La donna capace coi segreti

In alcuni periodi della vita può capitare, a certe persone, di venir attirate dal settore della cultura, in particolare dall’editoria locale e, perché no, delle presentazioni dei libri editi da minuscole case editrici che lucrano sugli autori che pubblicano. È questo il caso di una donna di quarantaquattro anni originaria di Gambettola, in provincia di Cesena, che lavorava comodamente e stabilmente come contabile presso una piccola vetreria, dal lunedì al venerdì seduta alla sua scrivania dotata di computer fisso, stampante, cordless e un fax obsoleto che conservava come cimelio. Era maritata con tale Aldo Cicchetti, che tutti a Gambettola conoscevano come Nuovo Pino in quanto posseditore di un naso spropositato, molto gobbo e appuntito che tutti riconducevano a quello di un certo Pino, famoso appunto per il suo nasone e deceduto da tempo. La coppia conviveva in un modesto trilocale con garage di proprietà, ormai non si baciavano più, perciò quel naso non sortiva alla donna il fastidio di un tempo. Conducevano entrambi una quotidianità piattissima ma in piene comodità e dignità, doti che nell’editoria locale puntualmente vengono a mancare. 

Non potendo avere figli, sia il tempo libero sia la noia abbondavano. Per questo, e per una serie di altre circostanze, la donna si era trovata un sabato pomeriggio di fine luglio in piazza Pertini a Gambettola ad ascoltare la presentazione di un libro edito da una insignificante casa editrice di Ravenna, la Pagliaccio Edizioni; ai suoi occhi, al contrario dell’evidenza, la Pagliaccio era risultata una realtà coraggiosa, necessaria al territorio, utile come trampolino di lancio verso l’immortalità artistica dei suoi autori. Il libro era uno smilzo noir ambientato nel riminese e l’autore, omuncolo sulla quarantina, quasi pelato col sorriso più giallo della copertina, le spalle strette, la pancia molle e bassa e le gambe corte, ne aveva parlato per un’ora a un microfono che ogni tanto fischiava, seduto su un misero palco assieme a una moderatrice vestita Desigual che mitragliava domande scontate. Il pubblico era formato da non più di quindici disperati, tra cui vecchi con le mani dietro la schiena, passanti capitati lì per sfiga e parentame vario. L’autore, sudaticcio, si capiva lontano un chilometro che non guadagnasse una lira da quel romanzo; indossava una maglietta nera ristretta da anni di lavatrici prive di ammorbidente, i suoi jeans erano sdruciti e le scarpe, delle Nike blu da scuola superiore, piegate verso l’interno piede. 

La donna aveva così assistito a braccia conserte e viso ostentatamente disteso all’intero evento, applaudendo alla fine e acquistando poi il libro al banchetto della casa editrice, presieduto da un uomo tarchiato e rosso di capelli che non aveva né il POS né il resto da dare agli sparuti compratori. Eppure, nella testa della donna questa esperienza si era già incasellata come estasiante, e aveva deciso, rincasando quella sera stessa, che da lì in poi si sarebbe dedicata ai libri. Quantomeno, la fortuna della genetica le aveva concesso anche un altro pensiero, ben più saggio: dedicarsi ai libri sì, però senza licenziarsi dal lavoro. Sarebbe stato il suo nuovo hobby fine a sé stesso e inutile alla collettività. 

Si era chiesta: ma quale ruolo potrei ricoprire? Autrice? Editrice? Applauditrice? La prima idea era stata quella di presentare lei dei libri, rigorosamente vestita Desigual, però poi s’era convinta che fatto trenta tanto valesse fare trentuno, cioè puntare alla posizione di grido. Ebbene, l’indomani si era fiondata all’Euronics per acquistare un Lenovo e dare il là alla sua produzione letteraria. E in ventuno giorni festivi compresi come Dostoevskij con Il giocatore, di getto aveva scritto un romanzo, un giallo ambientato a Cesenatico quasi uguale a quello che aveva letto, situato nel riminese, similissimo non solo nello stile e nella punteggiatura ma anche nei contenuti: omicidio sul lungomare, detective, vari sospettati fra i clienti di un albergo, risoluzione con colpo di scena e finale con l’assassino, un playboy biondo caduto in disgrazia, che sbrana la sua ultima piadina prima dell’ergastolo. Il Nuovo Pino non si era accorto di niente, eppure la donna scriveva ogni sera, al tavolo della cucina, dimenticando lavatrici e depilazione, incarichi che prima la occupavano con assoluta priorità; era così scoglionato, il Nuovo Pino, bollito e ingoiato dalla tv sempre accesa, che non badava per niente al grande cambiamento di lei. 

