Essere divorati

Portandosi le mani al volto cominciò a piangere,
le spalle che le si scuotevano avanti e indietro.
“Non è giusto” disse. “No, non è giusto.”

Raymond Carver, Una cosa piccola ma buona, Cattedrale

Era tornata puntuale con l’arrivo delle piogge e dell’umidità. Intorno agli infissi, nei punti alti di congiuntura tra il soffitto e le pareti. Aveva iniziato a comparire verso la fine del primo autunno che aveva vissuto in quel sottotetto e, nonostante fosse stata ogni anno pulita e poi coperta da un abbondante strato di vernice bianca, la muffa era tornata nuovamente di stagione in stagione. Un fenomeno atteso, al quale Alessandro aveva fatto l’abitudine. Le minuscole macchie nere si erano presentate sempre partendo dal soffitto della camera da letto esposta a nord per poi camminare nelle altre minuscole stanze: in bagno, a segnare di scuro l’incavo dell’abbaino, e in sala, lungo tutto il contorno della portafinestra. Sarebbe stato di certo un problema da segnalare al proprietario di casa, ma alla fine aveva sempre desistito. Aveva atteso il periodo primaverile pulendo di tanto in tanto i punti più critici con uno spray che prometteva miracoli, dei guanti gialli e una spugnetta per piatti, per tamponare la situazione e cercare di non far saturare l’aria di spore. Alcuni anni ci era voluto meno lavoro, altri la muffa era esplosa in modo più prepotente. Sempre, in ogni caso, il piccolo appartamento era stato invaso pian piano con il passare dei mesi freddi di un odore simile a quello del lievito che sua madre gli chiedeva di sciogliere in acqua calda, da bambino, quando preparavano insieme la pizza. Solo che la vita lo aveva portato in modo brusco distante da quei momenti e da quella infanzia, quando sua madre se n’era andata il giorno del suo diciottesimo compleanno, un aneurisma cerebrale, ritrovata distesa a letto, sembrava dormire un sonno irraggiungibile, lontano dalla solitudine che dalla sua maggior età Alessandro aveva iniziato a provare. L’aria contaminata che si creava nei mesi in cui la muffa proliferava gli penetrava nei polmoni ed era pompata in tutte le cellule dalla grande circolazione fino a fargli girare la testa, tanto che la sera si addormentava coprendosi il volto con le coperte e inspirando forte il profumo di ammorbidente nella speranza di una fuga impossibile.

Quando la nebbia lasciava il posto ai primi raggi di sole e le giornate diventavano più tiepide, Alessandro passava un’ultima volta la spugna sui punti intaccati dal nero, si dava qualche giorno per lasciare che le pareti asciugassero e poi recuperava da sotto il lavandino della cucina la latta di vernice e i pennelli e cominciava la seconda fase del lavoro. Contornava con lo scotch di carta gli infissi e con abbondantemente bianco passava più volte sulle macchie scure fino a cancellarle. In piedi sul letto attento a non sgocciolare sulle lenzuola, in un equilibrio instabile sul bidet per arrivare all’abbaino, arrampicato sulla sedia della cucina per coprire anche l’angolo più in alto della porta finestra. Una maglietta che puntualmente sporcava, una mascherina per evitare di respirare vicino alle parti più colpite e la voglia che quella fosse l’ultima volta. Ma così non era stato, e marzo era di nuovo lì insieme alla muffa. Che a guardarle da vicino le sue macchie nere sembravano essere apparse senza logica, senza un ordine o un piano preciso se non quello di colonizzare tutto. Minuscole costellazioni di buio a intaccare i muri, con l’intento di conquistarli, di farli soffocare, di far soffocare tutto. I muri sarebbero stati divorati lentamente, sarebbe tutto stato reso fragile e instabile. Un esercito in moltiplicazione che schiude le sue fila con l’avanzata e presenta con il ripetersi degli assalti nuovi soldati: partiva con le truppe nere al centro e poi procedeva in altri punti sporcando la parete con il plotone rosa e poi creando una fanteria di pelucchi bianchi sottili quasi morbidi alla vista. Un proliferare lento ma inarrestabile. La pittura che aveva contrastato questo fenomeno era stata sostituita alla fine di ogni latta, trovandone ogni volta una più potente, ma ogni volta, comunque, la muffa era tornata. Tanto che Alessandro ci aveva fatto l’abitudine e la battaglia era diventata nel tempo routine.

