Hyvästi
«Quelle sigarette non vanno bene per le tue dita.»
Un soffio di fumo. Poi un altro.
«Perché?»
«Sono meglio quelle sottili»
«Ma costano di più».
E si fuma di meno, avrebbe voluto aggiungere. In realtà non le piaceva fumare, ma le piaceva che gli altri la guardassero mentre fumava. Spense quello che rimaneva della sigaretta, poi guardò l’amico. Quello era il loro ultimo caffè. Il giorno dopo, lei sarebbe tornata a Torino, lui a Helsinki, e forse non si sarebbero rivisti più. Ci stavano pensando entrambi, ne era sicura, ma entrambi fecero finta di niente, continuando a leggere i loro libri, come se la cosa non li disturbasse affatto.
Il caffè era iniziato come un gioco, un martedì pomeriggio, quando lui le aveva spiegato che i finlandesi sono i più grandi bevitori di caffè al mondo, e lei, indignata, aveva risposto che il caffè finlandese era acqua sporca, e che l’avrebbe portato lei a bere un caffè come si deve. Dopotutto, Trieste è famosa per il caffè. Da lì, era diventata un’abitudine che per sei mesi, ogni martedì, aveva scandito i ritmi delle loro vite. Bevevano il caffè, lui dolce, lei amaro. Lei fumava e lui le criticava le sigarette, poi traducevano dal russo – lui in finlandese, lei in italiano – e poi dal francese – questa volta in inglese, insieme. Infine parlavano un po’ a bassa voce, per poi dirsi buonanotte e tornare ognuno a casa sua. A volte si vedevano in gruppo, e in quelle occasioni, i loro incontri solitari non venivano menzionati, perché era una cosa da non dire, anche se lo sapevano tutti, e a nessuno importava.
Ora, mentre faceva finta di leggere, lei pensò al martedì successivo, a quando avrebbero tradotto da soli, senza caffè, a duemila e settecento chilometri di distanza – o, come diceva lui, solo una manciata di paesi europei a separarli. Era un modo per attutire quella distanza strana, fatta non solo di spazio ma di lingue e di ideali, una distanza che, a dirla tutta, c’era sempre stata, anche lì a Trieste, seduti uno di fronte all’altra, a separarli con un muro d’aria chiamato cultura.
«Possiamo chiamarci» disse lui dal nulla, e lei non seppe se stesse parlando a sé stesso o meno, ma annuì lo stesso, anche se sapeva, in cuor suo, che non era la stessa cosa. Forse si sarebbero chiamati, certo, una volta a settimana, poi una al mese, poi una ogni sei, poi solo un messaggio, ogni tanto, per ricordare all’altro della propria esistenza. Avrebbero voluto mandarsi delle lettere, perché entrambi collezionavano pennini e inchiostri colorati, ma il sistema delle poste italiane le avrebbe sicuramente perse per strada, e poi con il cellulare si fa prima.
«È stato bello» ribadì poi lei, come a sancire la fine della loro amicizia. Lui non se la sentì di contraddirla. Lei sapeva che lui la trovava troppo drammatica. Le aveva detto, una volta, che era bello sapere di avere qualcuno, da qualche parte del mondo, che ti ha voluto bene, e che ovunque sarebbe andata, una parte di te sarebbe andata con lei. Lei, invece, lo trovava terrificante, e solo pensarci le dava la nausea. Sapere che qualcuno ti ama – sapere di aver amato qualcuno – e non averlo con te, solo perché si è nati in due paesi diversi. Degno di una tragedia.
Un tempo, si disse, le cose sarebbero andate diversamente: anzitutto sarebbe stato quasi impossibile per un finlandese e una torinese incontrarsi a Trieste, e se anche fosse successo, sarebbe stato per un tempo ben più lungo. Ora invece il lusso degli aeroplani aveva accorciato le distanze del mondo e spostarsi non era più un diritto, ma un obbligo, un’esperienza necessaria alla crescita della persona, per arricchirla il più possibile prima di tornare a casa, e poco importava se dopo un viaggio simile non si volesse più tornare indietro, poco importava che non ci fosse più un luogo da chiamare casa.
«Dove andrai?» gli chiese «per il dottorato, dico»
«Forse Berlino. Tu?»
«Parigi».
Un tempo tutto questo non sarebbe successo, perché le distanze erano troppo grandi, e il tempo troppo poco, perché a vent’anni si era già grandi, mentre ora si viveva in un’eterna adolescenza senza sapere cosa scegliere per se stessi, che cosa pensare, in quale paese vivere, quale lingua parlare.
Spense la sigaretta. Non aveva più voglia di fumare.
«Se fossimo nati cent’anni fa non ci saremmo mai incontrati».
E nessuno dei due sarebbe stato male. E sarebbe stato meglio così. Ne era convinta.
«Sarebbe stato un peccato».