Con il testo ficcato dentro una chiavetta USB della vetreria, la donna si era poi presentata alla sede della Pagliaccio Edizioni, a Ravenna in zona stazione; giunta ai piedi di un condominio verde mezzo sverniciato, aveva scoperto non esserci una redazione come immaginava, con telefoni che squillavano, fogli volanti, copiatrici, correttori di bozze e via via, bensì l’appartamento di residenza dell’editore, che le aveva aperto, invitandola con garbo nel suo salottino molto attirato dalla maglietta rosa a ombelico nudo di lei, acquistata apposta per l’occasione. S’era accomodata sul divano arancione in ecopelle Ikea, pensando che la povertà assoluta dell’editore, constatata dalla mobilia, fosse sintomo di vera letteratura. Percepiva una magia e un romanticismo d’altri tempi nell’aspetto scadente di quell’uomo che conviveva con scatoloni d’invenduti, piantine grasse morte e sacchi dell’immondizia lasciati aperti. S’era sentita nel posto giusto al momento giusto, e dopo essersi presentata con una lunga descrizione di sé, aver accavallato, scavallato le gambe sei o sette volte ravviandosi i capelli sul centro della testa, gli aveva consegnato la chiavetta USB; in tutto quel tempo lui era rimasto in piedi, gobbo con le mani nelle tasche dei suoi bermuda bianchi che gli evidenziavano le lentiggini color cerume dagli stinchi alle caviglie. 

La chiavetta l’aveva infilata al volo nell’Acer che c’aveva lì, con la ventola che già soffiava al massimo, e aveva aperto il testo a tutto schermo: non era giustificato, mancavano le maiuscole dopo i punti ed era zeppo di sottolineature rosse automatiche indicanti refusi di ogni tipo, apostrofi al maschile, accenti sbagliati, per non parlare dell’aleatorietà dei tempi verbali e dell’uso spropositato degli avverbi in mente. Eppure l’editore aveva soprasseduto, e con estrema professionalità aveva chiesto la cortesia all’autrice d’alzarsi in piedi e leggere ad alta voce l’incipit. La donna si era messa di fianco a lui schiarendosi la voce, prima di cominciare, col pugno chiuso davanti alla bocca. Purtroppo, però, qualcosa era andato storto: dopo le prime parole scandite bene, aveva preso a balbettare e a confondere le righe, fino a diventare paonazza in faccia e bloccarsi del tutto. Conscia della figuraccia e di star perdendo pezzo dopo pezzo ogni sua sicurezza, con volontà ci riprovava, ripartiva, ma poi s’impappinava più di prima ed esplodeva di vergogna. L’editore pareva disinteressato a queste difficoltà, come lo era per i refusi; si era limitato a commentare con tono serio le uniche due righe da lei lette, facendole notare gli strafalcioni ma come fossero minuzie da limare. Non si capiva se avesse un gran tatto o se fosse rintronato. Nel pallone più totale, nel frattempo la donna lo guardava come se si fosse pisciata addosso, annuiva, e ammaliata dal suo essere così morbido e pudico s’era fidata di ogni consiglio. Quindi lui aveva cominciato ad apportare le correzioni, mentre lei, tornata a cuccia sul divano, aveva ragionato sulla probabile causa di quella balbuzie: il romanzo era a dir poco banale, però comunque intimo, e non essendo abituata a farsi leggere e, per di più, a leggersi ad alta voce in presenza altrui si era emozionata come non mai; allo stesso tempo s’era anche resa conto che quelle righe scritte di suo pugno eran di una qualità infima, che il suo frasario era insulso e che non sfiorava lontanamente il livello dei pochissimi libri che aveva letto, tra cui il giallo riminese. Già sapeva che non sarebbe mai più riuscita a leggere qualcosa di suo senza morire dentro. L’editore, intanto, era intervenuto a man bassa su tutta la prima pagina, ripulendola, poi leggendola lui a voce non alta, ma appena udibile. Al che aveva sancito: «Adesso funziona!»

Alla donna era sembrato inadatto, il verbo funzionare applicato a un’opera letteraria, però aveva lasciato correre. 

Si erano salutati col patto che l’editore avrebbe corretto l’intero romanzo in un paio di settimane e si sarebbe occupato dell’impaginazione e del progetto grafico, infine di ogni fase per giungere alla stampa. Alla donna si erano illuminati gli occhi; in un mulinello mentale di emozioni, gratitudine e sogni di gloria realizzava che non le era mai successo prima d’azzeccare qualcosa al primo tentativo, così si era anche intristita, perché per quarantaquattro anni aveva ignorato del tutto le proprie capacità narrative.

