L'ora del tè
«Le hai mai detto che la ami?» glielo avevo chiesto un pomeriggio, uno dei tanti.
E lui non mi aveva risposto, aveva semplicemente detto: «Eravamo d’accordo di non parlarne».
Ed era vero, non ne parlavamo mai.
Mi ero trasferita da poco rispondendo a un annuncio trovato su una bacheca in facoltà.
Il nuovo appartamento occupava il terzo piano di una palazzina storica, su una piazza chiusa al traffico, dominata dalla chiesetta gotico-romanica con la facciata incompiuta in pietra grezza e laterizio.
Dalla finestra della mia camera da letto, che affacciava su via Masaccio, l’avevo visto per la prima volta.
In un pomeriggio di inizio autunno, ci guardiamo: io seminascosta dalle tende azzurrine, lui con i gomiti sul davanzale a fumare una sigaretta, dall’altra parte della strada.
Rimaniamo a fissarci per un po’. Lui sorriso sornione, io il cuore in subbuglio e un unico pensiero: Ciao, lo dico tra me e me, alzando la mano per salutarlo, timidamente, quasi al rallentatore e, quando già mi pento del gesto che persino per me arriva inaspettato, lui mi fa cenno di raggiungerlo.
Vieni, si sbraccia per farmelo capire.
Apro la finestra, per esserne sicura, lui insiste, mi invita gesticolando.
Mi guardo un attimo intorno, lancio di nuovo un’occhiata fuori, gli faccio cenno di aspettare, lui ride e mi indica il portone di casa sua.
Richiudo le ante, mi passo una mano tra i capelli per sistemarli un po’, mi infilo gli anfibi e mi precipito giù per le scale, in strada, attraversando di corsa fino al civico 3.
Il portone è già aperto e lui è affacciato sul ballatoio del secondo piano.
«Dai, vieni su, che aspetti?» mi urla senza esagerare, ma il rimbombo dell’atrio amplifica la sua voce. Inizio a salire, dentro ho un martello pneumatico.
Mi aspetta sulla porta, con i capelli arruffati e una tazza di tè fumante tra le mani.
«Entra, ti offro un tè alla cannella… Ti piace la cannella? Se preferisci ho anche l’Earl Grey, quello del discount».
Ed entro nel suo appartamento.
Entro nella sua vita.
«Siediti dove vuoi. Ah, comunque, mi chiamo Alessandro»
«Comunque io sono Francesca».
Certe storie iniziano così, semplicemente: due nomi, le briciole di biscotti al cioccolato sparse sul tavolo della cucina, di dove sei, che musica ascolti, cosa studi, che locali frequenti, hai un bel sorriso, posso dirtelo? O ti imbarazzi?
La casa è piccola, un po’ buia, nonostante la grande finestra – quella finestra.
Ambiente unico diviso tra angolo cottura e soggiorno, al centro del quale campeggia un divano tre posti, coperto da un telo che ha i colori della bandiera giamaicana. Un piccolo televisore poggiato su un mobiletto ricolmo di carte, fotocopie, dispense universitarie e poi libri dappertutto e felpe appallottolate sulle sedie.
«Sì, lo so, c’è un casino da fare schifo… Siamo in tre, quando va bene. Voi? C’erano delle straniere l’anno scorso nel vostro appartamento, ma credo che le abbiano sbattute fuori, lo sai no? Pare che c’avessero un giro strano» me lo dice ammiccando e guardandomi divertito.
Rido anche io: «Figurati, no, non ne sapevo niente! Noi siamo tranquille, più o meno. Siamo in quattro».
Chiacchieriamo fino al tramonto, le tazze ormai vuote, mentre la luce cambia, filtrata dalla grande vetrata, insinuando tra di noi una strana intimità. E non smettiamo mai di guardarci negli occhi, come a voler indovinare di noi più di quanto riusciamo a dirci in un pomeriggio che diventa quasi sera.
Il rumore della porta che si apre ci fa trasalire: i suoi due coinquilini che rientrano. Ci presentiamo, mi alzo: «Allora vado, ciao ragazzi».
Mi accompagna alla porta, fin sul pianerottolo, e ora che faccio?
«Ale, grazie per il tè e…» i suoi occhi azzurri non mi danno tregua. Siamo talmente vicini che lo abbraccio, per salutarlo. Sento un brivido dentro. Mi ritrovo le sue labbra a un soffio dalle mie, provo a baciarlo. E lui mi allontana.
«No, dai, ho una morosa… Non te l’ho detto?»
No, non me lo aveva detto.
Mi aveva detto che adorava Quentin Tarantino, che venerava Neil Gaiman, che ascoltava i CCCP giorno e notte, ma si era dimenticato di dirmi che, da qualche parte, aveva una ragazza.
Mi imbarazzo talmente tanto da sentirmi una cretina, balbetto qualcosa come per scusarmi e sono anche arrabbiata forse, con lui e con me. Mi volto per andare via, che figura di merda, come mi è venuto in mente di baciarlo?
«Ehi, ma domani ci vediamo? Se non hai da fare ti aspetto per il tè, eh? Si fa?»
Iniziano così i nostri pomeriggi in casa: io, lui e il mondo fuori da quella finestra.
Quando siamo liberi dai nostri impegni, la sua casa diventa il nostro rifugio.
Ci raccontiamo. Parliamo di tutto – ha una famiglia problematica, incasinata da far paura. Spettegoliamo sui nostri amici, che oramai condividiamo, usciamo tutti insieme, le mie coinquiline, i suoi compagni di corso, i suoi due conviventi mezzi matti.
