Il pappagallo Vivaldi
Guglielmo è un padre giovane, figlio di un padre vecchio. Carlo gli ha chiesto perché ai compagni sia toccato un nonno che li aspetta al cancello della scuola, a lui il ricordo di una barba lunga. Guglielmo gli ha risposto che sono cose che capitano. A volte, un padre diventa ricordo prima di invecchiare in un nonno.
Oggi Guglielmo ha fatto sedere Carlo davanti, e Carlo ne è felice: può spostare il sedile con i comandi automatici, può guardare oltre il parabrezza e sentire che sta contribuendo alla guida. Davanti Carlo è quasi un adulto. Dietro, rimpicciolisce: vorrebbe togliersi la cintura, sdraiarsi e occupare il vuoto in eccesso. Allora si concentra sul finestrino, popolando il paesaggio di Velociraptor che saltano da un tetto all’altro a tempo di musica, o che, durante i viaggi estivi in Liguria, corrono sulla strada bollente più veloci delle auto. Questo quando è da solo. Se ci sono gli amici di scherma, i venerdì in cui Guglielmo li accompagna in palestra, fa l’educato e si mette nel posto di mezzo, dove sta stretto pure lui che ha le gambe brevi, tutte ossa.
Guglielmo guarda fisso davanti a sé, tiene la destra sul freno. Espira a lungo dalle narici. Carlo non dice nulla, vuole essere un buon compagno di posto davanti. Pensa al tragitto: curve lente giù dalla collina, poi un rettilineo di semafori fino a casa di mamma. Guglielmo estrae un blister dalla tasca della giacca. Adagia una pastiglia sotto la lingua. Infila il blister tra fazzoletti e gomme nel portabicchieri, lo riprende in mano: seconda pastiglia. Mette in moto.
Guglielmo è taciturno la domenica sera. Carlo ci è abituato. A lui però il silenzio non piace, così si prepara degli argomenti con cui riempirlo. Di solito, curiosità sugli animali. Ha imparato a leggere su un’enciclopedia naturalistica per bambini, attratto dalla foto di un puma in copertina, e da allora ha accumulato nozioni sulle specie: può distinguere la salamandra gigante cinese da quella giapponese; conosce le strategie di caccia delle megattere; sa che i lupi uccidono per fame e che nessun animale è cattivo. Nelle passeggiate che facevano insieme a mamma fino all’anno prima, piene di verde e moscerini, Carlo interrogava Guglielmo su impossibili sfide zoologiche: chi avrebbe vinto tra un ippopotamo e un cobra? E tra un coccodrillo e un orso polare? Guglielmo diceva che quelle erano domande da bimbi. Carlo insisteva.
Già allora, mamma e Guglielmo si parlavano poco, e se si tenevano per mano lo facevano con Carlo nel mezzo. Mamma diceva: stai al gioco, e fingeva di spingere Guglielmo nel Po. Lui si girava di scatto con un ringhio sul volto. Poi il ringhio si addolciva, Guglielmo accarezzava la nuca di Carlo. Rispondeva: l’ippopotamo; l’orso; a volte: non lo so. Un giorno le passeggiate si sono interrotte. Carlo ha iniziato scherma e ha smesso di fare domande. Ora che sa cosa significa perdere, non vuole più pensare agli animali sconfitti.
Mentre l’auto è ferma al secondo semaforo, Carlo sta spiegando a Guglielmo che uccelli e dinosauri sono parenti, e che i dinosauri avevano quasi di sicuro le piume. Terzo semaforo, quarto. La preistoria è una delle specialità di Carlo. Gli piace perché è come una fiaba in cui i draghi sono esistiti davvero. Passa ore nel letto con il telefono in mano, sul browser una pagina di Wikipedia dedicata a creature estinte che, dopo essersi addormentato, sogna di addomesticare. Stanotte ha volato sopra Torino sul dorso dell’Argentavis.
Al quinto semaforo ne seguono un sesto e un settimo, poi una svolta a destra. L’Argentavis, spiega Carlo, era un avvoltoio dall’apertura alare di sette metri, vissuto in Argentina durante il Miocene. Nel sogno la sua sagoma faceva fuggire i metatheri tra i cespugli del Valentino. Ad alta quota, invece, Carlo non aveva niente da temere: allargava le braccia e un secondo paio d’ali scivolava sulla città in miniatura. Laggiù il fiume pareva disegnato con la matita azzurra, il faro della Maddalena assomigliava a un giocattolo; la scuola a un modellino, ed era un modellino anche casa, che quando è con Guglielmo Carlo chiama “casa di mamma”, quando è con mamma, e lei gli fa vedere le foto di un terrazzo e di una cameretta più grande, si sforza di chiamare “casa vecchia”.