Una manciata di giorni alla primavera, il sole che tramonta, lui sulla sedia e la testa quasi a toccare l’abbaino. “Idropittura lavabile potentissima con antimuffa e antiumidità soluzione definitiva”. Era uscito subito dopo colazione, sfruttando lo smartworking, con le cuffie nelle orecchie e diverse riunioni importantissime durante le quali il suo intervento non era mai richiesto. La nuova latta da quattro litri gliela aveva consigliata in mattinata al Brico un uomo sulla quarantina che era apparso molto convincente. “Questa è la più potente di tutte” e quando il bancomat era stato appoggiato al POS Alessandro aveva sperato fosse davvero così. Tornato a casa si era rimesso all’opera con la voce del suo capo in sottofondo che raccontava l’andamento del progetto che avrebbe fatto finalmente svoltare l’azienda.

Un rumore bianco che faceva compagnia alle pennellate. Con l’abbaino aperto e mettendosi sulle punte, Alessandro riesce a intravedere il cielo dietro l’antenna del palazzo e nel tramonto respira allargando i polmoni. Erano i lavori di cui si occupava suo padre quelli, ora affidati a lui per un’eredità che lo ha voluto indipendente troppo presto e senza poterlo realmente essere, con tutto il vuoto che sente e l’inadeguatezza del crescere.

Sospeso nel silenzio dell’ora di cena, con il pensiero ai noodles che metterà a cuocere nel forno a microonde, un miagolio proveniente da un punto imprecisato lo riporta alla realtà, suona come un lamento, una richiesta di aiuto. E Alessandro decide di rispondere.

 

Sceso in strada trascina con sé l’odore di muffa e di vernice che si mescola a quello della campagna al crepuscolo. Segue il miagolio senza aver ancora deciso cosa farà quando e se troverà il gatto. Potrebbe essere di qualcuno, potrebbe essere selvatico, potrebbe non individuarlo tra i campi. La via è silenziosa e la primavera si fa riconoscere dalla leggerezza che si appoggia sui luoghi che l’inverno aveva appesantito. E Alessandro avverte per un attimo la stessa leggerezza. A casa di suo padre gli animali non erano potuti entrare, retaggio del padre di suo padre, uomo d’altri tempi, di altre sensibilità, che teneva i suoi setter da caccia in un canile quasi certamente abusivo e costruito con lamiere subito fuori dal centro abitato. Ricorda da bambino l’unica volta in cui ci era stato. Aveva sentito un forte odore di urina e feci, poi lavato via con una canna dell’acqua dal cemento spoglio sul quale si erano riversati gli escrementi di Laika, Fulmine e degli altri randagi. Aveva chiesto di non tornarci più e per qualche motivo era stato ascoltato. Cammina ora da solo in ascolto, speranzoso di non perdere la traccia uditiva, lontano anche dal latrato dei cani del nonno e dai pensieri di suo padre che non sa nemmeno ora dove sia, dopo la morte di sua madre si è sgretolato tutto.