E quando siamo insieme agli altri, ci cerchiamo; lo facciamo con gli sguardi, dissimulando una complicità che è ogni giorno più serrata. Conosco cose di lui che non dirà mai a nessun altro e lui di me sa tutto quello che non ho mai confessato neanche a me stessa. Oramai potremmo prestarci persino le parole, io direi le sue, lui accennare le mie. O anticipare le risposte l’uno dell’altra, anche quando si tratta soltanto di sciocchezze A lei non datele il lambrusco, non lo regge, le viene il mal di testa.
Lei, la sua ragazza, è rimasta a vivere nella loro città. Esiste, si rivedono nei fine settimana in cui torna a casa dai suoi; esiste nelle telefonate, esiste in una foto che è attaccata alla parete della sua camera. C’è, ma è l’unico argomento che non ci sfiora mai.
«Lo sai che Alessandro ha la ragazza, vero?» mi fa una volta Leo, uno dei suoi coinquilini. E io gli rispondo che lo so, che non è un problema, che siamo amici e basta, che non c’era neanche bisogno che me lo dicesse.
«Lo dicevo per lui, non per te» aggiunge, quasi serio, lui che serio non lo è mai.
Per lui.
L’inverno arriva senza fare rumore. Fuori piove, il grigio del cielo si insinua dentro la stanza, la penombra ci avvolge. Il tè nero al gelsomino ha lasciato sul fondo delle tazze cerchi concentrici che si inseguono, come ci inseguiamo io e lui senza toccarci mai.
Sdraiato sul letto, mi fa cenno di stendermi vicino a lui.
Sposto il libro di fisica, mi siedo sulla coperta stropicciata.
«Ascolta questa canzone» mi dice, dividendo con me gli auricolari. Non mi sembra strano stargli accanto così, mi sdraio anche io, oramai mi sono abituata alla nostra intimità che ha le sue regole. Dopo quel mio primo goffo tentativo di oltrepassare i confini, quel bacio mai dato sulla porta di casa, non era mai più capitato che neanche inavvertitamente ci sfiorassimo. Tra noi tutt’al più potevano esserci abbracci innocenti, per salutarci, o delle pacche quasi cameratesche, come con tutti gli altri. Ma non ci toccavamo, mai.
Play, la musica parte. Guardando il soffitto, nel cui angolo intravedo una ragnatela, ascolto. Mi aspetto qualcosa come spara Jurij spara. Lo sento spesso cantare a squarciagola i suoi pezzi preferiti, come quella sera in cui stava vincendo a Risiko e si era messo a urlare, saltando sul divano, con la Becks in mano che quasi rovesciava tutta, e una mezza canna di fumo tra le dita; noi a ridere come dei deficienti, ma io temevo che cadesse, come era caduto quella volta a dieci anni, quando era scivolato dal trampolino della piscina per dimostrare al padre che lui i tuffi li sapeva fare. Dai, scendi, smettila di fare lo scemo.
Lo guardo, staccando gli occhi dal cielo nella stanza, grigio come quello tra i palazzi, tra il mio e il suo, sulla strada, la nostra strada.
Che sorriso che c’hai questa sera
Sembra quasi che sia primavera
Di’ di no perché se no
Questa notte morirò
Dentro ho di nuovo lo stesso brivido di quando l’avevo visto alla finestra quel pomeriggio di ottobre. Mi tolgo gli auricolari, sollevo la testa dal cuscino, affondo i miei occhi nei suoi, come facciamo sempre quando siamo soli, quando siamo in compagnia, come in ogni momento.
Restiamo un attimo senza aggiungere altro, senza commentare. Non gli chiedo spiegazioni, non ne ho bisogno, non voglio nemmeno sentirle.
Se lo avessi sfiorato, anche solo passandogli la mano tra i capelli, cosa sarebbe successo?
E non dire che lo sai
che sai già che cosa vuoi
Avevo vent’anni e amavo come si ama a vent’anni. Mi piaceva attraversare quella strada che ci separava. O guardarlo dalla finestra. Qualcosa come allungare la mano e non toccare. Amavo solo il desiderio di lui, il desiderio di noi, la tensione continua che adesso lui stava spezzando.
«Bella la canzone, davvero, ma forse non è il tuo genere e neanche il mio».
Mi alzo, mi avvicino alla finestra, guardo fuori, guardo lui, immerso nella penombra.
«Devo passare in biblioteca a restituire un libro, prima che chiuda… Ma tu guarda che tempo di merda!» gli dico avviandomi alla porta.
Lui si alza, imbronciato, lo sguardo basso.
Mi accompagna fin quasi sul pianerottolo, mi saluta con un cenno, sollevando appena il mento, come si fa tra amici.
«Ale, domani il tè lo prendiamo a casa mia, che ne dici? Vaniglia o frutti rossi… Solita ora?»
Con la porta ancora aperta alle spalle, inizio a scendere. Lentamente, quasi contando ogni scalino. Senza correre, arrivo al mio portone, i capelli bagnati, il giubbotto fradicio. A casa le ragazze non ci sono. Metto su l’acqua e intanto mi levo i vestiti e mi asciugo la testa. Lascio una bustina di tè verde in infusione, la tazza sbrecciata vicino al libro della biblioteca che non ho nessuna fretta di restituire.
Mi accendo una sigaretta e apro la finestra. Poggio i gomiti sul davanzale e guardo fuori: dall’altra parte lui, quasi un’ombra, accenna un saluto alzando appena la mano.
Immagine generata con AI generativa di Adobe Photoshop
“dipinto ad olio che ritrae uo uomo che fuma una sigaretta alla finestra visto dal palazzo di fronte”