Tutto quello che facciamo per amore
«Troppo me quelli con i capelli lunghi e le sopracciglia decolorate». L’aveva detto sganasciandosi dalle risate, bellissima, con quelle sue fossette da infilarci le dita e in fondo agli occhi una tristezza bruciante. Forse l’aveva detto solo per scherzo o per far ridere, fatto sta che venerdì sera Caterina aveva urlato quella frase tra i tavolini di un bar e Guido, tutto attento solo a lei, l’aveva presa sul serio.
Sui capelli aveva poco da fare: portava da sempre lo stesso taglio corto e ci sarebbe voluto troppo tempo per farli crescere almeno fino alle spalle. Per cui, il giorno dopo, in una domenica di pioggia torinese, dopo aver meditato tra il letto e la scrivania della sua camera singola, Guido si è deciso.
Ha sfruttato il raro momento in cui la casa pare vuota tra le 10:00 e mezzogiorno, perché entrambe le sue coinquiline iniziano la settimana sancendo le proprie priorità: una si sveglia presto e va a lezione, mentre l’altra recupera l’hangover del weekend. Di soppiatto, è uscito dalla sua stanza, è andato nel bagno condiviso, ha schivato le creme depilatorie, i bigodini e le maschere per capelli delle ragazze e gli ha rubato il tubetto per la decolorazione. Non si sarebbero accorte del piccolo furto – cioè sicuramente se ne sarebbero accorte, almeno dopo averlo guardato in faccia -, ma in ogni caso sarebbero state solo contente di vederlo abbandonare il look da ferroviere di provincia, fatto di maglioncini e piumini blu inguardabili, come dicevano loro. Poi magari una cosa avrebbe tirato l’altra e presto sarebbe diventato uno di quelli che ballano la techno, portano il marsupio allacciato tra la spalla e il sotto-ascella e hanno sempre in testa un paio di occhiali da ciclista.
Quella mattina Guido si è limitato a leggere le istruzioni del preparato e, dopo aver preso coraggio, ha intinto un cotton fioc nella miscela e si è disegnato due folte ali di gabbiano sopra gli occhi castani. Già immaginava la scena: entrava in aula con il suo nuovo sguardo da bad boy e guardava Caterina dritto negli occhi, come per sbranarla di baci, e lei rimaneva fulminata.
Ma quel sogno si è infranto non appena quella roba ha iniziato a bruciare. Da vero uomo si è sforzato di resistere per almeno dieci minuti, anche se quel dolore non sarebbe stato giustificabile neanche per diventare l’uomo più bello del mondo. Nutriva il sospetto di stare commettendo un terribile errore. E infatti, una volta rimossa la crema, la sua fronte si era estesa fino alle orbite. Se l’era bruciate. Guido non aveva più le sopracciglia.
Con un urlo da vichingo, ha riempito le mura del bagno di fantasmagoriche imprecazioni contro tutti gli dei, sacri e profani. Sembrava il mostro di qualche cartone coreano. Sarebbero ricresciute? E quanto tempo ci avrebbero messo? E la beffa si burlava del danno: era lunedì.
Prima il lunedì era solo un giorno come gli altri, ma da qualche mese aveva un sapore diverso. Più precisamente di colluttorio e Frisk, per non avere l’alito pesante a lezione. Infatti, da bravo studente al secondo anno di Storia, Guido frequentava un corso di filologia romanza con quelli che lui chiamava i maledetti letterini – una popolazione sovversiva e piantagrane di studenti in Lettere che d’abitudine gremiva le aule magne dell’università. Il soprannome era nato solo per invidia. Avrebbe voluto avere la stessa disinvoltura con cui loro si vestivano, parlavano e pensavano, ma, quando cercava di imitarli, finiva per sentirsi un idiota. Però, una cosa davvero non la sopportava, ovvero il loro modo di prendere appunti battendo forsennatamente sulla tastiera del computer lettera per lettera ogni parola del professore, mentre lui arrancava, fermo a carta e penna. Seguiva le lezioni nascosto nelle retrovie, un po’ per non essere visto, un po’ per farsi i cazzi suoi.
È stato in uno di quei lunedì che in aula 3 alle 16:20 Guido ha conosciuto Caterina, una maledetta letterina in ritardo che si è seduta vicino a lui in ultima fila per “non disturbare la lezione”. In realtà l’aveva disturbata eccome e, prima di averla vista, Guido aveva serrato la mandibola, digrignando i denti. Sul suo zaino erano appesi una quindicina di portachiavi e molte linguette di lattina – quelle a cui si chiede il nome di chi ci ama, come se una Coca Cola potesse farci da Posta del cuore – che sbattevano gli uni contro gli altri come fanno i dadi nei pugni di chi cerca la mano vincente. Giochi di prestigio, scommesse.
