Il pasto difficile

Noialtri che lo frequentavamo ci eravamo accorti da un po’ di tempo che Vanni non stava benissimo. Da diversi mesi deperiva a vista d’occhio – era sempre più magro e pallido, aveva sfoghi in tutto il corpo, e due pasti su tre li concludeva correndo in bagno a vomitare. Catastrofico come al solito, il suo primo pensiero era stato: ho un cancro. Andò a farsi le analisi, ma non c’era traccia di neoplasie. I medici però gli dissero che qualcosa comunque non andava, e lo riconvocarono per altre analisi. Si trattenne in ospedale una settimana, senza dare aggiornamenti o notizie, se non che era vivo. Ci convocò infine – non tutti: pochissimi intimi – al McDonald’s di Via Ugo Bassi, dove ci trovavamo a pranzo da ragazzini quando uscivamo da scuola, promettendo notizie importanti.

Gli intimi di cui sopra, cioè io – che mi chiamo Fabrizio – nonché Isabella e Paolina, arrivarono prima, e mentre aspettavamo a un tavolo studiatamente appartato, andai a ordinare la cena – le ragazze si limitarono a chiedermi una porzione piccola di patatine fritte. Tornai col vassoio pieno e prima ancora di sedermi sganciai la porzioncina davanti a Isa e Pol, dicendo:

«Non cominciate con la gnegna che quando vado al Mc sembra che metta da parte il cibo per le mie tre famiglie in Angola. È razzista, è colonialista, ed è pure vecchio. Me la dicevate al liceo. Adesso che abbiamo trent’anni state zitte e mi lasciate mangiare senza sensi di col…»

Isa mi tira la camicia, interrompendomi. Seduto al tavolo davanti a me c’è Vanni, le mani in grembo, livido e immobile.

Siedo anch’io, cercando di non far cadere il vassoio.

«Ciao Vanni. Non ti ho mica visto entrare quando ero al bancone»

«Eh, c’è molta gente oggi» commenta Pol.

E in effetti i tavoli accanto a noi sono pieni di gente – marmocchi delle medie coi cellulari brillantinati, coppiette di liceali che lei parla parla parla e lui si chiede quando ci chiudiamo a scopare, compleanni di bambini. Paradossalmente c’è talmente tanta gente in giro che potremmo parlare di overdose di eroina e nessuno ci farebbe caso.

Sotto il faretto a incasso del soffitto, che gli fa piovere sopra un cono di luce, Vanni sembra un attore che sta per fare un monologo in un teatro off alle tre di notte. Apre la sua borsa a tracolla. Dentro si vede un plico di documenti pieni di foto, lastre, analisi e resoconti.

«Il parere è definitivo» dice. «Non ci sono più dubbi».

Per il nervoso, ma pure perché è ora di cena, io attacco il primo burger. Una volta che abbiamo escluso il cancro – e l’abbiamo escluso, poche pippe – ho perso il novanta per cento della mia preoccupazione. In cuor mio sento che il problema non è grave. Sarà la solita menata che Vanni è allergico a qualcosa. Tipo il glutine. Va di moda, il gluten free.

«Dunque. Voi ricordate che io sono stato ricoverato perché negli ultimi mesi non riuscivo più a mettermi niente in bocca senza vomitarlo dopo qualche ora. Esclusa ogni sorta di neoplasia, ma anche di malformazione o malfunzionamento del mio apparato digerente, abbiamo fatto i test per le allergie. E questo è stato il primo indizio che c’era qualcosa di strano» 

«Sei allergico a qualcosa?»

«Non sono allergico. Sono intollerante»

«Tipo, al glutine?»

«Al glutine, ma non solo. Anche al lattosio. Ai carboidrati. Agli zuccheri semplici e complessi. Ai vegetali di qualunque tipo. Alle vitamine. A quasi tutte le proteine conosciute, ai grassi, al fruttosio, a tutto. Sia crudo che cotto».

Inarco un sopracciglio.

«Intollerante nel senso che non lo riesci a digerire?»

