
Notte prima degli esami
Gli ordini. Percepiamo il ritmo degli anfibi che sbattono l’asfalto, schiacciano vetro e lattine, calciano i sanpietrini rimbalzati sugli scudi, sui caschi e poi a terra. Percepiamo il nostro respiro, che è unico. Seguiamo gli ordini impartiti dall’auricolare, protetto dall’imbottitura. La voce arriva da un punto lontano, che non è qui con noi, a soffrire il caldo e la rabbia che dobbiamo reprimere. Ci scortiamo l’uno con l’altro, abbiamo studiato, abbiamo imparato, siamo al di sopra di ogni cosa, della politica, delle rivoluzioni, delle soppressioni. Quando siamo qui siamo la bestia. Mancini ha un attacco di panico. Di nuovo. Lo sento vibrare di convulsioni, al mio fianco. È successo ancora. «Mancini» lo chiamo, ma non risponde. Respira come se dovesse vomitare un polmone. «Mancini, se te ti stacchi, quelle puttane fanno breccia». Mi volto, distogliendo lo sguardo dal cordone, l’orecchio dalla voce, il pensiero da chi ci comanda.
«Mancini, madonna impestata, non come alla Diaz». Si volta anche lui, lo vedo attraverso la visiera, il casco legato sul mento, gli occhiali da sole. Non s’è manco tolto gli occhiali. Ha le labbra schiuse, bava grumosa agli angoli. Stringe fra i denti la lingua. «Sto a morì Toledo» mi dice. Poi arriva l’ordine. L’udito si riattiva, calamitato, ipnotizzato, non è il timpano a funzionare come membrana, è l’auricolare che è il tramite della voce di uno e di tutti. Noi che siamo lei: la legge, il giusto, la quiete. L’ordine arriva e lacera.
Lo sente anche Mancini, perché i denti si serrano, tranciano una punta di lingua. Dice «A Tolè, non adesso, te prego. Diglielo» e si mette un rossetto di sangue.
Quando succede è sera, siamo a metà del viaggio. Abbiamo assorbito la strada e con essa il nome delle vie che abbiamo attraversato, le vetrine scheggiate, esplose dai sanpietrini che abbiamo lanciato. Le torce che abbiamo acceso. I lacrimogeni che abbiamo pianto. Si direbbe un fiume, la massa umana compatta vista da un drone, un muro che avanza, come liquido e solido, molle e devastante. Quando succede Noi siamo una accanto all’altra, legate dalle braccia, le mani, dita intrecciate se non reggono sassi, striscioni, le aste delle bandiere. Siamo una maglia di carne che grida. Marciamo scoordinate, al contrario di Loro, che si chiudono a testuggine quando carichiamo, quando lanciamo. Avanzano di un metro quando ci fermiamo. Non indietreggiano mai. Noi ripieghiamo, ma non molliamo.
Mi dice che s’è persa il portafogli, che qualcuna gliel’ha fatto. Io dico «Aprì, portafogli e documenti a casa. È la regola». Glielo urlo nell’orecchio, per rabbia innanzitutto, e perché il rumore è infinito, un grido compatto, eterno, un mischiarsi di voci, sirene, tonfi, bestemmie, mani, tamburi, gli speakers alle nostre spalle, clacson, megafoni.
Quando succede, lei mi sta per dire che le fregancazzo del portafogli. Lo sta per dire, ma succede.
«Mancini, respira». Gli altri se ne accorgono. Bestemmiano e gli urlano contro. Lo sgridano come un bambino. Così non lo aiutano. Ha ventisei anni, l’hanno buttato qui dentro, a diventare bestia adulta come noi. Ma chi sta qui, la bestia ce l’ha addosso. Mancini no. È già successo alla Diaz, l’avevo raccolto da un angolo, reggeva una spranga non sua, stava senza casco, la fronte appoggiata alle ginocchia. Gli avevo detto «Che hai? Rialzati». Non rispondeva. Si strozzava il respiro, non lo lasciava passare. Le urla che arrivavano dalla palestra – come queste urla qui, oggi – non lo aiutavano. L’avevo afferrato per una spalla, provando a rialzarlo, Mancini si era come rianimato preso da una scossa violenta. Aveva afferrato le punte dei guanti e cominciato a sfilare le dita. «Che cazzo fai. Tienili su». Aveva detto che gli stavano bruciando le mani. «Stanno bollendo». L’avevo tirato, spinto verso l’uscita, affidato ai carabinieri che stavano all’esterno, perché quelli della DIGOS non lo vedessero in quello stato. Avevo detto ai paramedici che si era preso una botta ed ero rientrato. Quelli l’avevano capito subito che stava sotto panico, solo guardandolo. «Portami fuori daqqua, Toledo», sibila insieme al filo d’aria che lo tiene ancora in piedi. «Mancini, sta per succedere, se cedi fai un macello». Milella, dietro di noi, lo insulta in barese. Gli urla che lo fa cacciare a stu tremòne de mmerde. Si alza la visiera e gli sputa sulla schiena. Un grumo denso sul catarinfrangente. Infilo la punta del manganello, ancorato allo scudo, tra le costole del mio compagno. Lo costringo a rimettersi dritto con la schiena. Nell’auricolare l’ordine arriva. Procedere.
