Segnalibri di Dio

Il bucato è steso, la luce rossa è accesa, l’acido acetico per l’arresto punge come spilli le mucose del naso. I prodotti già diluiti costano un occhio della testa e il Suo occhio vuole risparmiarlo per le uniche attività da cui trae giovamento: fotografare le persone e leggere. 

Un essere fragile e squallido: chi può anche solo sospettare che possa essere Dio in persona?

Oggi è giornata di provini, la Sua preferita; cade sempre di lunedì come nella Bibbia, quando tutto inizia e luce fu. Guarda con attenzione i piccoli riquadri in cui ha imprigionato la luce per scegliere quale esatto istante, fermato dal Suo scatto, abbia la virtù necessaria per essere sviluppato e rimanere cristallizzato nella sua forma bidimensionale, perfetta e misurabile, ma mai più raggiungibile dal soggetto ritratto. Il solito dispotismo divino, imperscrutabile a nostro giudizio, per cui il favore di un istante di perfezione ha, come contrappasso, la perdita eterna della concessione di poterla replicare. Scorre, con il Suo sguardo perfettissimo l’umanità inconsapevole incrociata nel corso delle ultime settimane e che ora è nell’attesa del Suo giudizio.

Ecco la cassiera del supermercato vicino casa intenta a passare un barattolo di cetrioli sullo scanner. La foto è il preciso momento in cui due settimane fa, dopo vari tentativi andati a buca, il sistema le ha restituito la giusta risposta sonora di riconoscimento del codice a barre. L’espressione minuta di esultanza pura e sospesa nel brillio degli occhi, unita alla trazione quasi impercettibile del muscolo zigomatico inferiore destro, abilmente colti nello scatto. È un fatto noto che da alcuni giorni non si è più vista al supermercato. Alcuni dicono che ha cambiato lavoro, altri raccontano che è partita per quel viaggio nei paesi nordici che sognava da tempo. Ciò che è certo è che non la si può più trovare dietro la cassa, come nella foto. Dio ha deciso, la bella cassiera diventerà una foto 45×30.

 

Il primo scatto di Dio fu stampato con una macchina fotografica Polaroid, completamente automatica, un acquisto inconsueto del padre, per via del costo e della frivolezza del prodotto. Il soggetto era la dolce mamma mentre controllava le lenticchie secche sul tavolo, dividendo quelle buone da quelle da scartare. Un gesto esperto e sicuro, il profilo parzialmente coperto da un’onda biondo cenere, il grembiule a fiorellini che fa capolino dal bordo del tavolo di ciliegio, lo stesso che si trova ancora in cucina. Pochi giorni dopo quella foto, la mamma non fece più ritorno a casa dall’uscita per l’usuale spesa giornaliera. Il padre disse in quell’occasione che era andata a fare visita a certi suoi parenti. Col passare dei giorni incominciò a rispondere alle richieste del figlio citando una non ben precisa malattia, forse tubercolosi, che doveva essere curata con una lunga degenza in ospedale. I mesi trascorsero scanditi dai lamenti e dalle insistenti domande del figlio a cui il padre, spazientito, replicava con sempre meno velate accuse di essere stato un bambino cattivo, dai troppi capricci e che non meritava certo di avere una mamma ad accudirlo.

Dio ebbe un amico, la Sua seconda Polaroid.

Franceschino frequentava la stessa classe, la quarta elementare dell’istituto di periferia in cui potevi trovarci Dio, ma nessun figlio di dottore.

Forse non era vero che fossero amici, forse era solo il frutto della proiezione delle esigenze di affetto di Dio. Erano gli occhi suoi verdi, incorniciati da ciglie foltissime, come se fosse truccato, ad affascinarlo a tal punto da decidere di fotografarlo. È l’ultimo giorno di scuola, gli spallacci della cartella sono ben saldi, stretti tra le mani. ; le ginocchia ossute bucano ancora oggi la foto che dimora nella scatola sotto il letto, dove Dio non guarda mai, perché è dove si nascondono i mostri. Franceschino, si fa ancora fatica a raccontarlo, si dice sia caduto nel pozzo poco distante dall’abitazione dei nonni, mentre un pomeriggio di quell’estate inseguiva una faina spaventata. Si dice, perché il corpo non fu mai ritrovato a causa del condotto troppo stretto: Dio ancora attende di giocare con lui.

