La stagione delle cavallette
Nel giugno della mia tesi magistrale le cavallette bolognesi invasero la zona universitaria. Si accoppiavano sulle colonne sbeccate di Via Zamboni, nel parco del Guasto, sul retro dell’edificio 38, e dopo l’amplesso finivano spiaccicate dalle Birkenstock degli studenti. Di notte, la fioca luce dei lampioni ne illuminava le gambe allampanate e rosse come le pareti esterne delle case. E, mentre loro portavano faticosamente avanti la loro specie, io scrivevo.
Che il rumore che faceva da sottofondo ai miei studi era il loro verso di accoppiamento, me l’aveva detto Marta. «È il riscaldamento globale» aveva aggiunto. La faccenda del caldo era una cosa molto seria, per lei: qualsiasi comportamento animale fuori dal comune era imputabile agli sbalzi climatici.
E quindi, ora la mia tristezza e confusione la imputavo al clima. Anche io – mi dicevo – avrei dovuto accoppiarmi a giugno e dormire fino ad aprile. Ma il buco nell’ozono mi aveva fottuto.
*
Da poco più di un anno Marta era la mia coinquilina. Aveva sostituito Andrea quando se n’era andato a Torino per la magistrale: me l’aveva raccomandata lui perché si conoscevano.
Con Marta c’eravamo trovati subito. In spregio di qualsiasi regola abitativa di Bologna, lei voleva un coinquilino maschio e io mi ritrovai a convivere con una femmina. Con le ragazze – mi disse in seguito – non riusciva a parlare.
In casa dava il minor fastidio possibile: quando guardavamo i film insieme sul divano, stringeva le gambe a sé e teneva il mento sulle ginocchia. Per non urtare gli altri camminava spedita. Sull’autobus non era capace di sedersi.
Quando i suoi passetti leggeri in casa erano diminuiti, inizialmente non ci avevo dato peso: che fosse viva, lo deducevo dai noccioli di frutta buttati nella pattumiera, dai drum nel posacenere. E poi, neanche io ero presente. Mi muovevo turbato tra le biblioteche della mia facoltà, salvo appostarmi un giorno alla settimana di fronte allo studio del mio relatore. La scelta degli articoli da consultare per la tesi funzionava come la pesca a strascico: testo somigliante al mio, vedi bibliografia, vedi citazione, copia e incolla. Stavo trascrivendo qualcosa che mille altre persone avevano scritto e pensato prima di me.
Intanto che io mi spostavo come in un flipper, la vita di Marta si svolgeva secondo il suo Triangolo delle Bermuda personale – aula studio, casa nostra e casa del suo fidanzato. Ma ultimamente era Simone a venire da noi: il suo spazzolino stantio era l’unico rimasto nel bicchiere del Làbas sul lavandino.
Un giorno di metà giugno rientrai alle sette con l’umore sotto i piedi. Tra il secondo e il terzo capitolo c’era un buco di senso che neanche Elisa Neri, che nella sua tesi aveva trattato i miei stessi argomenti con conclusioni diverse, era riuscita a colmare. In casa, il buio: le tapparelle abbassate, insieme alle porte chiuse, mi comunicarono un senso di angoscia. Entrai in corridoio con le scarpe, pronto a spalancare tutto, prima di accorgermi che una striscia viscida e iridescente macchiava il pavimento. Una cavalletta? Sotto le mie scarpe non c’era nulla. La traiettoria portava fino alla camera di Marta.
Bussai. Da sotto alla sua porta filtrava un barlume di luce.
«Perché hai chiuso tutto?»
Avrei potuto toccarlo, quel silenzio.
«So che sei sveglia».
Dall’interno, mi rispose il suono frusciante dei suoi piedi scalzi. Una leggera pressione sulla porta mi rivelò che anche lei era a un centimetro da me. La sua schiena è appoggiata dall’altro lato.
«Ho calpestato una cavalletta, stai attento a non sporcare dappertutto» mormorò Marta, con sforzo. La sua voce era più bassa del solito. «Sulle scale… Il proprietario è venuto ad avvisarci che saltano pure al quarto piano. Ne ho cacciate due, oggi. Non aprire le finestre».
Dunque, la semioscurità andava mantenuta.
«Stai bene?»
«Ho mal di gola»
«Vuoi venire al cinema all’aperto?» Silenzio. «È alle 21.45» aggiunsi.
Marta fece due passetti, tornava verso il suo letto. «Dopo viene Simone».
*
La casa dalle finestre che ridono è un film pessimo da guardare da ubriachi. Ma la verità è che non sarei riuscito a concentrarmi neanche da sobrio: mi tornava in mente, per flash, ciò che mi aveva accolto al mio ritorno a casa. Le persiane serrate, la voce incrinata di Marta, la consistenza viscida del pavimento – come camminare sulla gelatina.
Intanto, i miei amici aprivano il vino, il limoncello. «Domani devo scrivere» avevo provato a difendermi, ma la mia serata era finita nell’unico modo possibile: una corsa in bicicletta verso casa, con lo stomaco che si contorceva.
Lavaggio intestinale, lo chiamava Marta. Un detox depurativo al cento per cento naturale grazie a cui le tossine avrebbero abbandonato il mio organismo. E la tossina principale era l’ansia di cosa avrei fatto dopo la laurea.
In mezzo ai fumi dell’alcol, però, qualcosa di strano l’avevo visto davvero: Simone, il fidanzato di Marta, era in quarta fila. Vicino a lui, i suoi amici di fisica. La luce proveniente dallo schermo li illuminava di sbieco. A un certo punto – mi era sembrato – i nostri sguardi si erano incrociati e lui mi aveva fatto cenno con la mano.