Una volta seduta, si è girata e, interrompendo Guido, gli ha chiesto se avessero già parlato dei libri di testo. Alzato lo sguardo, Guido è rimasto a bocca aperta. Non era abituato all’idea che una ragazza gli parlasse, tanto meno se carina. Era così timido da non riuscire a prenotare un tavolo in pizzeria quando c’era la partita. Lei era bruna, con la frangetta corta, i vestiti di colori diversi, poco abbinati, gli occhi da gatta molto truccati. Puzzava di fumo e non aveva un astuccio, solo una penna a segnalibro di un quaderno. Guido era rimasto in silenzio, abbastanza a lungo da sentirsi un cretino, e poi aveva rimediato:
«No, ma hanno mandato l’elenco sul gruppo Whatsapp»
«Ah fantastico. Posso darti il mio numero così mi aggiungi alla chat?»
Guido non aveva mai fatto così poca fatica a ottenere il numero di una ragazza. Era come se il destino gli avesse messo una mano sulla spalla dicendogli: “Sei forte campione.”
«Certo. Comunque piacere, Guido»
«Piacere, Caterina».
Da allora i due si sedevano vicini tra i banchi stretti, ma, prima di lezioni, Guido si lavava i denti due volte. Con l’ansia di vederla, digeriva male e nessuna ragazza può innamorarsi di uno con l’alito pesante.
Avevano fatto amicizia e lei gli aveva fatto conoscere i suoi amici. A Guido non li tollerava, li trovava stravaganti. Portavano larghe t-shirt piene di stampe, stivali con le borchie e si chiamavano con nomignoli assurdi. Si presentavano dicendo tipo: “Bella, io sono Pepe” o “ Ciao bro, piacere, Mus”. Nonostante tutto, Guido aveva preso a uscire con loro, solo per uscire con lei, che, però, sembrava la migliore amica di tutti e tutti reclamavano le sue attenzioni. Come se avesse dei poteri da tessitrice e fosse capace di rattoppare e tramare destini, far incrociare persone che grazie a lei erano diventate una famiglia. Comunque, a differenza di Guido, gli altri l’avevano preso in simpatia. Soprattutto Feffa e Gigiu, che a suon di pettegolezzi gli avevano raccontato i fatti di tutto il gruppo. Uno si era mollato cinque anni prima e ancora era in lutto, un’altra si era fidanzata con due ragazzi, ma non riteneva che dovessero essere informati l’uno dell’esistenza dell’altro. A un certo punto, però, quelle due avevano portato a galla un fatto: l’ex di Caterina, Damiano, era da poco tornato dall’Erasmus. I due erano stati compagni di liceo e si erano messi insieme poco dopo la maturità. Lei si era innamorata delle continue sorprese di lui. Ogni tanto sbucava con un girasole in mano o con un pasticcino infilzato da una candelina accesa e le diceva:
«Cate esprimi un desiderio»
«Ma non è il mio compleanno»
«E quindi?»
Ma il soggetto era piuttosto ambiguo: appariva e si dissolveva, un giorno l’amava e quello dopo non le rispondeva più. Però Caterina lo difendeva, anche quando spariva per giorni e poi riemergeva come se non fosse successo nulla. Lei si chiedeva se le prestasse le sue felpe solo per abituarla agli abbracci di un fantasma. Non capiva il perché di quelle sparizioni e si tormentava. La tradiva? Le mentiva? La ignorava? O peggio: stava male e glielo nascondeva. Aveva paura che lei lo giudicasse? Ogni tanto le uscivano frasi taglienti come “Chi gioca con gli altri è solo un fallito che non sa quello che vuole”. Forse aveva dosato male le parole anche con lui.
Comunque Damiano se n’era andato, più per fare la bella vita che per altro, e l’aveva informata solo a valigie fatte. Le aveva lasciato un vocale poco prima della partenza:
Ciao Cate, senti ti dovrei dire una cosa… magari domani pomeriggio ci vediamo così ne parliamo a voce, oggi però ho seratina tra boyz. Comunque sai, per quella roba dell’Erasmus di cui parlava Pepe, no? Ecco, alla fine c’ho pensato e… se ce l’ha fatta Pepe… mi sono iscritto. Non te l’ho detto perché mica ci speravo, ma mi hanno preso. Parto per Valencia tra una settimana. Figo, no?
Dopo era sparito. Caterina aveva provato a scrivergli, a chiamarlo. Alla fine gli aveva mandato un ultimo messaggio:
Se mi hai voluto almeno un po’ bene, non farti sentire
mai più.
Da allora si sentiva di cartapesta. Come se indossasse una corazza di biglietti d’auguri, messaggi della buonanotte, il primo ti amo scritto per terra ai Murazzi. Tutto fatto a brandelli: carta straccia e colla che si erano induriti sulla pelle. Restava così: con lui ancora addosso che la divorava.
Guido si sentiva la soluzione a tutti i suoi mali e da qualche settimana studiava cosa l’avrebbe fatta innamorare di lui. Ed ecco: “Troppo me quelli con i capelli lunghi e le sopracciglia decolorate”. Ma che idiozia aver dato importanza alle parole di un’ubriaca.
Quel lunedì, senza più sopracciglia, urlando nel bagno, Guido ha pensato di non andare a lezione. Ma il giorno dopo, e quello dopo ancora? Come avrebbe fatto? E poi no: con o senza sopracciglia era arrivato il momento. A Caterina non serviva più chiedere alle lattine di Coca Cola di oracolare sulla sua vita. Lui sarebbe rimasto lì, a tenerle il posto, a regalarle un astuccio e un bouquet di Bic e a vederla ridere, ridere di gusto, trovando riparo sotto le sue guance, appuntando gli occhi nelle sue fossette.