Il traffico rallenta all’ingresso di Largo Vittorio Emanuele II. Carlo si allunga sul parabrezza: riconosce la zona, ma non capisce perché stanno passando di lì. Pensa che non può contribuire alla guida se non sa dove sono diretti.
«Non andiamo da mamma?» chiede.
Proseguono dritti fino a un grattacielo di vetro, girano ancora a destra. La corsia centrale è libera, Guglielmo accelera. Incomincia a parlare.
«Anche io ho fatto un sogno stanotte. Anche nel mio c’era un uccello bizzarro».
Si addentrano nel buio di un sottopasso, la macchina sbanda leggermente. Carlo sente il respiro fermarsi in gola, come quando nelle picchiate si aggrappava all’Argentavis per non cadere. Emergono alla luce su strade sconosciute.
«Un pappagallo» aggiunge Guglielmo.
Carlo gli chiede com’era fatto. I pappagalli sono molto diversi l’uno dall’altro, il che rende facile distinguerli.
«Era il pappagallo Vivaldi».
Per un po’ stanno in silenzio. Un cielo plumbeo nasconde il tramonto: presto la notte farà seguito al grigio. Carlo si sente preso in contropiede. Non conosce nessuna specie di pappagallo chiamata Vivaldi.
Guglielmo dice: «Quando ho saputo dalla mamma che vi trasferivate a Genova, per un bel pezzo non ho chiuso occhio». Si volta verso Carlo. Ha le pupille grandi e nere. «Tu ci vuoi andare, a Genova?»
Carlo pensa: Genova è lontana da tutti i miei amici, ma anche lì ci sono le palestre di scherma, e c’è un acquario in cui puoi toccare le razze. Pensa: squalo toro, pinguini, Caretta caretta. Starò più spesso con nonna. Dal terrazzo vedrò il mare.
Risponde: «Più o meno».
Guglielmo torna a guardare la strada.
«Stavo sveglio fino alle sei, poi andavo al lavoro. Un vero inferno. Il medico mi ha prescritto una medicina per dormire. Si scioglie sotto la lingua»
«È amara?»
«Sì, ma funziona».
Nel parabrezza compaiono i cartelli verdi dell’autostrada. I fanali illuminano un cemento sempre più buio. Carlo pensa che Guglielmo non parla mai così tanto, soprattutto la domenica sera, e che il fatto che parli dovrebbe essere una cosa bella; invece, è una cosa strana. Parla veloce, Guglielmo, parla come se avesse le caramelle in bocca. Carlo si perde qualche dettaglio.
«Ti racconto il sogno che ho fatto stanotte?»
«Quello sul pappagallo?»
«Sul pappagallo Vivaldi».
«Vivaldi è il nome proprio, vero? Perché una specie del genere non esiste. Ci sono il cacatua, l’ara, la calopsitta, l’amazzone, il lori, il lorichetto, la rosella, l’ecletto, il parrocchetto ondulato o cocorita, il grande alessandrino. Ma non il vivaldi»
«Sì, Carlo. Vivaldi è il nome proprio»
«Ma perché si chiama in quel modo?»
Guglielmo ci pensa su.
«Ancora non lo so. Forse ama la musica classica»
«Me lo descrivi? Così ti dico di che specie è».
Guglielmo mostra i denti come fanno le scimmie, Carlo non sa se il suo è un ringhio o un sorriso.
«Lasciami raccontare il sogno e te lo descrivo nei minimi dettagli. Promesso».
Carlo annuisce.
Guglielmo chiude gli occhi. Passano due secondi, tre, cinque. Li riapre.
«Ero in ritardo. Dovevo andare al lavoro in un’altra città. Dovevo prendere il treno. Però ero senza biglietto. Così vado alle macchinette, ma c’è una fila lunghissima: occupa tutta la stazione. A quel punto – lo vedo dall’alto, come succede nei sogni –, mi accorgo che la fila non ha inizio né fine, perché il primo segue l’ultimo. Va bene, penso, salirò senza biglietto. Pazienza se mi faranno la multa. Controllo il monitor: binario quattro. Mancano due minuti. Inizio a correre, ma le mani di quelli in coda mi trattengono. Credono che voglia fare il furbo! Io urlo: “No, vi sbagliate! Il mio treno sta per partire!” Tutto inutile. Per divincolarmi inizio a prenderli a calci, e appena libero mi precipito al binario. Inciampo, mi rialzo, salto sul treno già in movimento. Ho il fiatone ma sono felice. Ce l’ho fatta».