Quando entrai in casa, nel buio mi guidò la luce sotto la porta di Marta – come una lanterna. Era sveglia: stava parlando a telefono a bassa voce. Dopo l’inevitabile visita in bagno, mi rinchiusi nella mia camera.
Spalancai la mia finestra, per cambiare aria. Nel mio posacenere c’era un drum, me l’aveva lasciato lei. Era un modo carino di dirmi che potevamo ancora fumare insieme, a distanza. Avvicinai il filtro alle labbra, feci un tiro. Sul posacenere notai una striscia di bava iridescente. Il drum cadde a terra.
Tra il vetro e le persiane era segnata la traiettoria di un insetto. Con un brivido, mi ritrassi. Serrai la finestra. Intanto Marta continuava a parlare e, dato che condividevamo la parete, era facile ascoltarla.
«Saresti dovuto venire da me» diceva, «ma tu eviti sempre il confronto».
Dopo ogni frase, una pausa: stava mangiando qualcosa a morsi.
Mi sedetti sul letto, in ascolto, finché non decisi di chiudere la finestra. Le parole di Marta erano sempre più veloci, battenti. Come posso studiare gli animali se sono così confusi?
D’un tratto mi accorsi che, sopra al comodino, una cavalletta rossa mi fissava con i suoi occhi alieni, formati da migliaia di lenti. In un attimo aveva compreso ogni informazione ambientale su di me: non ero pericoloso. Che mi capisse così bene mi spaventò.
Ecco perché Marta mi aveva consigliato di chiudere tutto. Mulinai le braccia e l’animale volò contro il vetro della finestra.
«Marta?» bussai sulla parete. «Ne è entrata una».
Con le ali la cavalletta faceva il rumore del cous cous quando lo pesi. Ma ciò che mi colpì dritto allo stomaco fu il modo in cui si muoveva, come se i suoi salti fossero direzionati dalla mano invisibile di un burattinaio.
«Mi daresti una mano?»
Marta fece silenzio, dal corridoio notai che aveva spento la luce. E, da quando avevamo smesso di cenare insieme, per la prima volta mi sentii completamente solo. La sua porta serrata la isolava da me. Durò poco. Dopo qualche minuto, all’ennesimo salto concluso con violenza contro il vetro, la cavalletta stordita cadde giù.
*
Durante le settimane seguenti, in aula studio giocai ad acchiappa la talpa. Avevo bisogno di parlare con Simone ma lui sembrava scomparso. Così, ogni volta che la porta si apriva, il mio sguardo abbandonava la tesi e sbirciava i nuovi arrivati. Quando finalmente lo incrociai, Simone era di fretta e io avevo concluso il terzo capitolo della tesi. Le mie condizioni di sonno erano peggiorate alle sei ore a notte.
Alla mia sincera domanda – l’hai lasciata? – lui aggrottò le sopracciglia. «Lei ha lasciato me» mi corresse. Lo aveva fatto per telefono e da allora non si erano più visti. Dalla conversazione con lui uscì fuori che la mia coinquilina era tornata a Napoli da un mese.
Non riuscii a studiare oltre. Marta era andata via? Eppure vedevo i suoi capelli nella doccia, i piatti grondanti nell’acquaio. Sentivo il rumore della lima con cui si faceva le unghie. Corsi verso la fermata del bus. Un caldo spaventoso si era impadronito di Bologna: sulla strada del ritorno, mi fermai per qualche attimo a Portico de’ Servi. La piazzetta era inondata di luce e le cavallette erano scomparse.
Arrivai a casa che grondavo sudore. Di fronte alla camera di Marta, bussai. «Tu che vuoi fare, dopo?» mi aveva chiesto prima di murarsi viva. Dopo la laurea era il sintagma della condanna. Bussai di nuovo. Nulla, non mi rispondeva.
Mi spostai in cucina, per controllare se il suo scompartimento del frigo fosse stato usato di recente. Le rimanevano solo tre pesche morbide dall’odore forte e dolciastro. La loro polpa aveva lasciato sul vetro macchie di decomposizione. Qualche minuto dopo, bussai di nuovo. Era in casa, ne ero certo.
«Esci» feci, a un centimetro dalla porta.
Non entravo in quella camera dalla partenza di Andrea. Mentre Marta circolava tranquillamente nei miei ambienti, verso i suoi manteneva una riservatezza totale. Sul pavimento, l’ennesima traccia vischiosa. Dovevo intervenire. Aprii la porta con un senso irrevocabile di dannazione. «Scusami» sussurrai.
Non c’era nessuno. I vestiti erano al loro posto, il libro di biologia marina aperto a pagina 197. Ma ciò che mi colpì più di tutto fu l’odore stantio e marcescente di torsoli e scarti di merendine lasciati nel cestino. Era davvero andata via. Sulla scrivania, residui di materiale vischioso coprivano i suoi appunti. Sentii il suono della sua lima e mi voltai, confuso, verso il letto.
Pigramente, una cavalletta friniva sul cuscino di Marta.
Eravamo in quella fase della vita in cui se qualcuno ci diceva di aspettare un figlio non sapevamo se congratularci o fare loro le condoglianze, e il matrimonio a me faceva lo stesso effetto: a guardarli insieme, Monica e Marco parevano due adulti bambini, che si sposavano solo perché i trenta erano dietro l’angolo, ma avrebbero continuato a comportarsi da ragazzini ancora per un bel po’ di tempo.
Immagine generata con AI generativa di Adobe Photoshop
“dipinto ad olio che ritrae una cavalletta morta spiaccicata in un corridoio di una casa”