.
E poi, l’erba minuziosamente falciata, dal signor Mario il martedì mattina.
I cinque alberi piantati dai nonni per ognuno dei loro nipoti. Una nascita, un nuovo alberello.
Il mio albero, chiamato Titti, come chiamano me, soprannome datomi proprio da mia Nonna Luisa, facendo della mia storpiatura non in grado di pronunciare bene e per intero il mio nome, un qualcosa di più. Come un vestito su misura, che ancora non si può vedere quanto bene sta indossato, ma una volta grande e arrivati alla misura giusta, quell’abito starà a pennello.
L’alberello Titti è il più mingherlino, lì ci crescono i melograni. Che io ho imparato ad amare proprio in questa casa, quando Nonna lì tirava giù dai rami intrecciati fra loro. Ma altrove, se mi capita di imbattermi in un melograno non oso mangiarlo. Non è quello di Nonna. Non è cresciuto e maturato sui rami e tra le foglie verdi del mio omonimo alberello.
Poi, c’è l’alberello di Elettra. È un pochino più robusto del mio e più rigoglioso. Lì ci crescono bene le “sinsoe”, termine veneziano per indicare le giuggiole.
Invece negli alberi di mio fratello Emanuele, detto Mami sempre per pigrizia nel pronunciare al meglio il proprio nome, quello di mio cugino Alberto, detto Bobo e in quello di Gianluca detto Giangi, il più grande e forte di tutti quanti, ci crescono: albicocche, susine e pesche.
In quegli alberi ci sono cresciuta. Standoci sopra. Arrampicandomi nel mezzo. Ascoltando il rumore che pronuncia il vento. Ho imparato ad ascoltare le sue parole e le sue canzoni, che sono vivide e chiarissime se solo ti concentri a starlo a sentire. Occhi chiusi e conta fino a tre. E lui, parlerà. Parla sempre. Racconta un sacco di cose. Che vede in giro e poi mi riporta all’orecchio perché io un giorno possa raccontarle.
Guardo gli uccellini che cinguettano dietro la mamma dalle ali vissute, imparando dai suoi movimenti a calpestare da soli il mondo. Procurandosi cibo e incominciando a capire che il cielo sarà loro una volta conquistato, vincendo la paura del vuoto.
Siedo sulla altalena costruita da Nonno. E immagino di essere su di una zattera in balia di una tempesta, ma che alla fine mi riesco sempre a salvare ed esce il sole con la calma piatta dell’acqua che si fa serena.
Rincorro i gatti che finiscono a girovagare nel giardino e do loro un nome, visto che non conosco quello dato dai loro padroni. Ma credo che i miei nomi gli piacciono, perché quando lì chiamo si voltano a guardarmi e dopo una breve pausa per osservarmi e scrutarmi, si avvicinano per una carezza chiusa nella mia mano, sempre pronta per coccolare il loro pelo soffice.
Ho imparato ad ascoltare il mondo e le cose che aveva da dire. Perché anche lui, come il vento, di storie ne ha da narrare. Solo, non sempre trova orecchie per potersi aprire.
Ho capito che cosa vuol dire essere e stare da soli. E crescere più in fretta.
Giocare da soli è il miglior modo per apprezzare il gioco condiviso con gli altri, non per dettarne le regole ma per saperle rispettare rendendole vere e palpabili.
Il pranzo è pronto, e Nonna mi chiama a gran voce dicendomi prima di andare a lavarmi le mani.
Mi fa star bene essere chiamata in quelle sue note soffici e sentirle pronunciare amorevolmente il mio nome. Mi sento come in una bolla di sapone piena zeppa di cose buone che altrove è difficile trovare. In giro solo brutte copie al massimo.
Mangiamo la pasta al ragù. Io ne ho di più. Lei si è sporcata appena gli spaghetti. Si prende tre pastiglie seguite da un bel bicchierone d’acqua per mandarle giù.
La guardo e lei finge che siano caramelle, non di quelle gommose, ma comunque buone, perché fanno bene e se le prendi stai meglio, mi dice lei.
Io rigiro gli spaghetti sulla mia forchetta, sforzandomi da fare la bambina grande e mangiare come gli adulti mangiano a tavola.
Nonna però, mi viene in soccorso e tira fuori dal secondo cassetto del mobiletto in cui tiene posate e tovaglioli, un coltello ed una forchettina piccola. Quella che usiamo quando c’è un dolce a fine pasto.
Mi sorride e io faccio altrettanto.
Ha una montatura di plastica tutta verniciata d’argento, con un cerotto nel mezzo per tenere il nasello fermo e al suo posto.
In realtà credo sia un pezzo di scotch, però, dato che Nonna quando ho chiesto che ci facesse con quel coso sugli occhiali, mi ha risposto che è perché s’erano rotti, allora io ho pensato che “cerotto” fosse il termine più corretto. Perché quando qualcosa è rotto non sempre è necessario aggiustarlo, bisogna guarirlo. Bisogna che la ‘bua’ passi, e quindi solo il cerotto fa d’antidoto in casi come questi.
