Semi d'anguria
Caterina batte forte i denti quando ha freddo. Ciò che mi secca non è la mandibola rumorosa, il battere prepotente dell’arcata inferiore contro la superiore, ma i piagnucolii che ne conseguono. Lo sento che è annoiata, che non le va di seguirmi in questo folle piano e che avrebbe preferito dormire ancora qualche ora prima che la sveglia suonasse. Ogni tanto mi volto per assicurarmi di non averla persa, è lenta e ci dividono almeno quattro metri, non riesce a tenere il mio passo.
Quando solleva gli occhi – enormi dietro lenti spesse – mi fissa, mi implora di tornarcene a casa; è ciò che mi direbbe se avesse la forza di parlare e sprecare le energie che custodisce per tenersi al caldo. I suoi occhi potrebbero convincermi, così quando lo sguardo diventa insostenibile riporto l’attenzione sulla strada davanti a me cercando di orientarmi nonostante la nebbia. So che non dovremmo essere qui.
Se solo fossi riuscita a chiudere occhio, a ragionarci a mente lucida, forse mi sarei resa conto che è una pessima idea. In questo momento la rabbia è così forte che mi graffia la gola, me la stringe, fatico a respirare e lascio andare un colpo di tosse.
«Sei pure malata» fa Caterina. «Sei uscita al freddo da malata, così peggiorerai».
Non sono malata, ma non perdo tempo a dirglielo. Da bambina, quando qualcosa mi faceva arrabbiare, tossivo come in preda a una crisi broncopolmonare.
Per mia madre era una buona ragione per prendersi gioco di me, facendomi credere che fosse il disperato tentativo del mio corpo di cacciare fuori l’odio che mi era germogliato dentro – dava la colpa ai semi d’anguria che ingerivo di continuo.
Manal, se li mangi ti cresce la rabbia nella pancia. Proferiva quelle parole e io ricambiavo con espressione seria, socchiudevo le palpebre dei miei occhi neri come quegli stessi semi e allargando il più possibile la bocca mostravo la dentatura imperfetta dando grossi morsi al frutto. Cercavo di ingoiare senza masticare troppo, ma sentivo i molari triturare con sforzo i semi che non andavano diritti verso la gola, mentre mia madre lamentandosi mi dava della disgraziata.
Forse è vero che ero una disgraziata, forse un po’ lo sono anche ora. Dopo quelle offese cercavo complicità negli occhi di mio fratello, un cenno anche minimo che mi assicurasse che la sua attenzione era su di me, poi cacciavo fuori la lingua e lasciavo scivolare nel piatto i resti del frutto che non avevo ingerito con un verso di disgusto.
Hasan rideva forte, rideva con tutto il corpo e stirava le braccia sopra il tavolo come le ali di un gabbiano. Il suono della risata, invece, era il gracchiare delle cornacchie.
Nostro padre, per non inimicarsi la moglie, tratteneva un sorriso sotto i baffi grigi, ma il labbro tremolante lo tradiva. Poi arrivava l’arabo, mia madre mi rimproverava solo in arabo, e poi un sonoro schiaffo sul mio viso da bambina indisponente.
Ricominciavo a tossire, più forte e con gli occhi inumiditi. Eppure, non piangevo, non mi disperavo anche se sembravo sul punto di cedere. Questa mia particolarità mi ha creato tanto imbarazzo, ma con il tempo ho imparato a controllare la voragine che mi si apre all’altezza del petto tutte le volte che qualcosa non va secondo i piani.
Io sono venuta su come una bambina pestifera, mia madre ripeteva che fosse per colpa dei geni di mio padre, che nella sua famiglia nessuno somiglia a me, nessuno ha un carattere duro come la pietra come ce l’ho io.
Hasan era il figlio perfetto, il primogenito gentile e affidabile, tutti gli amici dei nostri genitori non facevano altro che complimentarsi per la sua educazione. A me dicevano che, se avessi sorriso un po’ di più, un giorno sarei diventata una bella donna, o che la ruga che mi si formava lungo la fronte ogni volta che mettevo su il broncio avrebbe finito che sfigurarmi.