 

Le giornate trascorrevano tutte uguali nell’eterno ritorno, come si conviene a un dio, che è circolo e uggia e poco più; eppure, un giorno, che non ricorda più nessuno, Dio cercò aiuto per sfuggire alla sua compiutezza e chiese a suo padre: “che faccio?” Una domanda innocua a cui corrispose una risposta noncurante: “Leggi”. Da quel giorno ebbe principio un nuovo ciclo che si unì, indissolubile, come certi abbracci degli uomini, all’ossessione per la fotografia. Lesse un libro dopo l’altro senza nemmeno chiedersi quale fosse il suo genere o chi fosse l’autore, senza manifestare un gusto distintivo, faccenda per Lui di poco rilievo. Presto terminò tutti i volumi della casa e il padre, intrappolato dalla sua stessa negligenza paterna, si ritrovò a chiedere a conoscenti e persino ai suoi clienti se avessero qualche libro usato di qualsiasi tipo da donare a quel suo figlio tanto curioso. Egli godeva della stima del prossimo: abbandonato dalla moglie e unico al mondo a badare a quel ragazzino bislacco e cupo, praticava con arte la professione del sarto in proprio. Divenne un’abitudine, per la clientela affezionata, lasciare qualche libro stropicciato per quel grande lavoratore dalle mani d’oro, capace di trasformare un pantalone abbondante in una sacca uterina, l’unico vestimento di cui non avrebbero mai voluto fare a meno. Nemmeno la biblioteca pubblica poté aiutarli, perché le sue gioie erano considerate da Dio effimere: un catalogo vastissimo fra cui scegliere, ma con l’obbligo doloroso di restituire quei libri. Una volta assolto l’obbligo scolastico, divenne un’esigenza essenziale trovare lavoro come commesso nella libreria del paese in modo da usufruire dello sconto dipendenti e lasciare qualche volume a magazzino per non occupare troppo la casa.

 

Dio è deluso. Ci sono troppe foto inutili in questo rullino 24 pose Kodak gold 200 ISO: una coppia che passeggia, mano nella mano, sul marciapiede davanti alle poste coperta da un Fiorino, un cane spelacchiato che si lecca i genitali, uno scatto sfuggito, una vetrina appannata di un bar molto frequentato, gli habitué del mercato del venerdì. Eppure, Dio non si avvilisce: sa che l’ultima posa, quella che ha interrotto l’avanzamento rullino della sua reflex Pentax, sarà il provino che cercava.

 

Un dio sa anche essere misericordioso, è legge. I provini speciali, ma che non vengono stampati, non sono abbandonati all’oblio del cesto dei rifiuti o alla sterile catalogazione; asciutti e opportunamente ritagliati con le pesanti forbici da sarto del padre, arricchiscono la collezione dei Suoi preziosi segnalibri.

Nel nome del padre ereditò, oltre alla casa con il vecchio mobilio, gli strumenti anacronistici per il taglia e cuci dell’attività paterna: una latta blu di biscotti al burro piena di aghi, spilli e ditali, le forbici, una scatola da scarpe colma di spagnolette, alcuni sacchi di ritagli di stoffe e una Necchi industriale non più funzionante. 

Durante l’infanzia, a Dio era proibito toccare le forbici per via della loro pesantezza e per la lama affilata manualmente dal padre, orgoglioso di quello strumento che doveva essere efficiente e ben riposto, pena il fallimento della confezione. Da piccolo non era attratto da quello strumento sublime per la sua funzione drammatica e nota di separazione, quanto per il suono misto e peculiare che produceva: il crepitio della trama e dell’ordito che si aprivano, unito al leggero clangore delle lame che si incontravano e si abbandonavano grazie al perno instancabile, gli procurava un’eccitazione delle carni che si fanno anche loro acciaio. Una volta cresciuto, Dio non ne rivendicò l’utilizzo. La veglia funebre, su indicazioni del padre lasciate direttamente all’agenzia che se ne sarebbe occupata, a sottolineare la sua totale sfiducia per quel figlio osceno che gli era capitato, fu preparata nel salotto di casa. Per due giorni e due notti Dio rimase accanto alla salma del padre in silenzio; sul petto fermo e gelido aveva adagiato le forbici di una vita. Nel momento in cui fu sollevato dagli operatori preposti, il coperchio di zinco per la stagnazione che avrebbe chiuso per sempre quelle spoglie, Dio ebbe un ripensamento, nello sconcerto dei pochi astanti convenuti. Rapidamente, rischiando di ferirsi a causa dell’operazione in atto che non si arrestò, si riprese le lame scaldandole con il calore umido delle Sue mani. Tumulata la salma, il padre era ufficialmente scomparso dalla sua vita; dopo il funerale le persone che Dio ritraeva incominciarono anche a non scomparire.

 

Eccola la foto attesa, rubata ieri pomeriggio alla vicina di casa del quarto piano. 