Aveva perso tempo. Sul portone ha visto una spessa cappa grigia nel cielo. Pioverà o non pioverà? Questo è il dilemma degli inverni torinesi. Quindi è risalito fino al quarto piano per prendere l’ombrello e ha aspettato il tram successivo.
Afflitto, con il cappuccio in testa e fissando la punta delle scarpe, Guido ha aspettato: XI febbraio. Giardini Reali. Rossini. Mole. PALAZZO NUOVO. Aula 3.
Quando è entrato in aula, Caterina era al solito posto, con lo zaino appoggiato sulla sedia, una sedia che teneva per lui. Era agitata. Si mordeva le unghie di una mano, mentre guardava il cellulare nell’altra. Tremava. Guido si è avvicinato con cautela per non spaventarla, ma Caterina guardava solo lo schermo. Era Damiano, ché alcuni fantasmi si divertono a tormentarci. Le aveva scritto pochi minuti prima:
CIAO CATEEE!!! Come stai? Ti va se ci becchiamo?
Guido si è tolto il cappuccio e, per rimediare al suo imbarazzo, ha preso una mentina, l’ha messa sulla punta della lingua e quando si è sciolta ha detto:
«Tutto bene, Cate?»
In quel momento lei ha serrato i denti e ha alzato lo sguardo.
«Sì, sì. Tutto bene. Ma tu, che hai fatto alle sopracciglia?»
Guido non sapeva se gli avrebbe fatto più onore dire una bella cazzata o una brutta verità e pregustava solo l’amarezza di un’imminente figura di merda.
«Niente… un piccolo incidente. Decolorazione. Tutta colpa delle mie coinquiline che m’hanno convinto»
«Forte… Certo poteva andare meglio… però dai» ma era distratta, non aveva fatto una piega.
Durante la lezione Caterina continuava a guardare il cellulare. Dopo una mezz’ora in cui accendeva e spegneva lo schermo controllando le notifiche, si è arresa.
«Scusa Guido, io devo uscire a fumare una sigaretta» e un attimo dopo è scomparsa.
Guido l’ha seguita senza pensarci, fregandosene degli sguardi torvi dell’aula. Ha rincorso Caterina, con lo zaino che gli saltava sulla schiena. L’ha raggiunta appena oltre il portone d’ingresso, sulle scalinate. Lei era appoggiata al corrimano con la sigaretta ancora spenta in bocca.
«Va tutto bene, Cate?»
Poi lei l’ha accesa, ha tirato la prima boccata e si è inchiodata a terra, sui gradini freddi e sporchi di mozziconi e coriandoli. Guido si è seduto vicino a lei.
«Niente. È solo che mi sento soffocare là dentro. Mi… mi manca l’aria»
E nella testa Guido: A me mancavi solo tu, ma ha detto:
«Soffocare?»
«Sì. Che qualcosa ti toglie il respiro»
Tu mi togli il respiro.
«Qualcosa cosa?»
«Tutto. Esami, doveri, dispiaceri… persone che ti trattano da schifo»
«Ah quindi parliamo di qualcuno…» e Guido ha capito che si trattava di Damiano. Si è sentito più basso. Avrebbe fatto di tutto pur di non essere un amico qualunque.
«Ti senti mai insignificante per gli altri?» «Sì, purtroppo direi proprio di sì» «E come fai a difenderti?» aveva detto piangendo.
Nel mentre il cemento si stava coprendo di piccoli pois scuri. La frangetta di Caterina si stava bagnando e Guido ha aperto l’ombrello sopra le loro teste per ripararle dalla pioggia.
«Non so Cate… io mi consolo pensando che ci sono ancora le persone-ombrello»
«E questo che cazzo vuol dire adesso?»
«Sono quelli che quando fa brutto escono comunque con l’ombrello, anche se non piove, perché non si sa mai… magari qualcuno può aver dimenticato il suo. Così riparano gli altri, quelli che in certi momenti non ci riescono» e a Caterina è scappata una risata. Con la mano si è asciugata le lacrime dalle guance e finalmente l’ha guardato in faccia.
«Sai Guido, stai bene senza sopracciglia. Mi sembri l’unico ragazzo ancora sincero, uno di cui fidarsi» e gli ha appoggiato la testa sulla spalla. Il destino, cupido, la dea delle botte di culo stava stendendo un tappeto rosso sotto i piedi di Guido e lui ne ha approfittato:
«Cate, posso chiederti una cosa?»
«Che cosa?»
«Ti va di uscire con me?»
«Finalmente. Era ora».
Poi sono rimasti entrambi lì, a prendere la pioggia, insieme sotto lo stesso ombrello. Ma Guido non ha mai detto a Caterina che si è decolorato le sopracciglia soltanto per far colpo.
Immagine generata con AI generativa di Adobe Photoshop
“dipinto ad olio che ritrae un tubetto schiacciato e un cotton fiock buttato in un lavandino”