Papà rispondeva a mia madre che si sbagliava, parlava di Abbas, il cugino minore di mamma, che quando scappò dai coloni attraverso le montagne per la Cisgiordania arrivò a casa degli zii senza denti, con la bocca impastata di sangue e la prima cosa che fece fu ridere a crepapelle. Tutti pensarono che la paura per la vita lo avesse fatto uscire di testa, che fosse afflitto dal lungo viaggio in solitaria, ma poche ore dopo fece un bagno caldo e tornò quello di sempre. Manal, diceva mio padre, è uno scorpione in mezzo al deserto: non c’è niente che può farle spavento, proprio come Abbas.
Allora mia madre scuoteva la testa e a bassa voce pregava – ancora in arabo – che io comprendessi il valore del cibo, della famiglia, della casa. Io assimilavo tutto, non mi lasciavo sfuggire una parola, mostravo disinteresse solo perché non riuscivo a portare con me il senso di colpa di aver vissuto tutta la vita su un letto a castello alto quanto la tenda in cui mia madre e i suoi fratelli si nascondevano durante i bombardamenti. Origliavo i racconti tra i miei genitori, quando lei riportava i discorsi ai pestaggi, ai sequestri, ai colpi d’arma da fuoco e al suo corpo che non è mai più stato lo stesso dopo quella volta. Quella volta che mia madre scoprì quanto fosse piccolo un granello di sabbia perfino se visto da una distanza ravvicinata.
La volta dei granelli, la volta in cui capì che, per quanto dolore potesse provare il suo corpo, non era altro che un corpo piccolo, come piccoli erano quei brandelli di terra che esaminava con minuzia per restare cosciente; i capelli spazzavano via quella terra, il corpo oscillava senza il suo controllo, nel tanto che mutava lei stessa in sabbia – una duna in una terra senza deserto, un enorme insieme di granelli.
Dall’altra parte della strada la luna prendeva la forma di una falce tagliente mentre mia madre pregava di non dimenticare mai quel dolore che un giorno le avrebbe insegnato l’importanza della resistenza. Non desiderò morire nemmeno quella sera.
Per lei non c’è nulla di più sacro del corpo, qualsiasi corpo, di qualsiasi individuo, vivo o morto. Il suo passato l’ho ricostruito negli anni, attraverso la rabbia che le fiammeggiava negli occhi quando in televisione traspariva, senza troppi equivoci, l’allineamento del nostro governo nei confronti dell’impronunciabile terra.
Mamma guardava papà e gli parlava in arabo quando noi ancora non eravamo in grado di comprenderlo. Papà è italiano, l’arabo è una delle cinque lingue che parla.
Quando gli parlava lui ascoltava diligentemente, veniva catturato da ogni parola, si spogliava delle vesti da professore universitario e indossava quelle da bravo studente. Prendeva appunti nella sua testa, raccoglieva ogni informazione.
Una volta le ha detto di non agitarsi e che andrà tutto bene, che nessuno le avrebbe mai più fatto del male. Lei si era lasciata sfuggire la risposta in italiano, e per qualche ragione che non riuscivo a spiegarmi suonava più dura e vera del solito.
«Non dire a questo corpo che andrà tutto bene, non ci crede più». So che mia madre non ha mai potuto dire addio a mio nonno, che in mezzo a quel corpo indistinto di figure nere sporche di terra, macerie e sangue, non era possibile distinguere l’uomo che le aveva dato la vita. Si era limitata a pregare per tutti quei pezzi d’uomo, sperando che le parole colme d’amore arrivassero anche al suo baba.
Come mio padre riuscisse a convivere con la consapevolezza che non avrebbe mai potuto dire o fare nulla per farla stare meglio è un mistero che ancora non mi spiego.
Si è tornati a parlare di un conflitto che, in pochi mesi, ha preso un nome più articolato che alcuni pronunciano e altri no, che per alcuni è un’esagerazione e altri un eufemismo, che è acqua che dà sollievo, poi maremoto che spacca in due il paese.