Di chi era la colpa? Forse dei genitori, che non avevano creduto abbastanza in lei, o magari del Nuovo Pino, mancante dalla testa ai piedi di interessi culturali? Fatto sta che il giorno dopo aveva firmato il contratto della Pagliaccio Edizioni, impegnandosi a pagare alla persona dell’editore euro duemila e ottocento per la pubblicazione del volume in duecento copie, di cui cinquanta le spettavano come “premio”, questa era stata la parola esatta.

In macchina, quel pomeriggio di metà agosto la donna aveva guidato coi finestrini abbassati e Radio Kiss Kiss a tutto volume. Rideva a più non posso, metteva fuori il braccio come a impastare l’aria, promettendosi che non avrebbe detto niente a nessuno; sarebbe tornata a casa, avrebbe cotto le polpette col sugo di pomodoro e piselli e l’indomani ufficio, contabilità, bolle e fatture come Dio comandava. Ma intanto, nel suo spirito era rinata e persino le pareva di percepire i contorni del suo cuore, non com’è raffigurato nelle immagini anatomiche bensì come un cuore stilizzato, con la punta in basso e colorato di rosso. Per chiudere in bellezza, quella sera, dopo cena, si era piantata al computer per cominciare il secondo romanzo.



Passati due o tre giorni, aveva poi sentito il bisogno di confidarsi con qualcuno, così si era rivolta alla sua unica amica, Giovanna Presbiti, parrucchiera uomo donna con la cresta che ogni tanto incontrava per un caffè o un calice di vino. Avevano chiacchierato del più e del meno come al solito, sedute al Bar Giambellino in centro a Gambettola, ovvero di shopping, malattie altrui e lavoro; i presupposti c’erano tutti, eppure la donna non era riuscita a sputare il rospo. Allora si era catapultata a casa dell’editore: gli aveva detto che voleva assistere al lavoro di correzione, seduta di fianco a lui alla scrivania, buona lì come un’allieva; bugia, la sua era mera ruffianeria, però l’editore, che non riceveva compagnia da nessuno, s’era immediatamente aperto alla proposta e, dopo averla accettata, le aveva già snocciolato ben due confidenze: la prima era stata rivelarle che soffriva di apnee del sonno e che perciò russava come un trattore; girando spesso fra fiere di libri e festival letterari, questa era invece la seconda confidenza, di recente s’era stupito di come in Italia, e in generale nel mondo, reggesse ancora l’ordine delle cose determinato in case private, sensi di marcia sulle strade, orari e calendari lavorativi, insomma tutta la realtà standard organizzata secondo la società; le aveva confessato che gli pareva miracoloso, epifanico che l’organizzazione del formicaio umano perdurasse così, quando invece la gente avrebbe potuto disgregarsi in varie forme, anarchie, dittature, per realizzare un caos finale, stile universo. La donna lo ascoltava a bocca aperta, sicurissima che riflessioni del genere lei non le aveva mai prodotte. Al contempo notava nel fisico di lui l’inefficienza un catorcio da rottamare, eppure un po’ l’attizzava, forse perché oltre alle pensate ad effetto era il solo ad aver assistito alla lettura di lei ad alta voce, dove aveva toccato il fondo.

La revisione del testo era durata quindici giorni esatti; giunti a compimento avevano scelto il titolo, Morire d’estate, e realizzato in copertina l’immagine di una pozza di sangue su cui si rifletteva un ombrellone da spiaggia. Il libro era andato in stampa alla tipografia Tecnocart i primi di settembre, dopodiché l’editore le aveva consegnato la scatola con le cinquanta copie, e le aveva inoltrato il link Amazon da spammare. Era così contenta, così a bordo dalla gioia che avrebbe potuto anche concedersi nell’androne delle scale; peccato che lui, avvitato com’era su sé stesso, non aveva per niente intercettato quel segnale. 

Valichiamo adesso nella seconda metà della storia, in cui le cose prima cambiano drasticamente, poi vanno a rotoli.

La donna, che si aspettava dall’uscita del romanzo una deflagrazione in grado di stravolgerle la vita, s’era stupita che nessun giornalista le avesse telefonato e nessuna classifica l’annoverasse nella top dieci; dopo aver setacciato tutte le librerie di Gambettola e dintorni aveva anche scoperto che il suo giallo non solo non era a scaffale, ma non era nemmeno prenotabile, perché non distribuito: gli unici canali di vendita erano il sito Pagliaccioedizioni.it e Amazon. Tesissima in faccia e nei nervi, le cinquanta copie le aveva subito nascoste in garage, distribuendole a cinque a cinque nelle scatole di scarpe. Col marito acqua in bocca anche stavolta; avevano cenato col sottofondo mercantesco di Affari tuoi e i rutti di lui. 

