La figlia del capo

La prima volta che ho incontrato la figlia del capo è stato durante i mondiali del 2006. La Bosnia non s’era qualificata e io mi ero detto che a quel punto tanto valeva tifare Italia. Ci eravamo trasferiti da poco, magari ci portava fortuna.

Era una ragazzina, all’epoca. La vedevo seguire il padre qua e là: lui le mostrava i furgoni e gli autotreni, e poi le rimesse, i magazzini. Lei faceva sempre sì con la testa e ancora oggi non saprei dire se mostrasse un interesse genuino o fosse solo molto brava a fingere. Più tardi, ce ne stavamo tutti davanti allo schermo della sala riunioni a esultare per il rigore contro la Francia. C’era anche il capo, seduto in mezzo a noi come un vecchio amico. Lei invece era rimasta di fuori col telefono in mano.

Il giorno dopo, mentre stavo fumando prima di partire per Poznan, si è avvicinata e mi ha chiesto una sigaretta. Io mi sono guardato intorno, ho detto Non so se posso. Lei ha insistito dicendo che tanto il padre lo sapeva che fumava. Così ce ne stavamo lì, io e questo stecchino che aveva l’età della mia Ljiljana. A un certo punto ha tirato fuori il cellulare e ha iniziato a mandare messaggi con una foga tale che pareva volesse sfondare il tastierino. A chi scrivi sempre? ho chiesto. Mi è uscito fuori così, senza pensarci. Lei mi ha piantato in faccia due occhi da demonio e ha detto A mio fratello, è andato via lo scorso anno. Le ho chiesto perché. Ha litigato con papà, ha risposto, senza aggiungere altro. Tuo padre è un brav’uomo, ho detto, ci dà da mangiare.

Lei ha sospirato, ha detto che lo sapeva bene che era un brav’uomo, però forse era un brav’uomo di un’altra epoca e un figlio così non lo riusciva ad accettare. Ho annuito per darle ragione, poi ho pensato che forse non lo avrei accettato neanche io un figlio dell’altra sponda. Mi manca tanto, ha aggiunto. Le ho detto che però suo padre ci ha sempre parlato bene del fratello. Lei ha scosso la testa. Forse di Filippo, quello sposato. L’altro è come se fosse morto.

L’ho rivista dieci anni dopo. Fresca di laurea, si trasferiva qui al nord insieme al ragazzo, un marcantonio dal muso appuntito. Avrebbe preso il posto di Irene dell’amministrazione. C’era un sacco di gente che si scambiava abbracci e si spartiva pasticcini e pezzi di torta. Su uno striscione c’era scritto Irene ci mancherai. A me Irene non è mai piaciuta. Ci ha trattato fino all’ultimo come numeri, voci di costo in mezzo ad altre voci di costo, proprio a noi che trascorrevamo più tempo con le chiappe sui loro camion che a casa con le famiglie.

Pure il capo era salito per organizzare la festa di pensionamento. Ormai aveva i capelli grigi ma aveva mantenuto lo stesso sguardo severo e il solito baffo perfetto. Anche stavolta le ha fatto fare il giro dei locali – lei annuiva, sembrava calcolare i costi di ogni veicolo, di ogni macchinario – prima di portarla nel reparto contabilità. L’ho vista stringere la mano al direttore e sedere alla sua futura scrivania. Il capo la teneva per le spalle, negli occhi ho colto l’orgoglio che doveva provare per lei.

 

Ricordo che una volta – ero appena tornato da Marsiglia, mi pare – l’ho trovata a fumare appoggiata alla motrice di Claudio. Mi sono avvicinato e gliene ho chiesta una. Mi fissava, come a recuperare un’informazione mancante. Sono Mirsad, ho detto. Ha fatto sì con la testa. Non sono sicuro mi abbia riconosciuto, però mi ha passato la sigaretta e l’ha accesa. Tremava nell’aria gelida mentre scorreva le notifiche. Poi ha scosso la testa. Volevo iniziare un discorso ma non sapevo come: non era più soltanto la figlia del capo, adesso era quella che teneva i conti.

È stata lei a parlare per prima. Ha detto qualcosa tipo Ma come vi passa il tempo qui? L’ho guardata senza capire e lei mi ha lanciato quella sua occhiataccia. Il tempo, ha ripetuto. Che fate qui a Bolzano? Le gare con gli slittini? Con i camion, ho risposto. Prima però ci stordiamo di grappa.

Sarà stato per l’imbarazzo di una battuta penosa, però la sua espressione indurita ha lasciato spazio a un bel sorriso. Sei un grande, Mirsad, ha detto, con la sigaretta che si consumava tra le dita. E io che ero convinta che voi autisti foste tutti degli ubriaconi irascibili. Irascibile io? ho risposto. Ma se non meno qualcuno da almeno due giorni. Lei ha tirato fuori una risata, fresca come la neve sui monti qui intorno.

Poi ho visto comparire quella pertica del suo ragazzo – era stato assunto come junior project manager, qualsiasi cosa fosse – che ci ha individuati e l’ha chiamata con la mano, come si fa con i cani. Lei ha fatto una smorfia e si è messa sull’attenti. Quando il duce chiama, ha detto, Federica risponde. Mi ha salutato con l’occhiolino.

Io sono rimasto lì a fumare, pensando che era una buona cosa aver fatto ridere la figlia del capo.