Le immagini distorte che passano al notiziario mia madre le osserva come se tra i volti ingrigiti di polvere di quei bambini potesse riconoscere un nipote o un cugino, come se non fossero passati decenni dal suo addio, come se ci fosse ancora una famiglia tra quei ricordi annebbiati dal tempo e la morte.
In vista di quello che non sarebbe diventato altro che un misto di sconforto e rabbia, l’unica arma che avevamo noi, da questa parte del mondo in cui ci era ancora permesso svegliarci senza il suono dei missili, era la mobilitazione. Non potevamo stare fermi a guardare, ma non potevamo nemmeno partire per salvarli.
Io e Hasan ci eravamo convinti che bastasse far sentire le nostre voci, scendere in piazza e partecipare alle manifestazioni per onorare il sangue del nostro popolo.
Per alcuni il tempo era come sospeso, per noi non lo era mai stato. Eravamo una folla che levava alti lamenti, una cacofonia di voci, adolescenti e giovani adulti che sgomitavano contro i caschi antisommossa. Le bandiere volavano sulle nostre teste come se fossimo allo stadio, i nostri canti reclamavano libertà dal fiume al mare.
La verità non è mai stata complessa, la verità è sempre stata una soltanto, e ciò la rende semplice e senza ramificazioni. Conoscere la verità, però, non era bastato, come non era bastato l’incisivo che mio fratello aveva perso durante i pestaggi.
La sera stessa il sindaco del nostro paese era stato invitato a un talk televisivo su una delle più importanti reti nazionali, condotto da un uomo il cui viso ricordava l’indistinguibile motivo della schiena di una coccinella. Hasan aveva alzato il volume e la mamma, senza fiatare, era sgattaiolata in cucina a preparare una tazza di tè.
«Il problema di questi giovani è che credono a tutto quello che leggono online» aveva asserito il nostro primo cittadino rispondendo a una domanda che, per tempo, avevamo perso; ma ci era stato subito chiaro che si riferisse alle proteste.
«Non riescono a studiarne le complessità, pensano di fare la cosa giusta ma sono solo mossi dalla foga del momento. Seguono slogan e falsi ideali, non hanno gli strumenti per studiare le stratificazioni della realtà, vivono protetti dalla tecnologia». È stato un fiume in piena di luoghi comuni sulla mia generazione, sull’educazione mancata da parte dei nostri genitori che ci riportava a riversare tutto il nostro malcontento per le strade, a invadere le piazza, a sfidare il potere.
L’intervistatore ha messo su un mezzo sorriso sollevando solo un angolo della bocca e con tono di sfida ha chiesto: «Quindi non c’è nessun allarme anarchia?»
Il sindaco rideva, rideva di gusto. «Sono giovani. La loro è solo isteria di massa».
Così venivamo considerati ogni volta che volevamo far sentire le nostre voci, ogni volta che protestavamo mossi dal dissenso nessuno prendeva in considerazione le nostre storie personali, nessuno ci chiedeva di partecipare a quelle conversazioni di cui eravamo l’oggetto da studiare senza poter dire la nostra. Eravamo immaturi, troppo impreparati e impelagati in una cultura del digitale che ci rendeva insicuri.
Sentivo che dentro di me, all’altezza della pancia, si era generata una spaccatura capace di risucchiare mio fratello, mio padre, mia madre e tutta la sala da pranzo.
Hasan teneva la testa bassa, mortificato perché le parole del sindaco lo stavano riprendendo con la stessa durezza che usava nostro padre quando era bambino.
Rimproveravano la nostra generazione di essere distratta, ci veniva chiesto di studiare e di prepararci ad essere il futuro di questo paese. Nessuno, né l’intervistatore, né il sindaco, né gli adulti intervistati, si era reso conto che ci stavano togliendo l’unica cosa che ci avrebbe preparati al domani: il presente.
Ed è stata quella parola, futuro, a farmi perdere definitivamente staffe. La gola vibrava ma trattenevo dentro di me il mostro, deglutivo a forza, non rispondevo alle loro provocazioni e con il cuore che mi martellava in petto entravo in camera mia.