«Esatto. Mi hanno fatto l’esempio degli animali. Noi esseri umani siamo onnivori, cioè produciamo enzimi in grado di digerire un po’ di tutto, sia carne che vegetali, frutta, latte e compagnia cantante. Ma esistono in natura carnivori ed erbivori obbligati, cioè animali che non possono nutrirsi di piante o di carne, se non in rarissime occasioni, perché, bè, non hanno i meccanismi giusti per digerirli.

«E tu sei diventato… così?»

«Hanno rifatto le analisi della mia saliva, dello stomaco e dell’intestino. Questa volta su base chimica. La mia flora batterica è completamente scomparsa, sostituita da altri tipi di microorganismi. Tutto l’apparato di enzimi, tutti gli acidi dello stomaco, tutto quello che dovrei avere o non ce l’ho più, o è diverso da come dovrebbe essere».

Attacco il secondo burger, un po’ turbato. Isa domanda:

«Ma scusa, Vanni, se non puoi mangiare niente di quello di cui sopra… cosa puoi mangiare?»

«Eh, infatti» interviene Pol. «Le cose che hai elencato prima sono, tipo… l’alimentazione umana. Ma pure di qualunque vertebrato o invertebrato. Non è che adesso sei autotrofo come le piante?»

Vanni si mette la faccia nella coppa delle mani e reprime un gemito.

«L’ultimo esperimento il medico lo ha fatto quasi per scherzare. O perché non sapeva che altro fare. Ha messo in coltura le cellule dello stomaco che producono i miei enzimi digerenti, e ci ha messo un pezzo di fegato di un paziente morto poche ore prima. Il fegato era inutilizzabile per il trapianto perché il tizio era un alcolizzato»

«E quindi?»

«E quindi i miei enzimi lo hanno tranquillamente decomposto e trasformato in chimo. Ci hanno riprovato con gli enzimi del mio intestino. Regolare trasformazione in chilo e separazione delle scorie. È l’unico tipo di cibo che non abbia provocato reazioni di rigetto». Rimaniamo in silenzio. La radio del locale sta passando Shakira. Smetto di masticare il burger, sempre più turbato. «E quindi, Vanni…?» «E quindi sono un cannibale» conclude lui.

Lo guardiamo per un intero lunghissimo minuto.

«Vanni, tu stai scherzando»

«No. Ve l’ho detto, c’è stato un cambiamento radicale nel mio apparato digerente. Forse è una malattia genetica e ce l’avevo dalla nascita, e colpisce solo ora – non lo sanno. Ci stanno lavorando. Ma il punto fondamentale resta. L’unico tipo di sostanza nutritiva che il mio apparato digerente riconosce ed è in grado di processare – e pare lo faccia molto bene – è la carne umana».

Inghiotto l’ultimo pezzo del burger. Questo è complesso, come problema, penso attaccando le patatine.

«Scusa, come fa a distinguere la carne umana da, che ne so, quella di un vitello?»

«I miei enzimi riconoscono il genoma umano. Sono settati apposta per rintracciare specifici marcatori che hanno solo il nostro DNA. Non chiedermi come»

«Ma tipo, tutta la carne umana?» chiese Pol.

«Sì»

«Scusa, spero non la tua»

«Oh, no. Abbiamo fatto anche questo test. Gli enzimi riconoscono le cellule che vengono dal mio corpo e non le toccano. Qui c’è scritto che le mie cellule producono una molecola specifica che disattiva l’enzima. Altrimenti mi sarei già digerito da solo. Per il resto non si butta via niente, né crudo né cotto. Organi, sangue, pelle. Persino il cervello»

«Cristo santo» esclamo mettendo una patatina nella salsa in agrodolce. «Non solo sei un cannibale. Sei un cannibale obbligato. Sei fatto apposta per il cannibalismo»

«Esatto» grida Vanni disperato, e per un attimo qualche testa attorno a noi si volta. «Fabrizio, io non so più che fare, capisci». Gli si riempiono gli occhi di lacrime. «A chi dirlo a parte voi tre, come dirlo, a chi rivolgermi. Mi sembra di vivere in un incubo».

Isa gli mette la mano sul braccio. Vanni si volta, lo sguardo allucinato.

«A parte questo, sei completamente sano?»