Lui lo disse sorridendo, lei fece una smorfia divertita. Che ottimista, pensò, un ottimismo nordico e forse un po’ ottuso che nondimeno aveva imparato ad apprezzare. Sì, forse sarebbe stato un peccato, e nel mondo ci sarebbe stata una cosa preziosa di meno. Ma se anche un’italiana e un finlandese si fossero incontrati a Trieste, cent’anni prima, il loro saluto sarebbe stato meno doloroso, perché quantomeno sarebbe stato definitivo. Il loro, invece, racchiudeva in sé la sfrontata illusione di un legame che non vuole finire. Si sarebbero chiamati qualche volta, e avrebbero assistito allo srotolarsi costante delle loro vite attraverso le foto pubblicate sui social, o in qualche messaggio privato in occasione degli auguri di compleanno, o di Pasqua, o di Natale. Così squallido, pensò lei, così amaro. Tanto valeva non parlarsi mai più.
«Non sei così importante» lo rassicurò, e da un lato era vero, perché in fondo non si conoscevano. Eppure faceva male l’idea che nel mondo ci fossero delle persone che l’amavano, e che lei non le potesse avere. Faceva ancora più male averle conosciute e poi vederle andare via di nuovo, ritornare al loro mondo, dove la loro vita sarebbe andata avanti, proprio come la sua, ma con la consapevolezza che forse, in un’altra vita, le cose sarebbero andate diversamente.
come vivi quando c’è un frammento del tuo cuore in ogni singola parte di mondo? «Ci incontreremo di nuovo in altre persone».
Una rassicurazione calda, priva di egoismo, piena di sensualità e rimpianto. Lei si illuse che potesse essere vero. Ma pensò anche che quella sostituzione infinita e ciclica di persone fosse come un girone infernale, un contrappasso, una pena da scontare in cambio della libera scelta.
«È strano» provò a dirgli «possiamo parlare con chiunque, ovunque vogliamo. Eppure ci sentiamo sempre più soli».
«Io non mi sento solo» rispose lui quasi irriverente. Lei sapeva che non lo diceva con cattiveria, che era solo il suo modo di fare, che i finlandesi dicono le cose come stanno. Si chiese come fosse possibile, poi pensò che forse lui, così abituato al buio e al freddo attorno a sé, si fosse abituato anche a quello che aveva dentro. Forse pensava fosse normale.
«Io invece sì» decise di rispondere lei, un po’ per vedere la reazione dell’amico, un po’ perché era vero.
«Dovresti farti più amici»
«Senti chi parla».
Pensò alla propria rubrica telefonica, a tutti quei numeri salvati appartenenti a persone incontrate per caso, per poco, in giro per il mondo, che aveva chiamato amici per pochi mesi, poche settimane, pochi giorni. Pensò alla ragazza romena dai capelli ricci con cui aveva visitato Bologna, pensò allo slovacco incontrato in un bar a Marsiglia, pensò al russo con cui aveva studiato in Inghilterra, e si rese conto che non parlava più con nessuno di loro.
«Per quanto tempo si rimane amici anche senza parlarsi?»
Lo chiese quasi sottovoce, e a questo lui non rispose, fissando la tazzina vuota. Aveva avvertito che quella domanda parlava anche di loro. Prima o poi, ripensando l’uno all’altra, si sarebbero descritti come conoscenti, come ricordi lontani – come la romena, il russo, lo slovacco. Mentre metteva via le sigarette, lei sfiorò con le mani il proprio cellulare nella tasca, e le venne voglia di bruciarlo, di sparire dal mondo, di non essere più raggiungibile per nessuno. Deglutì, dovrei disinstallare Instagram, pensò, perché fa troppo male vedere vite di cui non posso far parte.
«Non possiamo restare da soli» disse lui dopo una lunga pausa, e lei annuì. Non avrebbero smesso di viaggiare, di amare persone, di concedersi al mondo, lo sapevano entrambi. Anche se faceva male.
«Kukaan ei ole saari» disse lei, recitando quelle parole che lui le aveva insegnato tanti mesi prima. Nessuno è un’isola. Un detto finlandese, aveva spiegato, e quando lei gli aveva fatto notare che anche John Donne aveva detto la stessa cosa, lui aveva ribattuto, quasi offeso, che la poesia inglese del seicento non lo interessava. Ora invece lui sorrise, anzi, sorrisero entrambi, e si alzarono, perché ormai era buio, e si era alzato un vento forte che soffiava da nord. Camminarono in silenzio verso la piazza dove, come sempre, le loro strade si sarebbero separate per l’ultima volta. Intorno a loro, un fiume di persone arrancava per raggiungere i mercatini di natale, e sopra i loro nasi la foschia brillava attorno alle luminarie.
Arrivati in piazza, di fronte al mare buio, i due si guardarono un’ultima volta.
«Ci vediamo» disse lui in italiano, con l’accento forte di chi quella lingua non l’aveva mai voluta imparare davvero.
«Hyvästi» rispose lei, con quel saluto che lui le aveva spiegato tempo prima. Voleva dire addio, augurando del bene a chi resta e a chi parte, un saluto sacro che suonava come ti raccomando a Dio. Lui di Dio non parlò, e rise soltanto.
«La tua pronuncia è ancora pessima»
«Vai al diavolo»
«Anche tu».
Immagine generata con AI generativa di Adobe Photoshop
“dipinto ad olio che rirae due tazze di caffè e un posacenere con delle sigarette spente su un tavolino di un bar”