Il cellulare di Carlo vibra nei jeans: è mamma. Carlo si porta il cellulare all’orecchio, Guglielmo avvolge la sua mano intorno alla mano di Carlo, glielo prende. Dice alla voce di mamma: «Ce lo porto io a Genova». Carlo pensa: stiamo andando dalla parte sbagliata. Guglielmo tiene il volante con un avambraccio, abbassa il finestrino. La voce di mamma scompare alla svolta per Caselle-Leinì.
«Poi mi guardo attorno» continua Guglielmo. «Nel vagone c’è una folla in abiti sgargianti. Tutti stanno in piedi perché mancano i posti a sedere, tutti hanno il volto coperto da una maschera da animale. Di fianco a me c’è una donna-volpe. Le chiedo: “È questo il treno che va al lavoro?” Lei mi accarezza una spalla, dice: “Oh, povero caro, certo che no. Questo treno va allo spettacolo del pappagallo Vivaldi.” Indica un poster sul muro, dove un pappagallino bianco con la cresta rossa sta con il petto gonfio e le ali aperte al centro di un palco, circondato da ballerini mascherati. Prima che tu me lo chieda: il becco era nero, le penne delle ali gialle con le punte arancioni. Comunque. “Lei ha sbagliato binario” dice la volpe. “Doveva prendere il 4b. Questo è il 4a.” Fuori dal finestrino, il mio treno sfreccia parallelo a quello su cui sono salito».
Carlo pensa: nel telefono avevo le foto di Diano Marina. Marvel Snap. Pagine di Wikipedia aperte su: Argentavis, Miocene, Testudines. Un vocale di mamma che canta la sigla dei Pokémon. Si accorge di piangere. Pensa al pappagallo Vivaldi. Potrebbe trattarsi di una calopsitta, ma i colori sono sbagliati. Un pappagallo così non esiste. Forse solo nei sogni, o a Leinì.
«“Maledizione” dice un uomo dietro di me. Ha un completo gessato, la bombetta. Lo accompagna un collega magrissimo con gli occhiali. “Quando si separeranno i binari?” chiede. “Tra cinque minuti” risponde la volpe. “Allora ci tocca saltare.” L’uomo con la bombetta si fa largo tra la calca, apre la porta che separa il vagone dall’esterno. Io e il collega magro lo seguiamo. Lo incitiamo a prendere bene la rincorsa. Fanno il tifo anche la volpe, una lontra e un canarino. L’uomo spicca un salto: alto, altissimo, ma troppo in verticale, non abbastanza in lungo. Piomba sul ciottolame che separa i binari».
Qualcuno suona il clacson. Guglielmo preme il piede sull’acceleratore, l’auto supera a intermittenza la linea tra le corsie. Anche se è seduto davanti, Carlo cerca i Velociraptor nei campi alla sua destra.
«A quel punto» riprende Guglielmo stringendo forte il volante, «so che non arriverò in tempo al lavoro. Poco male. Parteciperò allo spettacolo del pappagallo Vivaldi. Mi chiedo che tipo di spettacolo sia, ma non voglio sapere nulla prima che si alzi il sipario. Intanto la volpe è scomparsa tra la folla. Quando torna porta con sé due maschere. Il collega indossa la sua, e noto che l’aspetto da corvo gli dona. Il mio animale non lo conosco. È una specie di riccio con il muso allungato. La maschera mi calza a pennello».
Carlo pensa: echidna. Si gira verso Guglielmo: un’espressione rilassata lo fa sembrare più giovane, quasi un fratello. Guglielmo richiude gli occhi, il mento gli scende docilmente sul petto. Inizia lo spettacolo del pappagallo Vivaldi.
L’Argentavis cala dal cielo in direzione dei campi. I Velociraptor scappano facendo ondeggiare le spighe.
Carlo rimane ad alta quota. Sta sospeso nell’aria senza paura.
Immagine generata con AI generativa di Adobe Photoshop
“dipinto ad olio in stile surrealista che ritrae un gruppo di velociraptor che corrono in autostrada”