Vanni sembra non capire la domanda. Poi risponde:

«Sì. Sì, nessun’altra patologia. È come quando si diventa intolleranti o allergici a qualcosa. Non è che ci nasci, un bel giorno ci diventi e ti cambia la vita, non puoi più mangiare la pasta o le fragole, o bere il latte. Nel mio caso, posso mangiare solo un tipo di carne al mondo»

«Cosa succede se mangi altro?»

«Lo vomito o lo caco intero» conclude lui. «Il mio apparato digerente lo tratta come se fosse un oggetto non commestibile. Come se mangiassi delle palline di ferro».

E scoppia a piangere sulla spalla di Isa, che prende ad accarezzargli la testa.

«Vanni, stai calmo. Intanto abbiamo appurato che non sei moribondo. Sei vivo e stai bene. Mi pare che questo sia un buon punto di partenza»

«Sono un cannibale» singhiozza lui, le parole camuffate dalle labbra che premono sul maglione di Isa. «Sono un mostro. È come nei film».

Vorrei aprire bocca, ma non mi viene da dire niente di sensato.

Cerco di dare un senso a ciò che ho sentito e non ci riesco. Attacco a mangiare le crocchette di pollo, innaffiandole con un litro e mezzo di coca cola. Dio santo. Un cannibale. Il primo vero cannibale della storia umana. Un sacco di animali, e pure noi, ogni tanto mangia esponenti della propria specie. Succede e di solito non ci muore nessuno (a parte il mangiato). Ma Vanni può fare solo quello.

«All’ospedale che ti hanno detto? Sul tuo futuro, intendo» chiede Pol, a braccia conserte e allontanandosi un po’ con la sedia.

Vanni si rialza dalla spalla di Isa, gli occhi gonfi come cipolle e il volto arrossato e umido di lacrime. Si soffia il naso.

«Per ora mi tocca una fornitura settimanale di… cristo santo, di carne umana. Gente morta sotto i ferri, o per un incidente – gente che non va bene per i trapianti. Naturalmente le famiglie dovranno firmare dei moduli, per il consenso informato. Me lo immagino, il frasario del modulo. Signora, autorizza il signor Giovanni Santoriello, affetto da cannibalismo congenito, a cibarsi del cadavere di suo marito? Cristo, cristo, cristo»

«Ma stanno ancora studiando il tuo caso?» chiede Pol, a braccia conserte e sopracciglia aggrottate, ispezionando Vanni a distanza come se fosse una grossa blatta.

«Sì, certo. Ma chissà se troveranno mai un rimedio» singhiozza Vanni, e si rimette a piangere a dirotto. 

Io inghiotto l’ultima crocchetta e decido che è il momento di agire.

«Vado in bagno» esclamo. «Dopodiché andiamo tutti a casa mia e continuiamo la discussione in privato. Va bene? Perché mi sembra che qui non ci sia l’atmosfera»

Pol mi ignora; Isa fa sì con la testa; Vanni risponde che va bene. Poi si porta una mano alla fronte, e sembra indebolirsi.

«Vanni, che c’è?» chiede Isa.

«Scusate» risponde lui riaprendo gli occhi. «Non mangio da due giorni».

«Quando ti arriva la prossima dose?» s’informa Pol.

«Mercoledì pomeriggio. Purché almeno una delle famiglie firmi il modulo. Se rifiutano tutte sono fottuto».

Sbianca e cade di lato; Isa è lesta ad afferrarlo. Gli do buffetti sulle guance finché non riapre gli occhi.

«Che succede?» dice.

«Succede che è un brutto momento e tu non stai bene, Vanni. Dai, tutti a casa da me. Questo non è il posto per parlarne»

«Magari però non da te, Fabrizio: a casa sua» ribatte Pol inarcando un sopracciglio, «dove possano raggiungerlo dall’ospedale. Immagino che avranno il suo indirizzo. Metti che arrivi una… fornitura» conclude arricciando il nasino a patata.

«Casa sua è lontana» sottolinea Isa.

«Prenderemo un taxi» rilancia Pol.

