
L'uomo che cammina
Angela dice che dovrei camminare. Dice: “dovresti camminare di più. Ti fa bene al cuore, ti fa bene alla testa. Stai sempre seduto, ricorda che sei tu a decidere chi sei”.
Io seduto sulla mia poltrona sto bene, penso, e starei ancora meglio se solo non ci fosse Angela che attraversa il salotto e punta quei suoi occhietti grigi su di me sentenziando frasi new age mentre me ne sto comodo a leggere. Un tempo le piacevo mentre leggevo i libri, oggi lo tollera. Lo sottolinea addirittura, butta lì questo concetto così pieno di perbenismo che vende per saggezza.
“Ho imparato la tolleranza. Quand’ero ragazza mi s’infiammava il petto per ogni cosa e mi mettevo a discutere, a discutere. Dicevo questo è bianco quello è nero, oggi no, oggi sono in pace con me stessa e conservo la tolleranza” si è messa a dire una sera a cena mentre Carlo e Rori ammonticchiavano gli spaghetti con la bottarga sul piatto, io mi sono alzato e me ne sono andato.
Da allora cammino dodici chilometri al giorno. Parto da via dei platani 8, che è dove abitiamo, e non ho mai una meta. Mi fermo quando l’orologio segnala che sono arrivato a 12 chilometri. Mia figlia mi ha regalato questo orologio elettronico che osserva la mia decadenza e mi offre premi in musichette quando dimostro di non volerla accettare, di non cedere, di scegliere l’immortalità.
È orribile quest’orologio con il quadrante rettangolare e i numeri giganteschi, ma mi sono affezionato, durante le camminate è un buon compagno.
All’inizio non sapevo a cosa pensare in questi tragitti interminabili e mi divertivo a immaginare una serie di scene in cui uccidevo mia moglie. Mi figuravo situazioni sempre diverse, ma quando erano troppo efferate mi sentivo in colpa. Preferivo quelle in cui si sporgeva per annaffiare i fiori in balcone e io di colpo la spingevo giù. A vederla precipitare, con il corpo scomposto e i capelli da pazza mi veniva da ridere, ma allo schianto non ci arrivavo, la vista del sangue e delle ossa rotte m’impressionavano, guastando tutto il divertimento.
Adesso sono un camminatore esperto, i pensieri s’incanalano con naturalezza nei passi e l’osservazione si appuntisce fino a offrirmi certe rivelazioni. La città è sorprendente nonostante abbia perso ogni grazia, alcuni giorni il cielo è luminoso come quello delle vecchie commedie e trasforma il brutto in qualcosa di salvabile.
Osservo le persone, di alcune finisco per appassionarmi. Ho l’impressione che siano quelle più instabili, quelle che si ostinano a sbagliare strada per provare a trovarsi, che non travestono la monotonia di consolazione e non la spacciano per una scelta, la fuggono, se la danno a gambe e falliscono, falliscono sempre, nonostante il cielo promettente.
Ogni tanto torno nello stesso posto. Succede quando finisco a parlare con qualcuno e per qualche ragione vogliamo continuare a parlare, in realtà ascolto soltanto e neanche mi passa per la mente di dispensare consigli. Ho scoperto, in questa nuova vita da camminatore, che ci sono momenti in cui un estraneo diventa l’unico interlocutore possibile.
Allora ascolto, e poi se è ora di salutare, saluto, e se c’è da tornare un’altra volta, torno.
Quando rientro a casa la sera Angela ha già finito di fare yoga online con il suo gruppo di amiche e si mette a preparare la cena con l’aria di avere ancora tanto tempo davanti.
Non mi chiede più cosa mi va di mangiare, si limita a offrirmi la metà di quello che ha deciso di mangiare lei. Se propongo di ordinare una pizza fa una smorfia di disgusto. Se porto a casa una fetta di manzo mi chiede di cucinarla quando lei avrà lasciato la cucina.