Prende coltello e forchetta, quella grande, e si mette a tagliuzzare gli spaghetti, facendone dei piccolissimi pezzetti che possono essere raccolti solamente con una forchetta piccola.
Mi sorride di nuovo tra le lenti dei suoi occhiali con la ‘bua’ e si posa coltello macchiato di sugo e forchetta per grandi sul suo tovagliolo, ora cosparso di rosso.
Impugno la forchettina e facendone un pasticcio assemblando bene il sugo e i pezzettini di carne, mangio tutto fino a che dal piatto non esce solo il suono che fanno le punte metalliche della forchettina.
Beviamo acqua con le bolle e guardiamo i Simpson alla tv.
Il telegiornale lei lo guarda appena alzata, intorno alle cinque del mattino, e alla sera prima di mettere in tavola la cena.
Nonna, finito il suo piatto di spaghetti non tagliati, si prepara un caffè con la moca.
Io prendo un gelato alle nocciole dalla credenza in alto, dove c’è incastonato un quadrato di freezer.
Dai Simpson alla Signora in giallo. Mento appoggiato alla mano chiusa a pugno e respiro pesante che indica l’essersi appisolata.
Mi alzo, muovendo piano la sedia e dirigendomi verso la porta che apre il castello.
Sta iniziando il mondo senza tempo, che ha posto solo per me.
L’ora non la so più. Anche perché da nonna la giornata è scandita e suddivisa a seconda dei pasti. Non ci sono numeri. C’è la colazione. Il merendino. Il pranzo. La merenda, quella più grossa dove posso mangiare il gelato preso alla gelateria in fondo alla strada. Accanto a Rui, un mini-supermercato dove Nonna compra sempre il Roast-beef e i succhi di frutta all’albicocca assieme ai bricchetti di estathé. Poi, la cena.
E così per il giorno seguente. Cambiando per i mondi che mi si distendono davanti agli occhi nelle ore in cui Nonna stanca si addormenta in mezzo al giorno, e per il cibo che ogni volta varia sulla tavola. Sempre squisito. La colazione però è la cosa che più al mondo preferisco.
Io dormo più di Nonna. Ma comunque non scendo dal letto poi tanto tardi.
Conosco bambini che dormono molto più a lungo di quanto non faccia io. Forse ho preso da Nonna.
Ma quando mi ritrovo sola nel lettone, con la canottiera bianca di Nonna che mi fa da camicia da notte, mi stropiccio gli occhi e capisco che è ora di scendere richiamata dal profumo della colazione. Anche se a dividerci dalla cucina ci sono ben due rampe in marmo di scale, io il profumo dei krapefen presi alla pasticceria “Casa Blanca” dietro casa, poco distante dalla gelateria, lo riconosco immediatamente. Forse è proprio quel profumo che mi sveglia e mi costringe scalza e assonnata ad andare da Nonna che già assieme all’alba che le fa compagnia da ore, ha inzuppato il suo tozzo di pane in un bicchierone di latte appena scaldato.
Mangio il mio risveglio trasbordante di crema e sorseggio il mio succo di albicocca, spremendo fino a che non ce ne sia nemmeno una goccia all’interno del bricchetto.
Le giornate passano e da due, si fanno minuti e scarsi secondi, il tempo riprende lentamente possesso del suo ruolo e avvisa me e Nonna con una chiamata fatta dal telefono rosso con cornetta da alzare e numeri da far scorrere su di una ruota rumorosa, che mamma e papà stanno tornando dai monti, e come mi aveva detto la voce rassicurante di mamma, domenica, dopo pranzo, sarebbero tornati a prendermi.
Un buco allo stomaco mi fa vivere il pranzo con un senso di insoddisfatto appetito, che non voleva palesarsi perché farlo avrebbe sancito l’arrivo di lì a poco di mamma e papà. E io non me ne voglio ancora andare. Quando mi lasciano qui, ho sempre un po’ di timore. Di aver paura di stare sola, anche se so esserci Nonna. Di aver timore di non rivedere più i miei genitori, che si scordino di me, o peggio io dimentichi le loro facce e i loro sorrisi, dimenticando pure i loro rimproveri. Ma poi, in quel castello, tra il verde di quella pace che si innalza tra alberi e zattere da destreggiare, io non ho più paura. Non so nemmeno cosa sia, e perché avessi potuto provare un sentimento simile.
L’uovo alla coque mi sta sotto il naso. In mano un cucchiaino che Nonna mi dice di battere adagio sulla cima del guscio per sfregiarlo il giusto per far uscire tutto il tuorlo morbido. «Poi, mettici il sale», mi dice passandomi il barattolino. Lei si mette pure un po’ di pepe, il che mi viene immediatamente da imitarla. Prendo un pizzico di sale e do una macinata di pepe, seguendo minuziosamente i movimenti di Nonna.