Isa allora si alza, permettendo a Vanni di appoggiarsi a lei; e dopo una veloce puntata al bagno perché ho le mani lerce, usciamo dal McDonald’s, io e Isa ciascuno su un lato di Vanni che cammina con grande fatica, e Pol dietro di noi che fissa Vanni, inclinando la testa ora a destra, ora a sinistra. Ci vuol poco a trovare un taxi tra quelli in attesa nella piazzetta vicina; tra l’altro ha iniziato a piovere a dirotto.

Il taxi attraversa la città fino al quartiere nuovo, quello coi grattacieli. Si ferma in una strada larga come una balena, bersagliata da una miriade di gocce d’acqua gelata. Le insegne dei negozi e gli schermi pubblicitari illuminano a giorno il marciapiede pieno di buche e pozzanghere. Vanni ci dà le sue chiavi, entriamo dal portone, saliamo in ascensore al centoduesimo piano. Vanni era così contento di potersi permettere l’appartamento qui nella Manhattan dei poracci, il meglio quartiere della nostra città. Non ha finito di arredarlo – ma ha fatto in tempo a mettere il lettone a due piazze proprio sotto i finestroni mitragliati dalla pioggia. Sopra le cime dei grattacieli scorrono nuvole rosa sporco.

Al chiudersi della porta dietro di noi, chiedo:

«Vanni, ti senti di stare alzato ancora un po’? Hai bisogno di qualcosa?»

«Se rimanete un po’, mi fa piacere» risponde lui con un filo di voce. «C’è del vino in frigo, se lo volete. Mi fate il favore di chiamare l’ospedale e dire che sto cedendo prima del previsto? Io davvero non mi sento le forze. Ho un mal di testa terribile»

«Il brufen lo puoi prendere?» chiede Isa.

«Sì. Ma funzionerebbe meglio a stomaco pieno»

«Magari ti metti a letto? Noi comunque restiamo e chiamiamo l’ospedale»

«Sì. Sì, grazie. Trovate tutto nella mia borsa» risponde lui con gli occhioni da cucciolo di foca.

Mentre Isa e Pol si ritirano in cucina con la borsa di Vanni e chiudono la porta, io lo aiuto a spogliarsi e lo faccio accomodare a letto. È ancora molto agitato, pare di spostare le braccia e le gambe di una bambola di legno. Gli tengo la mano mentre mormora frasi incoerenti, ogni tanto fermandosi a guardarmi, e chiedendomi di non lasciarlo solo. A un certo punto, sfinito dal pianto e dalla fame, si addormenta. Spengo la luce sul comodino e sgattaiolo in cucina, dove trovo Isa e Pol sedute al tavolo mentre consultano i documenti nella borsa di Vanni. Sparse sulla superficie di legno giacciono alla rinfusa diversi fogli, foglietti, graffette e carpette di plastica. Isa ha inforcato gli occhiali per vederci da vicino.

«Qui dice che in caso di sintomi d’inedia bisogna contattare questo numero».

Me lo mostra, annotato a penna su un foglio.

«Credo sia l’ospedale. Forse hanno delle scorte per le emergenze».

Pol batte una mano sul tavolo.

«Non chiamiamo un bel niente».

Si volta verso di me.

«Dorme?»

«Sì» rispondo sedendomi. «Perché non vuoi chiamare l’ospedale? Non sono un medico ma mi pare che Vanni abbia bisogno di attenzioni. Magari pure psicologiche. Magari non sta veramente morendo di fame ma è talmente scosso che somatizza. Che ne so».

«Magari mentre dorme ce ne usciamo, dopo avergli preso cellulare e computer, e lo chiudiamo dentro casa. Anzi, dentro la camera da letto» dichiara Pol. 

Isa la guarda con orrore.

«Ma sei scema…? Se non riesce a uscire da solo morirà di fame e di sete».

«Brava. È esattamente quello il punto».

Silenzio.

«Pol. Perché vuoi ammazzare Vanni…?» chiedo, innocentemente.

«Quello non è Vanni. Io conosco Vanni da quando eravamo all’asilo. Una buona forchetta, gioviale, cortese. Uno che oggi, se fosse ancora Vanni, si sarebbe mangiato il doppio di quello che hai ordinato tu dal Mc, e una banana split per soprammercato. Quello che dorme nel suo letto è un mostro che mangia la carne umana. E prima che si mangi me, te, Isa e chissà quanti altri, io prendo l’iniziativa e lo lascio crepare»

Ancora silenzio. Isa si alza coprendosi la bocca con la mano, e si allontana rapidamente verso la finestra. La pioggia è improvvisamente più violenta.