Progetta le vacanze divise in due parti, una con i nipoti e una noi da soli in paesi impronunciabili da cui si dovrebbe vedere l’eclissi di sole, l’aurora boreale o cose così. Io annuisco mentre guardo di nascosto le quote sui cavalli al cellulare.
Ogni tanto alzo lo sguardo e la osservo di nascosto mentre rompe un crostino in tre parti e ne poggia un pezzetto alla volta dentro il piatto, poi raccoglie con il cucchiaio la zuppa che ha versato nelle ciotole in ceramica. Ha acquisito una lentezza nuova nel mangiare, come se tutto andasse misurato, come se il desiderio si fosse annacquato nel tempo, dimenticato fuori in veranda dentro numerosi inverni.
Finita la cena sparecchio la tavola e vado a buttare l’immondizia mentre Angela ripone i piatti nella lavastoviglie ascoltando audiolibri (dice che è più comodo), comunque sia questa operazione, ogni sera, la fa con delle grosse cuffie da rapper che le schiacciano i capelli ricci sulla testa e sulle orecchie e mi viene un moto di dispiacere a pensare che possa ascoltare la storia di Anna Karenina conciata in quel modo. Ma forse è solo una saga di fantascienza, magari è un manuale di auto aiuto, penso.
Scendo due piani a piedi e attraverso il cortile fino ai contenitori della differenziata: organico e plastica e vetro. Metto ogni cosa al suo posto per il futuro. Ogni tanto durante il tragitto telefono a mia figlia e le racconto delle mie camminate, comincio la telefonata dicendo:
“Ciao, sto andando a buttare la differenziata” perché so che le fa piacere, ha trent’anni. Lo dico per affetto nei confronti di quella creatura così misteriosa che è mia figlia. “Sto andando a buttare la differenziata” equivale a dirle ti voglio bene. Spero che lo capisca ma non ne sono sicuro. Mia figlia mi tratta con un’affettuosa aria di sufficienza, finalmente.
«Bravo papà, e che avete mangiato?»
«Le cose per uccelli che cucina tua madre»
«Ti fa mangiare bene! Le cose per uccelli che sarebbero? Miglio? Avena?»
«Ma non so, stasera era una cosa brodosa senza sale dove in mezzo c’erano legumi e verdure e semi neri che galleggiavano disperati»
«Ma cucina tu se ti devi tanto lamentare no?»
«Ma chi si lamenta. Sto facendo una descrizione precisa»
«Vabbè»
«Oggi sono arrivato in campagna»
«In campagna?»
«Sì. Anziché andare verso il centro sono andato verso fuori»
«E che c’era?»
«Un posto interessante. Mentre camminavo sul bordo di una strada senza marciapiede e mi ero lasciato alle spalle gli ultimi discount, a un certo punto l’asfalto è finito. Da un momento all’altro la strada era sterrata e rimpiccioliva. Pensa che mi sono guardato alle spalle per essere sicuro che la città fosse ancora dietro di me, che non ero stato catapultato in qualche mondo assurdo come la bambina del mago di Oz. Te lo ricordi il mago di Oz?»
«Certo papà, e quindi? Che hai fatto?»
«Ho continuato a camminare, mancavano ancora due chilometri alla fine»
«Ma devi per forza arrivare a dodici? Ma che ridicola regola è?»
«Ognuno sceglie le sue»
«Si può scegliere anche di infrangerle»
«Non sempre. Insomma, a un certo punto mi trovo davanti un enorme edificio. Lì, in mezzo al niente, con i murales colorati, certe installazioni di ferro nel cortile. Come una specie di residence per artisti di strada. Dalle finestre si potevano vedere panni stesi sugli stendini e altri segni di vita»
«Ma che strano. E sei entrato?»
«No. Ma ho pensato che mi sarebbe piaciuto vivere lì»
«Da giovane?»
«No, adesso».
Mia figlia ha fatto una risata che lasciava intercettare preoccupazione. Ma io sono rimasto zitto e allora lei ha detto:
«E chi ti preparerebbe la cena per uccelli poi?»