Potevo sentirla piangere tutta la notte, scoprire a mie spese che non c’era cosa più tremenda del pianto della donna che ti ha messo al mondo, un guaito senza eguali.
Solo un muro divideva i pianti di quella donna dalla mia tosse nevrotica, con i suoi pugni che colpivano la parete mentre urlava di fare silenzio, di lasciarla riposare in pace perché era stanca, di fermare tutto quel male che provavo a tirare fuori.
Manal, non stai ascoltando il tuo corpo e lui si sta ribellando contro di te.
Ha ragione, mia madre ha sempre avuto ragione. Ed è questo il motivo per cui questa sera ho deciso di ascoltare il mio corpo, di uscire in piena notte con Caterina.
So che le mie azioni non cambieranno molto, ma potranno dire qualcosa di chiaro che non potrà essere tralasciato: noi vi ascoltiamo, siamo coscienti a noi stessi così come lo siamo di tutto ciò che ci circonda, non ci metterete a tacere. Aspetteremo quando arriverà il nostro turno, e se così non sarà, ce lo prenderemo.
Ci fermiamo di fronte all’abitazione del sindaco, una villetta spoglia e anonima, come tante altre che si trovano sulle riviste di immobili in vendita. So che è qui che abita il primo cittadino, ho fatto tutte le mie dovute ricerche, mi sono assicurata di tutto, anche che non fosse in casa questo fine settimana. Le finestre sono chiuse, le luci spente e l’aria è umida e fredda, intanto che il suono dei respiri di Caterina si fanno sempre più intensi – il suo mugugnare è tutto ciò che fa rumore in questa quiete.
Io mi tengo stretta nel mio piumino grigio, alzo il cappuccio in modo che mi nasconda parte del viso. Con un gesto fulmineo lancio la tracolla dall’altra parte del muro che divide l’abitazione dalla strada, lasciandola atterrare sul prato curato.
Quando mi arrampico Caterina non emette nessun suono, rimane silenziosa, smette di respirare, mi guarda attentamente dal basso augurandosi che io non mi faccia troppo male. Sono sempre stata molto agile, non ho bisogno nemmeno di raccomandazioni e lei lo sa bene. Rimane lì, osserva tutto dalle fessure del cancello e io non mi aspetto che mi raggiunga fino a questo punto, non la spingerei a tanto.
Dalla tracolla tiro fuori le bombolette spray, le scuoto un po’ e, con mano ferma, inizio a disegnare sulla fiancata della costosa auto tedesca del sindaco. So che le telecamere di sicurezza mi stanno riprendendo, so che mi metterò nei guai.
Caterina è irrequieta, il suo camminare avanti e indietro non è rassicurante, ma il bene che ci lega è forte e lei non mi lascerebbe da sola, non andrebbe via senza di me.
Una volta finita la mia piccola opera d’arte, raccolgo tutto nella tracolla e così come sono entrata, violando il domicilio del sindaco, torno sui miei passi e con un solo balzo atterro accanto a Caterina. Lei si sporge in avanti, inclina un po’ la testa per ammirare il mio lavoro completato.
È il ritratto di una bambina che mangia una fetta d’anguria. Sul viso i segni della guerra, le ferite e tutti i peccati di cui si sta sporcando l’occidente. Sulla testa, la frase: “non è isteria, è fame”.
Nessuno darà indietro l’infanzia a quei bambini e quelle bambine, ma un uomo di poco spessore lo ferisci togliendogli il denaro, non la dignità, quella l’hanno già persa. È solo un monito che, se non ci lasceranno niente, gli toglieremo tutto.
«Perché credono che non ci importi di nulla?» chiede Caterina sulla strada di ritorno verso casa. Apro la bocca per rispondere, ma vengo colta da un attacco di tosse. Lei sospira e mi passa una mano lungo la schiena, accarezzandoci con molta dolcezza.
«Che brutta tosse che hai, Manal. Ti sta consumando ogni giorno sempre di più».
Immagine generata con AI generativa di Adobe Photoshop
“dipinto ad olio che rirae un piatto con i resti di un pezzo di anguria”