Placidamente, argomento:

«Pol, due problemi. Primo: questa cosa si chiama omicidio, e se ci scoprono andiamo in galera – e non c’è verso che non ci scoprano. Secondo: sarebbe un attimo il nostro amico più caro, che ci ha appena fatto una durissima confessione. Ci penserei un po’ prima di chiuderlo in camera a morire di fame».

Pol arriccia il naso e risponde:

«Primo: sarebbe omicidio se quello fosse un essere umano. Non lo è più. È un mostro che alla prima occasione ti mangerà. Secondo: il mio amico più caro, Vanni, lo considero morto nel momento in cui ha subito una mutazione che lo rende un mostro. Non pensare che io non ci soffra, quanto se non più di te. Ma ahinoi, il buon senso chiama. Penserò a elaborare il lutto per il mio amico quando sarà nella bara e non potrà più far male a nessuno».

Isa torna a precipizio dalla finestra e sbatte i pugni sul tavolo.

«Pol, perdio, è un cannibale obbligato, non uno zombie o un cane con la rabbia. La testa ce l’ha ancora tutta. I suoi sintomi sono sintomi di denutrizione, non di follia. È semplicemente… non direi nemmeno malato. È… diverso. È come quando un amico ti finisce in sedia a rotelle, o diventa cieco, o perde un braccio. Il danno è tutto suo, a noi non resta che aiutare per quanto possiamo. Non è che adesso ci mettiamo a bruciare vivi gli amici disabili».

«Un amico in sedia a rotelle non proverà a mangiarti vivo quando ha fame. Vanni sì».

«Ma che discorsi sono. Tu quando hai fame e mi vedi con un panino in mano, mica me lo mangi con tutto il braccio. Semmai te ne fai uno tuo».

«Vanni non ha fame di carne umana come io avrei fame di prosciutto. Io non ho mai avuto veramente fame in vita mia, e nemmeno voi. Se ho voglia di prosciutto, me la cavo con un giro al supermercato. Lui per una dose di stomaco umano, o di cuore, o di polmoni, deve aspettare che la famiglia di un morto accetti di dare in pasto il proprio caro a un mostro antropofago. Tu capisci che Vanni avrà molte poche occasioni di fare un pasto regolare nei prossimi anni. E sai benissimo cosa succede a una persona denutrita – finisce con l’ossessionarsi al cibo, e tutto il resto perde di importanza. Se stai morendo di fame, vedrai che pur di rubarmi un panino al prosciutto mi ammazzerai, fossi pure tua madre. E credimi: arriverà il giorno che Vanni, logorato dalla malnutrizione, addenterà il primo stronzo che gli capita a tiro»

«Ma che ne sai che non riuscirà a mangiare regolarmente. Gli hanno diagnosticato questa specie di cannibalismo qualcosa come due giorni fa, Pol, dopo una settimana e passa di analisi e controanalisi. È un caso unico. Centinaia di medici lo studieranno. Si occuperanno delle questioni pratiche, ovviamente, come nutrirlo e tutto – magari sintetizzeranno le proteine della carne umana e le metteranno in pillole, come quando devono far prendere ai vegani il ferro e la vitamina B12 della carne bianca. Siamo appena a inizio percorso e tu già prevedi che finirà in disastro».

«Perché è così che finirà, Isa. Gli studi scientifici durano anni e contano prove fallite, vicoli ciechi ed errori. Il metabolismo di Vanni è ancora umano – non potrà sopravvivere senza cibo per più di… che ne so, una settimana. Forse un mese, se beve molta acqua – sempre che possa ancora bere acqua, o se adesso gli toccherà bere sangue come i vampiri. Molto presto sarà pazzo per la fame, e in un ospedale! Circondato da persone malate, deboli, incapaci di difendersi – da bambini, Isa. E tu vuoi lasciarlo in vita? Io vorrei soffocarlo con un cuscino. Mi fa ribrezzo».