Le successive settimane erano trascorse nell’anonimato: al lavoro si era riscoperta motivatissima nel gestire partite doppie e fogli Excel, dall’editore non ci era più andata e lui non s’era fatto sentire; gli aveva pagato i duemila e ottocento euro con un bonifico istantaneo, e da quel momento Morire d’estate era sprofondato nell’oblio; non c’erano state presentazioni né altro, niente di niente. Aveva quindi venduto su Subito.it il Lenovo con le prime pagine del secondo romanzo comprese nel prezzo, smettendo così di scrivere per sempre.

Di sera, adesso, stava ben volentieri sul divano assieme al Nuovo Pino, muta e musona. Subentrava quantomeno un aspetto positivo: pian piano, dal distacco dalla letteratura stava ricavando una sensazione cosmica; si specchiava nell’immagine di un satellite che si svezza dal suo pianeta, volenteroso di smarrirsi nell’infinito a perdita d’occhio. Ma cosa significava? Non lo capiva. Nel coordinare le idee su come spendere il ritrovato tempo libero si era data appuntamento con Giovanna al Bar Giambellino; solite chiacchiere vuote, finché la donna non le aveva raccontato di un sogno fatto la notte precedente: si trovava di nuovo alle scuole superiori, impreparatissima per l’esame di maturità; provava a studiare in tutta fretta, con affanno, ma poi s’accorgeva che le superiori le aveva già finite molto anni prima e che era un bel pezzo più in là, adesso, nella sua vita, laureata, lavoratrice, autrice truffata… Giovanna le aveva domandato come si era sentita nel sogno, e la donna aveva risposto che l’aveva impressionata il concetto di soglia, ovvero l’esame di maturità come punto di mezzo fra il prima, cioè la scuola, e tutto il dopo. Accorgersi d’aver chiuso da mo’ quel capitolo le dava sollievo, però insieme s’era percepita sparata lontano dalla sua giovinezza. Non che fosse un male; dopotutto la giovinezza l’associava proprio al turbamento della scuola dell’obbligo, quindi alle ansie di sottostarsi, però un po’ le dispiaceva non esser più ragazza, ma, appunto, donna. Giovanna le aveva detto che niente è solo positivo o negativo, e le era tornata in mente la massima dell’editore: nessuno è del tutto sano o del tutto malato. 

Dopodiché Giovanna, nel tentativo di tirarla su di morale, le aveva parlato dello yin e yang cinese, consigliandole la lettura de Il libro della via e della virtù, di Tao Tê Ching, a detta sua la miglior guida spirituale sul mercato; da lì, da una massima taoista all’altra Giovanna era poi transitata con vaghezza e approssimazione al tema della spiritualità, confondendola a tratti con lo spiritismo: era stata da un mago a farsi asportare una verruca, aveva accennato a sedute con la tavola Ouija, a tarocchi e a spiriti che infestavano case usando un tono realistico ed esoterico insieme. A proposito di soglia, sentiva di averne varcata un’altra, per entrare in una nuova fase: la sua vita, si era detta, si poteva già dividere in un pre spiritualità e in un post. 

Una sera che il Nuovo Pino era allo stadio, leggendo Il libro della via e della virtù stesa a letto aveva ricevuto un soffio d’aria proveniente da dietro, dritto sul fondoschiena; le era parso evidente che fosse opera di un fantasma benigno. Non si era voltata, sia per paura sia per non rovinare l’atmosfera. Non è tutto. Certi pomeriggi, dopo il lavoro, andava al parco Fellini, si stendeva a pancia sotto e accarezzava i fili d’erba uno a uno, volendo loro un gran bene. In più salutava i moscerini come fossero esseri senzienti e beveva acqua dalle fontanelle pubbliche; la faceva sentire parte del tutto, anche se le provocava meteorismo. Si gustava percezioni sensoriali un po’ drogate, motivo per cui la materialità delle cose che la circondava perdeva via via di senso. Era stata atea e comunista in passato, mai errore più grande. Finalmente riconosceva di avere radici cattoliche e leggeva, accantonato Tao Tê Ching, gli scritti di San Paolo. 

Scontato dire il Nuovo Pino non s’era accorto nemmeno di questa fase della moglie. Lui non aveva periodi, era sempre lo stesso uomo insassato. 