Il miagolio aumenta a ogni passo e quando supera l’ultima villetta a schiera lo vede: è una sagoma al centro della carreggiata, una montagnola che interrompe il liscio dell’asfalto. Da lontano potrebbe essere una scarpa, un vestito o una borsa. Alessandro capisce che non è nessuna di quelle cose. Avvicinandosi, la montagnola prende la forma di un gatto. Un gatto arancione, con striature rossicce e precise, le zampe bianche. È sdraiato di lato, adagiato sul selciato a occhi aperti, ha la bocca spalancata dalla quale fuoriesce un’unica piccola macchia di sangue. Il miagolio continua, ma il gatto rimane immobile e lo scollamento tra udito e vista lo confonde. Si guarda intorno, si accerta che non stia arrivando alcuna automobile e si accovaccia vicino al corpo. Continua a osservare il muso aperto del gatto che miagola senza muoversi. Si guarda le mani, si assicura che non ci sia odore di muffa o di vernice e le avvicina alla bocca aperta per vedere se c’è respiro. Attende qualche secondo, ma non succede nulla, il petto del gatto non si alza. Quando lo tocca, il gatto è ancora tiepido, quando lo prende con entrambe le mani e se lo porta davanti al volto i muscoli non oppongono resistenza e l’animale penzola morbido davanti a lui con due occhi verdi che ad ogni secondo si velano fino a diventare vitrei o così gli sembra. Il miagolio si interrompe.

Non ha idea se possa funzionare, non sa se si fa così, ma l’istinto gli dice che può essere utile. Comprime con delicatezza il torace tiepido dell’animale usando l’asfalto come piano rigido, ripete l’azione per un numero di volte che non sa contare nella speranza di essere al giusto ritmo, di fare la cosa giusta. Il silenzio accompagna l’azione, il pianto nasce e cresce spontaneo a ogni compressione. Il corpo perde calore e Alessandro sente montare la tristezza. Nessun’auto sta passando, nessuno lo aiuterà con il gatto. In mezzo alla strada, con il corpo senza vita dell’animale. In quella sera che si chiude verso il buio totale, un ragazzo piange un gatto che non è il suo e il ritorno delle sue paure.

Il fallimento, l’abbandono, l’essere solo. Si porta le mani al volto per coprirsi come da piccolo contro il mostro del buio e l’odore di muffa e di vernice torna a invadergli le narici. Ammuffire, marcire, essere divorati.

Si copre gli occhi chiusi e spera che, quando li avrà riaperti, si accorgerà che è stato tutto un sogno. Mentre è nel buio, torna flebile e poi sempre più intenso il miagolio che, tornando a crescere pian piano, da lontano lo scuote. Riapre gli occhi: il gatto è ancora lì, ma il suono continua e Alessandro comprende che non arriva da quel gatto ma dal campo dietro di lui. Si alza, si volta e si avvicina a bordo strada. In mezzo alla sterpaglia incolta, a una decina di metri, un altro gatto arancione, con striature rosse e precise, si muove nella sua direzione. La somiglianza tra i due animali lo lascia stordito al punto che Alessandro si deve girare per controllare che l’altro sia ancora lì. Intanto, il gatto arancione si muove alle sue spalle e miagola sempre più forte finché il ragazzo si volta nuovamente verso il buio e fa un passo verso l’animale che diffidente si paralizza senza interrompere il suo richiamo disperato. Ci pensa, decide e poi con un balzo scavalca il canale asciutto che divide la strada dal campo. Le sterpaglie davanti a lui sono messe in movimento e il miagolio si allontana. Nel silenzio che si crea, Alessandro spera che tornerà, così decide di lasciare un luogo.

Torna con un balzo sulla strada, si abbassa a prendere il corpo ormai freddo del gatto e lo depone sul fondo del canale. Cerca di dargli la forma più naturale possibile così che sembri dormire, lo acciambella cercando di vincere la resistenza della morte. Quando è tutto abbastanza realistico, forzando leggermente le palpebre gli chiude gli occhi. Strappa della sterpaglia cresciuta sul bordo del canale per ricoprire il corpo. Non smette finché il verde copre l’arancione e la notte confonde tutto.

Immagine generata con AI generativa di Adobe Photoshop

“dipinto ad olio di una stanza con la muffa al soffitto”