La vicina si è trasferita nel condominio da circa un anno. In tutto questo tempo non è mai riuscito a stabilire un contatto; Dio però non ha fretta e sa attendere che la sorte si compia. Sul campanello del suo interno si legge Ferrari R. Non ci sono molti nomi di battesimo che iniziano con la R, Roberta, Rachele, Raffaella, Renata, Rossana… Ci pensa ogni giorno, ma in nessuno di questi ha il coraggio di chiederlo a lei o qualche altro condomino. Forse non vuole davvero saperlo perché ne ha uno preferito, vorrebbe tanto si chiamasse Rossana. 

Con concentrazione controlla la composizione della foto. La linea del terzo di sinistra è interamente occupata dal gesto di rotazione della figura inquadrata in piano americano. Il viso, controbilanciato sulla linea del terzo di destra dal ficus benjamin alla base delle scale, impresso sfocato sulla pellicola, tradisce l’azione che si stava svolgendo: richiamata bruscamente dal portiere si era voltata velocemente esprimendo tutta la sua apprensione. Dio sa di non aver impostato correttamente la sua macchina fotografica. Un tempo di scatto troppo lento, lasciando aperto il diaframma il più possibile, per via della scarsa illuminazione dell’androne avrebbe sicuramente fatto risultare una foto sbagliata, ma quel viso, diluito nel movimento, meritava di possedere una storia a tutti i costi. Grazioso, di quell’eleganza gentile e timida fatta di tanti “mi scusi” e “grazie” e sorrisi con gli occhi bassi, doveva accompagnarlo nella lettura del prossimo libro che era già pronto, in bilico sulla vecchia Necchi nell’angolo appena fuori dalla porta della camera oscura.

 

Dal giorno in cui entrò in possesso delle forbici, non iniziò mai un nuovo libro senza prima aver ritagliato un segnalibro dedicato, scegliendo fra i suoi scatti. Le anime ritratte, insinuandosi fra le pagine accoglienti, venivano elette a perfette guardiane di quello spazio misurato: fermate nelle due dimensioni, lo guidavano nello scandire il tempo della narrazione. Non sappiamo chi fosse più sensibile, se la carta fotografica o quegli spiriti ignari ma, in mancanza di luce tra un foglio e l’altro, finì che fu il racconto a imprimere la sua traccia.

Il giorno seguente al funerale del padre, Dio aveva per le mani i provini di un progetto pubblicitario della sua libreria, mai andato in porto, che ritraevano il suo titolare. Le foto non erano state approvate e non videro mai la stampa. Senza una particolare volontà, decise di ritagliare lo scatto da lui considerato migliore, ovvero quello in cui il capo aveva assunto un’aria competente sullo sfondo della sezione Critica letteraria, per usarlo come segnalibro per la lettura de Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde. Il lunedì seguente il titolare arrivò più tardi al lavoro lamentando un fine settimana infernale in cui la moglie aveva chiesto la separazione dopo aver scoperto che conduceva una doppia vita di tradimenti occasionali e qualche debito di gioco. Per Il conte di Montecristo decise di utilizzare un provino dell’archivio che ritraeva un vecchio amico di famiglia che qualche anno prima era stato implicato in un’inchiesta di tangenti presso il suo impiego statale agli uffici dell’ente previdenziale. Poco dopo la conclusione della lettura delle rocambolesche avventure di Edmond Dantès, incontrò al supermercato proprio quel vecchio signore intento a comprare del pesce persico freschissimo. Fu l’anziano a presentarsi, perché appariva irriconoscibile, e gli raccontò che attualmente se la passava molto bene, che si rammaricava di non essersi presentato al funerale del genitore, ma che nel frattempo si era preso le sue soddisfazioni contro coloro che lo avevano incastrato.

 

Non c’è tentennamento, non c’è argomentazione da esaminare. Dio è atto puro. Prende le forbici che ora tiene appese sopra le bacinelle per lo sviluppo e taglia assorbendo con tutti i sensi il rumore della carta fotografica che si lacera. Lo fa lentamente, come se fossero incise le fibra una a una, come se separasse l’anima della Sua vicina dalle altre in un rito solenne. È ancora più bella mentre oscilla, ancora appesa al magma primordiale. Gli occhi d’acqua e impensieriti sono già liberi, mancano pochi istanti e il suo destino sarà compiuto. Le Sue mani tremano leggermente, trainate da una nuova eccitazione, ma sono salde. Un ultimo suono metallico, l’acciaio delle lame si serra, poi la porta della camera oscura si apre. Dio non può più aspettare, il volume si apre e così in piedi, con il braccio appoggiato sullo stipite della porta il segnalibro è già pronto per la sua eletta funzione. Non c’è tempo nemmeno per mettersi comodi, il tempo ora è al servizio dell’eco dei versi del Cyrano De Bergerac.

Immagine generata con AI generativa di Adobe Photoshop

“dipinto ad olio di una stanza con una luce rossa e dei fili dove sono appese delle foto ad asciugare”