Mangiamo e alla tv ci sono i Simpson.
«Sei contenta che tra poco arrivano mamma e papà a prenderti?» mi dice Nonna con la bocca arancio di tuorlo.
Non rispondo e mi riempio la bocca di uovo. Bevendo un sorso d’acqua per mandare giù tutto. Come fa Nonna con le sue tre pastiglie.
Il caffè sulla tavola versato sulla sua tazza verde senza aggiungerci zucchero, perché il diabete lo detesta e non ci va proprio d’accordo, perciò al suo posto ci mette un cucchiaio di dolcificante, che io una volta ho assaggiato e mi son ritrovata con la lingua sotto il lavandino per cancellarne il sapore.
Io, sposto la sedia da sotto la tavola e l’avvicino al freezer, visto che è posto in alto, salgo sulla sedia e prendo da me il mio gelato alle nocciole, rimettendomi a mangiarlo seduta accanto a Nonna.
Quest’oggi niente riposino davanti a Forum e La signora in giallo.
Quest’oggi, niente mondi stupendi e preclusi ad occhi che non siano i miei.
Niente nuove avventure. Zattere in mezzo ad un mare in burrasca e gatti ai quali trovare nuovi nomi.
Il garage rimane chiuso, costudendone all’interno i suoi ricordi.
Lo specchio non mi fa entrare, perché sa che non potrei chiudere forte gli occhi e mettermi a contare.
Prendo il mio zainetto con le magliette che Nonna ha lavato a mano e fatto asciugare fuori al solo dietro al giardino.
Mi lascia un bacio sulla guancia e un puffetto che mi fa scappare una risata.
Ci sediamo fuori sotto l’ombrellone rosa a frange. Lei sulla sua sdraio. Io senza colori ne fogli.
Una letterina gliela ho scritta poco prima di metterci con i gomiti sulla tavola per il pranzo.
Sono sgattaiolata nello studio del Nonno, prendendo la chiave dal posto oramai non più così nascosto, e ho pescato un foglio bianco dai tanti che ci sono lì distesi in pace sulla scrivania e ho portato via una panna, senza scomodare i pastelli di Elettra.
Mi sono seduta a gambe incrociate sul pavimento del salone, attenta che Nonna dalla cucina non venisse a scoprirmi.
L’ho piegata in quattro parti e sono corsa a posarla nel comodino di Nonna. Quello dal lato sinistro. L’unico con una lampadina che per tutta la notte rimane accesa. Nonna ha paura del buio, perché come per la bicicletta, nessuno mai le ha insegnato come si fa a non aver timore.
Poi, me ne sono tornata di sotto e ho saltellato in giro per casa attorno a Nonna e lei si è messa a ridere e a darmi della ruffiana.
La lettera la troverà prima di andare a dormire, e spero che con questa rimarrà per tutta la vita la mia migliore amica. Anche in un mondo senza tempo. Senza orologi. Bagnato solo dal suo profumo. Dove si conta fino a tre con gli occhi serrati. Chiusi fortissimo.
L’auto d’ufficio di papà suona in un saluto di ritorno. Mamma sguscia con la sua chioma scura dal finestrino abbassato sventolando energeticamente la mano, più entusiasta di quando l’aveva usata per salutarmi andandosene via.
Io e Nonna ci alziamo dalle sdraio lasciando sola l’ombra dell’ombrellone.
La mano sulla mia spalla, e la mia ad aprire il chiavistello leggermente scrostato del cancello color tronco, miele per api e vespe.
Papà parcheggia e entrambi felici come non ci vedessimo da secoli mi stringono baciandomi tutta, come a dirmi che non mi hanno abbandonata. Non succederà mai.
Nonna da due baci a papà e mamma le si getta al collo, poi un saluto dal lato opposto della strada ci fa voltare all’unisono la testa.
È la signora Laura. Con due mani sventolanti e un sorriso a tutti denti.
Mamma e papà la salutano e facendo segnali di fumo a Nonna, ce ne scappiamo tutti dentro l’auto.
Io mi siedo dietro, con la cintura che mi da fastidio alla pancia.
Dal finestrino sinistro, le mani in aria del gatto con la permanente perennemente in agguato.
Dal finestrino destro, il sorriso di Nonna, lucente anche se dentro è triste e pieno di nostalgia che presto una volta andata via, so le avrebbe fatto tanta compagnia.
Non ci siamo abbracciate prima che me ne andassi.
Non serviva.
Ci siamo dette tutto durante questi due giorni che non hanno tempo ne ricordo vero perché nascosto e tenuto al sicuro in fondo alla tasca del suo vestito assieme alla chiave da non prendere, e tra gli scaffali e gli attrezzi del garage. Dove lì il mondo mai scompare.