Siamo venute in quattro, io a sinistra, Aprilia alla destra, sorella fra le sorelle. Sorella di carne, lei, di sangue proprio. Generate da nostra madre, che, se avesse ancora qualche funzione salva dall’Alzheimer, ci ammazzerebbe a saperci qui. Invece l’abbiamo lasciata in casa con zio Settimio, suo fratello di carne, di sangue. Che la starà imboccando o pulendo o le sta raccontando qualcosa. Che ore sono? Le sette e mezza. Le starà tagliando la fettina panata, “dai Vittò, magna un pochetto”, e lei che le dice “bello de mamma, sei tornato? Eccom’era l’Ammerica? Era bella ammamma?” Vedendo nello zio la figura di nostro fratello Alberto, pensandolo lui. Ma Albertì non è mai tornato, in America non c’è mai andato, sta da qualche parte in Spagna e non chiama mai. A destra di Aprilia c’è la sua amica Ludo, si conoscono dall’asilo, hanno la stessa età, lo stesso taglio di capelli, solo colori diversi: una azzurri, l’altra rosa. Entrambe corti, quasi rasate, a parte sulla nuca, a scendere. Ludo indossa la divisa della Lazio, sulle spalle non c’è numero, non c’è nome. «Ma come, con la maglia della lazie sei venuta?» e quella le ha risposto «Embè?» A sinistra, al mio fianco, c’è Vincent, la trans. L’unica cosa che gli ormoni non le hanno cambiato è il nome di battesimo e l’altezza. ‘Na pertica. Al lobo ha un dilatatore che ci passa una mano. Di solito la mettono davanti, a fare paura.
Ma Loro non temono niente perché non hanno niente. Sono pedine. Soldatini con i manganelli. Una che stava in classe con Aprilia è entrata nell’Esercito. Cagna. Ludo ha le orbite impestate di lacrimogeno, occhi bovini che, se non gli sono ancora caduti sulle guance, è un miracolo. Li gratta con l’avambraccio, credendo di asciugarsi dal nitrato di potassio. «Accanna co ste mano, Lù» le dice Aprilia. «So ciecata» risponde l’altra e afferra una pietra al buio, la scaglia per rabbia, disperazione e riflesso incondizionato.
Mentre ne seguiamo la traiettoria a salire, a sfiorare l’ombrello di un lampione e poi scendere, prendere di nuovo velocità e impattare sull’asfalto, senza raggiungere le guardie, mentre fissiamo l’arco perfetto del suo andarsene, un attimo prima che raggiunga il suolo, sbriciolandosi come biscotto secco. È lì che capiamo, lo sappiamo, sta per succedere.
Succede. Ci sono cose che rotolano, perché hanno la forma per farlo. Altre cose si incagliano, perché vivono di spigoli, angoli da svoltare alla cieca.
Le iridi di Mancini hanno preso direzioni inverse, impensabili. «Mancini, è successo. Ora basta». Ma il controllo che abbiamo su noi stessi non è trasmissibile. Gli passo il fazzoletto sulle labbra, il mento, il sangue è rappreso, la lingua, priva della sua punta, è gonfia. Il dolore fisico salva Mancini dall’altro dolore, quello mentale. Dolore sostituisce dolore. Sappiamo che affronteremo la conseguenza di ciò che è successo. Mancini no. Lui non c’è mai stato. Lo abbiamo tenuto fra noi come un tassello, il pupazzo della bestia. Mancini la conseguenza non l’affronterà, la subirà. Alza il volto, che fino a ora è rimasto tra le briciole dell’asfalto, sui lacci degli anfibi. Guarda avanti, una scena che forse non ha visto, ma che ha immaginato. Ma non così. «A Tolè, io non ho ceduto, ma qua il macello l’abbiamo fatto uguale».
Succede. Di questo momento, tre di noi ricorderanno: il fumo ovunque, l’inclinazione dell’asse terrestre, le persiane che si chiudono, le sirene, la fronte spaccata di Aprilia, le ossa, grida, l’ideale, gli zaini a terra, anche i vetri, l’acufene, una parte di cielo e la parte di noi che l’ha raggiunto, il guaito continuo di un cane, decine di voci diverse, la vampa, un cavallo fra gli scudi, i lampi stroboscopici dei flash fotografici, l’attimo di silenzio, l’intimità che ne è seguita, l’acqua versata, la segatura poggiata, Nanni Balestrini, il nome di una via, di una piazza, la punteggiatura mischiata alle bolle d’aria, la topografia della nostra paura, i confini sott’acqua, che non esistono. Ricorderemo di non dimenticare, di non cambiare, di non invecchiare mai. Come Ludovica.
Immagine generata con AI generativa di Adobe Photoshop
“dipinto ad olio che ritrae una manifestazione con agenti di polizia avvolti da fumogeni”