Ma mentre lo dice ha le lacrime agli occhi, e si capisce che il Vanni che conosce dall’asilo è ancora lì che ingombra i suoi pensieri, a dispetto di tutti i referti sul tavolo, che – a quanto ho potuto leggere mentre Isa e Pol bisticciavano – confermano quanto Vanni ci ha detto poco fa. Il nostro amico è il primo caso conosciuto al mondo di cannibalismo obbligato.

Isa e Pol continuano a discutere, ma a bassa voce, e così riesco a sentire – nonostante la pioggia fitta – il grido di Vanni:

«Fabrizio!»

Mi alzo, torno in camera da letto. Vanni è sdraiato dove l’ho lasciato, sotto le coperte e al buio. Gli vedo da qui gli occhi spalancati.

«Mi sono svegliato» sussurra. «Ho avuto un incubo. Ho i crampi allo stomaco, mi scoppia la testa. Ho tanta paura, Fabrizio. Ti prego, resta qui un poco».

Mi siedo sul letto accanto a lui e gli prendo la mano.

«Adesso chiamiamo l’ospedale e gli spieghiamo cosa c’è che non va» gli mormoro. «Andrà tutto bene. Loro sapranno cosa fare e starai meglio».

Tiro fuori il cellulare e digito il numero, sotto i suoi occhi.

«Vedi? Li chiamo ora. Stai tranquillo, Vanni».

«Sono un mostro» sussurra lui, allucinato. «Mi faccio ribrezzo».

«Sei solo finito in una brutta situazione» lo correggo stringendogli la mano mentre il telefono squilla. «Non c’è ancora niente di irreparabile e per quanto mi riguarda non sei nient’altro che Vanni. Il solito Vanni».

«Ci sono degli antidepressivi nell’armadietto del bagno» continua. «C’è anche del Lorazepam. Se li prendo tutti insieme mi schianteranno a dovere».

«Non diciamo cazzate».

Mi risponde un medico dell’ospedale. Gli spiego la situazione. Lui ovviamente ha presente il caso di Vanni e dice che farà venire un’ambulanza. La conversazione avviene tutta in viva voce, perché voglio che Vanni senta. Quando butto giù, gli dico:

«Visto? Adesso viene l’ambulanza. Ti ricoverano».

«Oh, Fabrizio. Che cosa mi è successo? Perché a me? Perché questa disgrazia?»

«Non sappiamo ancora niente di definitivo, Vanni. Ti hanno diagnosticato una malattia strana, ma non terminale. Il futuro è ancora tutto da scrivere».

«Una settimana fa ero felice» sussurra lui fissando il vuoto. Poi mi stringe convulsamente la mano.

«Fabrizio: dammi le pillole. Così me ne vado tranquillo. Non vi metterò nei guai. Se vuoi firmo una confessione, per scagionare te e le ragazze».

Mi indispettisco.

«Vanni, per l’amor del cielo: chiudi il becco. Io vorrei capire perché tra te e quelle altre due state piantando questa scenata. Dio cristo, il melodramma che riuscite a fare. Cerca di essere lucido per cinque secondi di fila. Hai un problema medico. La tua vita sarà più difficile nei prossimi anni. Bene! Insieme faremo i conti con questa cosa, vedremo come adeguarci. Adesso datti una calmata o giuro che comincio a cantare».

Vanni mi stringe per il colletto della camicia:

«No…!»

«Canto Come notte a sol fulgente, quella del Nabucco. A cappella. La vuoi sentire?»

«No Fabrizio, ti prego! La canti da schifo!»

«Embè? Mi piace cantarla».

«Sì, ma suona veramente orrenda come la fai tu».

«Vuoi che stia zitto?»

«Voglio che non canti Come notte».

«Facciamo che io non la canto e tu la pianti di chiedermi di suicidarti, sì?»

Suo malgrado, gli scappa una risatina – debolissima, un singhiozzo; sembra rilassarsi. Si porta una mano alla fronte.

«Che sfiga, Dio cristo».

«Ecco. Su questo, sono d’accordo» rispondo mentre mi vibra il cellulare con il numero dell’ambulanza.

Immagine generata con AI generativa di Adobe Photoshop

“dipinto ad olio in stile surrealista di un apparato digerente”