Tinder, o il beneficio del dubbio

Le piastrelle del bagno erano bianche e blu, ricoperte da ghirigori che all’inizio mi sembravano cigni. Dieci intorno al gabinetto quelle che riuscivo a contare stando seduta sulla tazza. In tutta la stanza, immaginavo, una trentina. Dal bagno di una studentessa fuorisede non si poteva pretendere molto di più, e io non lo pretendevo. Le mutande rosa pallido arrotolate intorno alle caviglie mi imploravano di essere tirate su. Troppo tempo, formicolava la gamba destra. Due aloni rossi sulle cosce per il peso dei gomiti quando li ho sollevati confermavano: troppo tempo. Ho appoggiato il cellulare lasciando Abel in attesa, dentro lo schermo, congelato nel suo sorriso d’avorio. Il baffo ispido da hipster mi ricordava la coda dell’unica mangusta che avevo visto nella mia vita, allo zoo.

Gli incorniciavano il profilo un cuore verde, una X rossa e una stella blu. Guardava il soffitto con insistenza, dovevo sceglierlo. Un attimo, Abel, nella vita ci vuole pazienza, non te l'hanno insegnato? Ho ripreso il cellulare, scorso altre foto. A me, per tua fortuna, hanno insegnato invece a dare il beneficio del dubbio.

Nella terza foto eri, forse, in Sud Africa, impegnato in una qualche opera di volontariato, perché compariva insieme a te un bambino nero visibilmente malnutrito, mentre tu indossavi una polo Ralph Lauren. Pessimo gusto e niente beneficio del dubbio per te, Abel. Ho scorso a sinistra, il tuo viso e quello del bambino sono scivolati irrimediabilmente verso la X rossa. Ti ho condannato all’oblio, e ho tirato lo sciacquone.

 

Agnese non smetteva di ripetermi che dovevo avere pazienza. Leccavo un cono gelato con fragola e panna e piangevo, mentre lei mi elencava con entusiasmo i consigli su come usare al meglio Tinder, mentre si installava a rilento sul mio telefono. 

«Leggi sempre la bio, a volte sono bruttini ma sorprendono. Sono uscita con un sacco di gente simpatica non limitandomi alle foto».

Silvia mi aveva lasciata da tre giorni e mezzo. Quattro, allo scoccare della mezzanotte. Eravamo sedute su una panchina in ferro battuto e il profilo Tinder di Agnese era per me un sepolcro di fantasie spalancato ora, per la prima volta, lì sulle sue ginocchia.

«La prima volta esci sempre in posti pubblici: un caffè o un aperitivo, meglio sul presto. Così, se vuoi scappare, puoi inventarti una scusa, e se invece ti va bene, puoi sempre prolungare».

Leccavo in tondo il gelato in un gesto più vicino alla compulsione che al piacere. Le lacrime cadevano solcando la panna, al punto che la fragola aveva preso le note salmastre dell’acqua di mare. Il pollice di Agnese scorreva le foto a una velocità impressionante, spostandosi a destra o a sinistra. Su qualcuno si soffermava: il beneficio del dubbio. Poi riprendeva. Se faceva un match, il telefono vibrava e lo schermo esplodeva in un carnevale di cuori verdi concentrici. Quando l’app fu installata, arrivò il momento di creare il mio profilo. E c’erano altre regole.

«Una foto in cui sei bona, guarda, ne ho una qui che ti ho fatto in Grecia l’estate scorsa. È un po’ vecchia, ma si capisce che sei tu. Poi una divertente, una dove si vede il tuo corpo e come ti vesti. Un meme o un’immagine che faccia capire la tua personalità, scegli. Ah, e metti una canzone su Spotify che sia originale, non una red flag». 

Mi affidavo ad Agnese perché mi conosceva bene, ma soprattutto perché usciva con un sacco di persone che trovavo cool, e con alcune di queste finiva a letto. Sesso bellissimo, o bruttissimo, o stranissimo: era esattamente quello di cui avevo bisogno. Di donne, le avevo detto, non ne volevo più sapere per un bel po’. In tutte avrei cercato Silvia, metti che poi ne incontravo una che usava il suo stesso profumo. Insostenibile.

Una barba o dei baffi invece, nel mezzo centimetro di distanza prima del bacio, avrebbero potuto farmi realizzare con la giusta brutalità che con Silvia era finita. Ma proprio finita finita. Erano parole sue. E così, Tinder.

