Che ci impegniamo a fare

La tapparella è abbassata. 

La camera mia è al buio. 

Ho gli occhi aperti ma non vedo niente. Questo non è un problema, ché da vedere comunque non c’è niente. Qualcosa cChe catturi il mio interesse. 

Ho la coperta addosso, la gente è tornata dalle ferie e si sta preparando per iniziare il nuovo anno. Di lavoro. Ma io non devo iniziare niente perché il mare non l’ho visto nemmeno quest’anno. 

Ho freddo. O sono freddo, devo ancora capirlo a ventisei  anni, io. Il calore violento della pressione là fuori mi ha reso inerme: ora, non esco a bruciarmi nell’inferno, mi sento al sicuro, in queste lenzuola fresche. Dove nulla mi finge promesse: chi semina, raccoglie.

Siamo sicuri sia così, oggi? 

Siamo sicuri, sia così, per noi?

 

Entra mia madre, non volta gli occhi verso di me, e si dirige lì.

La tapparella è alzata. Entra la luce che disturba la mia quiete al buio: io non vedo, nessuno vede me.

Esisto io?

Entra la luce e lacera le mie ferite.

«Cercati un lavoro. Su, alzati che è tardi» dice lei e se ne esce dalla stanza.

Cercati un lavoro.

Come se non l’avessi fatto negli ultimi anni. 

Non ti ricordi mamma che l’università me la sono pagata servendo ai tavoli? Che l’ho finita comunque in tempo. Scusa mamma se non ho preso la lode, ma ero impegnato a organizzare il mio tempo, le ventiquattro ore per chiunque, tra esami da dare e rette da pagare. Il tuo stipendio da cassiera non garantisce molto, papà ci ha lasciato e solo il destino sa dove sia ora.

O non ti ricordi che ti ho aiutato a pagare le bollette, quando ti tagliavano lo stipendio per la malattia?

Cercati un lavoro.

Mamma, ora che tuo figlio ha un pezzo di titolo, quello che bisognava prendere a tutti i costi, il lavoro c’è e non c’è. 

Io sono andato a cercare un lavoro. Dal giorno della mia laurea, ogni giorno, ogni settimana, fino a pochi mesi fa. 

“Abbiamo un posto da tirocinante”. Gratis. Fatto.

“Sei giovane, se vuoi ti assumiamo come stagista”. Gratis. Fatto. 

“Ti serve ancora esperienza. Ti diamo cinquecento euro, contratto part-time”. Fatto, con ore massime e con le ossa che speravano in futuro: mi faranno reggere, un giorno.

“Ti prolunghiamo il contratto di sei mesi, poi vediamo”. 

Ma a furia di vedere e sperare in meglio, io sto morendo di ansia, mamma. Io non voglio vedere, io voglio avere. Sicurezze, certezze, su cui costruire il me adulto.

Voglio solo avere la possibilità di sognare una casa mia, piccola – mai sia -, qualche pianta da annaffiare, un angolo dove ascoltare la musica. Dove la sera cucino qualcosa per me e i miei amici. Uno specchio di fronte all’ingresso dove misurare le mie insicurezze e fingere di essere forte. 

Uno stipendio che non mi metta davanti al bivio della bolletta o della cena fuori con amici. Pesare la frutta al supermercato senza imbrogliare. Vorrei scegliere un libro per la sua trama e non perché è scontato. Vorrei provare i cibi di altri paesi, ma il mio stipendio gioca con la mia coscienza. 

Vorrei non dovermi sentire in colpa a comprare maglie da aziende che non rispettano l’ambiente. E che causano trumori alla pelle. 

Vorrei non essere l’esito dei fallimenti di chi mi ha preceduto: vi siete mangiati il mondo e ci state lasciando affamati a vita. 

Consapevoli, tutti, e coscienze sporche, mai ne aveste una. 

 

Su, alzati.

Con quali forze, mamma? 

Con quale coraggio me lo dici? 

Che gli occhi delusi, stanchi di tuo figlio li hai visti. Giorno dopo giorno, quando tornavo dopo aver passato la giornata a cercare un lavoro.

Io mi alzerei da questo letto, ma ho paura di avere poche forze, mamma.

So che per te il tuo bambino è il più forte al mondo, ma lascia che ti sveli una cosa, mamma: sono umano. E come tutti i miei coetanei, anche io non ho più energia. 

Il mondo, come a tutti i miei coetanei, mi sta consumando come fossi qualcosa da spremere e masticare fino a quando la mia pelle è ancora saporita, resistente. Poi, nulla: il prossimo. 

Che siamo otto miliardi a lavorare e tu dici a me che è tardi.

È tardi.

Per cosa, mamma? 

Lascia che te lo dica, te che hai altri pensieri, come tutti i tuoi coetanei.

Stanno depilando il mondo. Secoli di compagnia di quei alberi e ora li stanno separando. Bruciando come se non soffrissero. Dicono che non servono, che al posto loro si mette altro. Cemento, case che la popolazione sta aumentando. Ma io non so se lo stiano facendo per il popolo o per i loro interessi. 

Quella gente, che governa i paesi, ha iniziato a mentire alla tua generazione e non ha ancora smesso, mamma. 

E tu mi dici che è tardi? 

Per cosa?

Sei sicura di vedere la pensione, mamma? Sai che io nemmeno ci penso? È una delle pochissime certezze che ho nella mia vita, che nella vecchiaia me la dovrò cavare da solo. Dovessi anche trovarmi qualcosa di soddisfacente.

Che ci siamo impegnati a fare, mamma?

Che ci impegniamo a fare?

 

La tapparella è abbassata, anche oggi come ieri. 

Qui nulla scorre. 

I libri anche devono cambiare, ogni cosa insegnata si è rivelata falsa. Ogni promessa, una pugnalata al cuore.

La camera mia è al buio. Io ho gli occhi aperti ma non vedo niente. Questo non è un problema, che da vedere comunque non c’è niente. 

Arriva mia madre, non mi rivolge l’attenzione.

Fa per alzare la tapparella, sospiro forte. Si gira verso di me, al buio, sento la sua voce diretta a me.

«Alzati, dai, è tardi» mi dice.

«Per cosa, mamma?»

«È quasi ora di pranzo, su. Fatti una doccia, prova a cercare un lavoro»

«No» le rispondo prima che pronunci un’altra sillaba. «Non ho voglia di fare la schiavo per un altro, mamma. Lasciami qui sul letto. Questo buio mi dà più dignità».

Immagine generata con AI generativa di Adobe Photoshop

“dipinto ad olio che ritrae un uomo avvolto in delle coperte in un letto al centro di una grande stanza vuota e totalmente buia”