Giovanna, il gennaio dell’anno dopo era morta di una malattia che non aveva confidato a nessuno e la donna, stupita di aver avuto un’amica che le nascondeva i segreti quanto lei, consumate le ferie di Natale in un all inclusive alle Canarie godeva adesso, nel pieno dell’inverno, di un equilibrio; nemmeno aveva pianto al funerale di Giovanna, tanto sapeva che si sarebbero rincontrate, un giorno, in forma celeste al Bar Giambellino di un’altra dimensione. 

Esistono storie che non hanno una fine, e questa è una di quelle. La donna, nei mesi successivi era passata dall’equilibrio allo stallo emotivo, quasi avesse raggiunto il limite della consapevolezza. Sapeva cose che gli altri non sapevano e non poteva riferire?

Da un documentario visto su Raiplay si era riconosciuta in Fellini, che s’era visto negare due film da certe presenze poiché, così si diceva a Cinecittà, si era spinto troppo in là. I colleghi, i parenti e chi la vedeva in giro notavano in lei una gran pace; era piatta nell’umore, distaccata, accettava ogni scocciatura e assumeva decisioni con leggerezza, guidata da un istinto puntuale. Un dipendente della vetreria, addetto dell’ufficio logistica, in pausa caffè aveva sparlato di lei a due fornitori, dicendo che secondo lui sarebbe scomparsa di punto in bianco rapita dagli ufo. 

Ci fermiamo qui, non serve sapere altro, quel che conta è già stato detto. Il finale è dunque il seguente: sette anni dopo il Nuovo Pino, nella sua unica e irripetibile performance di messa in ordine del garage in due decenni di matrimonio, per sbaglio aveva aperto una scatola di scarpe trovandoci dentro Morire d’estate, di una certa Simona Stabilini. Si era inorgoglito al punto che un sorriso lungo quanto una tangenziale gli aveva pervaso la faccia, riducendo l’impatto del naso e riscrivendo il bilancio dei suoi lineamenti. Col libro in mano era corso su per le scale e, raggiunta la donna, impegnata ai lavelli dove sciacquava via la pelle da un polpo, mostrandole il libro aveva detto: «Visto, Simona? Esiste una scrittrice tua omonima!». Lei l’aveva guardato per tutto un minuto, fisso negli occhi, e si era voluta bene più che mai, conscia che pochissime donne detengono la sopportazione che serve per accettare in sorte un bradipo del genere; poco dopo le loro bocche erano entrate in contatto per un lungo bacio di lingua, e lì aveva riassaporato la punta del naso di lui bucarle gli zigomi. Più tardi, a letto, gli aveva ordinato di soffiarle sul fondoschiena nudo e lui aveva obbedito. 

L’editore dai capelli rossi aveva subito ammainato un’altra autrice novella, e coi duemila e ottocento euro ricevuti anche da questa s’era valso di un mese da nababbo in Riviera, tra spaghetti con le vongole e pomeriggi ammollo nella mucillagine di Igea Marina. Erano state le sue ultime gioie, però: la Pagliaccio Edizioni aveva chiuso i battenti sei mesi dopo. Non conosciamo né la causa, né che razza di futuro avverso gli sia toccato. Che avesse intercettato anche lui segnali ultraterreni, ma rivelandoli poi a qualcuno? 

Dopotutto anche questo racconto, lo garantisce il sottoscritto narratore, ha ricevuto vari ostacolamenti da quando ho messo nero su bianco la parola “spiriti”; non si è trattato di sabotaggi tecnici, tipo il computer che di botto si spegne senza salvare, ma piuttosto di deficit di volontà, di secchezza nelle energie e quindi di un’indotta flemma e totale inerzia. Ho faticato molto per concludere il lavoro, che vi piaccia o meno questo è il risultato. Non sfiorerò mai più temi del genere, non voglio scomodare certi sopraelevati ambienti. In più mi son reso conto che se in passato ho stintignato per portar su carta storie simili, è perché contenevano passaggi parimenti indicibili. Darsi la zappa sui piedi non è intelligente, né scrivere controvento: meglio lasciarle in pace certe idee, non dirle e non scriverle. In quanto “anima”, lei è l’unico valore di questo testo, il resto conviene dimenticarlo, dedicarsi ad altro, tutto ma per favore non l’editoria.

 

“Colui che sa non parla;
colui che parla non sa.”

 

Il libro della via e della virtù, capitolo LXXXI

Tao Tê Ching

Immagine generata con AI generativa di Adobe Photoshop

“dipinto ad olio astratto che rappresenta lo ying e lo yang”