Il mio primo appuntamento fu con un ragazzo fiorentino che mi conquistò dicendomi che avevo gli stessi mocassini di Michael Jackson. Quando mi chiese di uscire gli dissi subito di sì e ci organizzammo per un caffè in piazza. 

Duccio non aveva barba né baffi, ma un viso angoloso e sopracciglia dritte e scure come un tratto di penna. A tradire la sua apparente austerità fu il cappellino. Mi diede l’impressione di nascondere una calvizie precoce che doveva averlo trovato del tutto impreparato nel pieno dei suoi vent’anni.  Questo abbassò, almeno in parte, il mio livello d’ansia. Probabilmente avrei avuto a che fare con una persona sensibile, pensai, prima che Duccio cominciasse con la storia infinita del suo Erasmus a Berlino, spiegandomi nei dettagli come si produceva musica (non lo avevo chiesto), e prima che la sua tazza di caffè freddo diventasse un pozzo senza fondo. Iniziai a contare i secondi in cui parlava lui e quelli in cui parlavo io. Dopo cinque minuti, l’esperimento verteva decisamente a suo favore: duecentonovantasei lui, quattro io, che avevo accennato candidamente, subito interrotta: «Anche io sono stata a Berlino…». Quando cominciò a fare buio mi propose una cena a casa sua. Declinai con gentilezza. 

Sulla strada del ritorno la riproduzione casuale di Spotify mi inflisse l’ennesima condanna: la canzone della bambina portoghese che Silvia arpeggiava alla chitarra. Non ebbi la forza di mandarla avanti e mi crogiolai in rimpianti e malinconie fino a notte fonda. I frammenti della relazione erano chiodi che mi si conficcavano dietro le palpebre ogni volta che cercavo di abbassarle per dormire, il lato del letto di Silvia un coltello pronto ad affondare nel petto. La mattina seguente lo specchio mi restituii un volto pietoso a cui risposi fissando una serie di appuntamenti. Lo scrolling compulsivo su Tinder aveva fatto del mio corpo un macchinario infernale, rivelando una coordinazione occhio-mano che mai avrei pensato mi appartenesse. Avevo istituito una gerarchia mentale per sbilanciarmi verso un like: foto, bio e canzone. Il mio cervello faceva una rapida media delle informazioni e mandava l’impulso al dito: cuore o X.

Quando i date si installarono nella mia routine seguendo sistematicamente le lezioni in università, cominciai a giocare. Mi finsi chi non ero, a volte per divertimento, altre per noia, e altre ancora per compiacere. aspettavo la domanda fatidica e sbronza davanti al portone: «Mi inviti a salire?» solo per il gusto di sottrarmi e lasciare su guance sinistre il segno appiccicoso del rossetto color pesca. Allora la mia soglia del pericolo si abbassò drasticamente. Esaurii le persone nel raggio di chilometri vicino alla mia posizione. Feci match con un dj di Milano, uno che, sapevo per sentito dire, frequentava un sacco di modelle. Ero felice, e me ne vergognavo. Mi presentai a una serata dove suonava senza prenotare nessun Airbnb per la notte. Nel locale, un altro ragazzo mi passò una bottiglietta da cui finsi di bere e mi cinse i fianchi. I denti bianchi del dj brillavano tra le luci stroboscopiche, mentre le mani del milanese mi affondavano nella carne. Tutti e tre ci guardavamo. Alle sei e mezza eravamo nel letto del dj senza vestiti. Fu violento, a tratti, e il mio cervello era rimasto distante dal mio corpo, attaccato a quel poco che mi rimaneva di Silvia, qualche vinile e una felpa Adidas logora del fratello. Avrei dovuto scriverle per restituirglieli. Chissà come stava suo fratello, appena trasferito a Lione senza saper spiccicare una parola in francese. Ma nonostante tutto il messaggio ad Agnese lo mandai ugualmente, non appena riaprii gli occhi: «Amo non hai idea di cosa è successo stanotte». 