Oggi è una giornata scura di primavera. Angela mi ha chiesto a che ora torno stasera – se non mi fermo torno per le sette, sette e mezza – ho detto. E lei ha fatto un cenno con la mano come un saluto o un “va bene”, non si capiva, anche il suo gesticolare è diventato privo di tenerezza e di ironia.
La porta di casa mi si è appena chiusa alle spalle. Volto lo sguardo verso la finestra del pianerottolo per qualche secondo, vedo le chiazze marroni che sbiadiscono nel grigio compatto, oggi il cielo sembra fango. Non mi piace portare l’ombrello, m’impaccia, e allora ho tirato fuori dal fondo di un cassetto basso un cappello inglese dal tessuto impermeabile e prima di uscire l’ho indossato davanti allo specchio per capire che effetto avrei fatto alla gente per strada, sempre che mi vedessero. Ho l’aria del turista nordeuropeo con queste scarpe comprate apposta per camminare e il cappello impermeabile ma in compenso non ho più un filo di pancia e così l’ho piegato e infilato in tasca tenendomi addosso quel senso di gratificazione dell’uomo in forma.
Scendo i tre piani e prima di aprire il portone mi accorgo che nella cassetta della posta c’è una busta. Preso da una curiosità infantile, come se potessi trovare qualcosa di diverso dal solito, un bell’imprevisto a questa noia decido di prenderla anche se normalmente me ne infischio della posta e ci pensa Angela a portare su le buste.
Penso che, dopo averla letta, la richiuderò e la rimetterò nella cassetta della posta, che di risalire le scale non ci penso nemmeno.
È indirizzata ad Angela e non c’è il nome del mittente.
Cara Amica, ho ricevuto la tua lettera.
Devo dirtelo in questo modo diretto e insolente perché tu capisca che non posso più tenere questo peso.
Ho incontrato tua figlia, ieri, aveva quell’aria fresca di chi ride alla vita mentre mi aiutava a raccogliere la frutta che mi è caduta per terra tanta è stata l’emozione appena l’ho vista venirmi incontro.
Questo momento che per lei è stato insignificante a me non ha fatto dormire la notte.
Devi affrontarli e dare loro la possibilità di amarti, o lo farò io. Anche il nostro insegnante lo dice sempre: lo Yoga ti restituisce il tempo. Allora non sprecare quello che resta.
A cinque chilometri e settecentometri ho visto un uomo con una valigia mezza aperta camminare sulla corsia del tram, contromano, al filo dei binari. Mi sono chiesto se non volesse essere messo sotto a camminare in quel modo, in questa giornata cupa, dove l’umore di tutti, anche il mio, è senz’altro in quella zona pericolosa dei pensieri fragili. Sarà che siamo nati qui, viziati dalla luce. Basta un giorno grigio e non teniamo più il punto delle cose, incespichiamo nelle angosce e ci disorientiamo.
L’uomo avrà cinquant’anni, alto e magro con molti capelli più neri che bianchi e tagliati male. Procede con passi svelti e un’aria da sconfitto. Come se avesse perso qualcosa di sé e non sapesse più dove trovarla.
Nel momento in cui questo pensiero ha preso corpo mi sono accorto che ha iniziato a piovere dolcemente. Alzo gli occhi e vedo le gocce d’acqua scendere, e poi vedo i balconi dei palazzi con qualche pianta, gerani e dipladenie con i fiori rossi, nel balcone del primo piano c’è una lavatrice in funzione e un armadio di plastica. Vedo una ragazza spingere un passeggino con due gemelle. E le auto in fila. Vedo le scritte sui muri fatte con le bombolette, e i manifesti elettorali.
È come se la città intorno a me avesse preso consistenza e adesso mi sembra tutto incredibilmente reale.
Tiro fuori dalla tasca il cappello impermeabile e mando un messaggio a mia figlia, dall’orologio. Le scrivo: stasera vieni a casa da noi, ceniamo tutti insieme.
Immagine generata con AI generativa di Adobe Photoshop
“dipinto ad olio che ritrae un uomo con una valigia mezza aperta che cammina sulla corsia del tram”