 

Poi il capo è morto. È successo a Natale, tre anni fa. Da allora sono cambiate parecchie cose.

Io ero a Cluj-Napoca ma Ivan e Jędrzej hanno detto che la cerimonia è stata bella. Molto sentita. La figlia del capo non ha parlato. A sentire loro, pare che a un certo punto si sia alzata e se ne sia andata. È una ragazza forte – l’ha dimostrato in questi anni – ma c’è un limite a tutto e forse quello era il suo.

Poi c’è stato il Covid. Mentre ogni cosa si fermava, noialtri guidavamo i nostri camion. Anche lei è rimasta al suo posto, prima lavorando da Roma e poi tornando qui appena possibile. In quei mesi, le luci della contabilità le trovavi accese pure di notte.

 

Oggi a pranzo si è avvicinata e ha detto Passi per l’Adriatica, vero? Ti scrocco un passaggio per la sede di Pescara.

Quando ci avviamo ha la faccia nera. Le prime due ore le passa al portatile a inserire dati dentro un programma di quelli che usano in amministrazione. Vedo i nomi di alcuni di noi là dentro e prego che non sia quello che penso. Magari con il carburante alle stelle è la volta che chiudono baracca e ci mandano tutti a casa.

Non ho l’età per ricominciare da capo da qualche altra parte, a farmi di nuovo il culo con turni massacranti e tutto. E di certo non posso permettermi di tornare ai tempi in cui rientravo a casa a tarda notte, cercando di non fare casino per non svegliare mia figlia che all’epoca era una bambina, e restavo mezz’ora in bagno a osservarmi le mani che avevano fatto quello che avevano fatto.

Dopo Rimini chiude il pc e mi fa Senti, metti della musica. Scorro le stazioni, passa del rock, canzoni italiane, Radio Maria. Mi chiede se ho altro. Le indico il portaoggetti. Tira fuori la custodia dei cd. Dubioza kolektiv, legge. Che roba è?

Un gruppo del mio paese.

Allora daje.

Ma cantano in bosniaco.

E vabbè, mi traduci.

Così, nel miglior italiano che ho, inizio a parlare di questo album che ascolto da dieci anni e finisco raccontandole di come ho lasciato Sarajevo perché la guerra ci aveva fatti a pezzi. In una piazzola di sosta sul litorale di Pescara le indico un punto a est. Le dico che, anche se da qui non si vede, lì da qualche parte c’è l’unico sbocco sul mare che abbiamo, una striscetta di terra che spezza in due la Croazia. E poco più su, vedi, c’è Međugorje.

Sei cristiano? mi chiede.

Ortodosso. Tu?

Lo spirito religioso non è cosa di famiglia.

Quindi non credi in Dio?

Diciamo che me la sono sempre cavata da sola. Nemmeno papà è stato granché presente.

E la tua mamma?

Mia madre è morta che avevo otto anni.

Mi dispiace.

Un giorno ha preso delle pillole e via.

Mi dispiace. Davvero.

Con tre figli, poi.

È una brutta cosa, dico. Un gesto brutto verso la famiglia, verso Dio.

Lei annuisce. Si accende una sigaretta, me ne porge un’altra. Fissa per qualche secondo tutti quei container giganti su cui si riflettono le luci del porto. Però oggi un po’ la capisco, dice. Certe volte pure a me viene voglia di scomparire. Di mollare tutto e andarmene.

Andare dove?

Eh, Mirsad, bella domanda. So solo che finché mio padre era vivo mi sembrava logico lavorare con lui. Sai che dolore gli davo se pure io mi facevo i cazzi miei?

E i tuoi fratelli?

Loro hanno preso altre strade. Però, ecco, potevo restarmene a Roma, invece di seguire quello stronzo del mio ragazzo fino a Bolzano e farmi mollare appena papà è morto.

Se vuoi, dico, mando qualcuno a dargli una sistemata. Lei tossisce una nuvola di fumo. Ma dove vai tu, si vede che sei una brava persona. Sorrido e glielo lascio credere. Non le racconto dei risparmi di Ljiljana buttati al cesso per pararmi il culo.

Una cosa però l’ho capita, dice. Mai partire per qualcuno. Mai e poi mai. È proprio un errore da non fare.

Sai, a volte mi ricordi mia figlia.

Ah sì?

Ha perso il lavoro col Covid. Si è disperata, poi ha fatto i bagagli e insieme a un’amica ha rimesso a nuovo una fattoria vicino Otranto.

Una fattoria o una masseria?

Che differenza c’è?

Lei ci pensa su. Mah, dice, secondo me è solo il nome che i pugliesi usano per darsi un tono.

Allora è una masseria.

Fa una risatina delle sue. Questo sì che è coraggio, dice poi. Ed è felice?

Sembra di sì. Ma voi figli siete creature strane. Non sai mai che vi passa per la testa.

Pure voi padri non scherzate mica, risponde guardando il mare nero. Ti manca?

Un po’.

La figlia del capo getta il mozzicone a terra e lo schiaccia per bene con lo stivale. Non è che mi daresti uno strappo alla sede di Lecce? Mio fratello – non quello sposato, l’altro – vive da quelle parti. E magari passiamo anche a salutare Ljiljana, che ne dici?

Immagine generata con AI generativa di Adobe Photoshop

“dipinto ad olio che ritrae un uomo e una donna a bordo di un camion”