Da Milano tornai con i tacchi in mano e il mascara sciolto fino al collo. Uscii di soppiatto dalla stanza, lasciando i due ragazzi nudi nel letto, e per un attimo mi divertì l’idea che si sarebbero svegliati e avrebbero dovuto interagire senza la mia mediazione. Quando porsi il biglietto convalidato al controllore ne fu stupito. Sapevo di sembrare una troia sbandata. Ero, forse, una troia sbandata. Arrivai a casa per l’ora di pranzo, evitai le mie coinquiline e mi buttai nel letto. 

Ero in hangover totale, e mi sentii sporca. Cominciai a pensare che mi ero mossa male quando stavo sopra o anche sotto e a chiedermi se i ragazzi milanesi mi avrebbero scritto o meno, almeno uno dei due. Mi grattai le cosce, non è che mi ero presa qualche malattia. Non avevo usato protezioni e non conoscevo nemmeno i loro nomi: il dj e il ragazzo di Milano. Ridicola. Ero ridicola. Milano mi fece provare il senso di colpa di essere quello che siamo: persone che escono con altre persone che escono con altre persone che escono con altre persone che escono con altre persone. I fantasmi nascono dalla macerazione dei ricordi? Chiedeva qualcuno, ma non mi ricordavo chi. Avevo passato le settimane a scartare i ragazzi come caramelle, illudendomi di essere diversa perché io li lasciavo sopravvivere, infestare. Parlavo di loro, facevo i loro nomi, e allora i ricordi maceravano e loro vivevano. Il cappellino di Duccio e non poter sapere cosa nascondeva viveva, come viveva la delusione che mi aveva consegnato con gli occhi quando gli avevo detto che non avremmo cenato insieme. I boccoli chiari di Andrea vivevano quando mi sfioravano la pancia e profumavano di agrumi, viveva quella sigaretta accesa mentre mi diceva, con intelligenza ma senza pretese: «Non sei una che parla tanto, tu». La mamma malata di Francesco, aspirante fisico quantistico, viveva insieme al suo senso di colpa per averla lasciata al mordente abbandono della provincia.

Mi chiedevo cos'ero io, per loro. Mi chiedevo se anche Silvia stesse andando a letto con persone che non conosceva e se non si sentisse sola. Se magari le mancavo, perché lei mi mancava. Ero almeno un fantasma o non ero niente, nemmeno un ricordo macerato? Sognavo case con una stanza in più e mi ripetevo: per appartenere a qualcuno ci vuole tempo.

Talmente spesso che avevo cominciato a canticchiarlo. Per Per apparteneeeere a qualcuno ci vuole tem-po, tem-po. Questi erano gli incomprensibili moti della mia ossessione, mentre scrollavo, e scrollavo, e scrollavo. Trovai il coraggio di riprendere il telefono in mano, avevo da leggere dodici messaggi di Agnese e uno di mia madre. Ecco quel che mi rimaneva dopo la rottura. Trovai le forze per rispondere a mia madre: sto bfne, a caasa. Appresi da una storia su Instagram che Duccio era tornato a Berlino con un cappellino diverso. Mi coccolai con il pensiero che fosse partito per l’insostenibilità del mio rifiuto, la vergogna di incontrarmi per strada. Ma poi mi travolse il desiderio di sapere come stava, unito alla paura che non mi avrebbe più cercata. Ero molto triste quando gli scrissi: cine è andstto il viaggp?

Mi svegliai alle otto della mattina seguente, dopo diciotto ore di sonno e una maschera di trucco incrostata sulla faccia. Trangugiai un’intera bottiglia d’acqua e mi chiusi in bagno. Mi sedetti sulla tazza e contai le piastrelle per distrarmi, poi aprii Tinder. Come sempre tante X e pochi cuori. Duccio non mi aveva mica risposto. La gamba destra formicolava, da quanto ero seduta lì? Abel rimaneva in attesa, baffo da hipster-mangusta e polo Ralph Lauren. Non gli diedi il beneficio del dubbio, lo condannai all’oblio e tirai lo sciacquone. Davanti allo specchio, cercai di capire da che parte cominciare per pulirmi la faccia. Sembravo la musa di un pittore dadaista. Tinder era ancora aperto. Sullo schermo, un altro ragazzo congelato in una posa maldestra ma tenera mi guardava. Gli concessi un ultimo cuore, prima di affondare il viso nell’acqua micellare.

Immagine generata con AI generativa di Adobe Photoshop

“dipinto ad olio che ritrae un tubetto schiacciato e un cotton fiock buttato in un lavandino”