I nostri giorni

La linea del mio addome è quasi dritta, più per genetica che per un mio reale impegno.

È quasi come la desideravo da adolescente, quando tutte andavano in giro con la pancia scoperta come Christina Aguilera. A differenza sua e delle altre, non avevo né coraggio né piercing. Nascondevo ogni parte di me dietro vestiti larghi mentre loro mostravano l’ombelico pronte a ricambiare lo sguardo dei ragazzi più grandi. 

Da una settimana la linea del mio addome è arretrata. C’è un pulsante che brucia a ogni ora e sembra alimentato dall’assenza.

Potrei indossare un top che ora va di moda come vent’anni fa ma mi manca ancora il coraggio e il brillantino al centro della pancia.

Le felpe sono state sostituite da camicie, le insicurezze sono migliorate, tranne oggi e forse domani. 

Gli orologi compiono giri a vuoto, la cassa toracica sembra in fil di ferro, e nella testa un pensiero insegue l’altro. È un tormento.

Quando qualcuno se ne va, la geografia impazzisce, non sai più dov’è. La mancanza è tutto quello che resta, è una patina grigia sugli oggetti, una pressione che viene meno sul petto, uno stordimento perpetuo. Anche la luce fuori sembra più fioca, anche se è estate.

La mancanza diventa inappetenza, il timore rende le carni tremule, gli occhi si velano. La vita fuori sembra oscena, fuori synch.

Stare in mezzo agli altri diventa un’esperienza extracorporea. Proprio come alla festa di compleanno di Mattia. Quasi tutte coppie, etero-gay-queer, tutti a parlare di progetti, convivenze, case comprate o da affittare, uno a un certo punto si è imposto sulla scena per dire che sta per diventare papà.

«Va be’ dai, se siamo in vena di annunci noi abbiamo appena rogitato» urla dopo un po’ un altro tirando sul calice e guardando il compagno per fargli segno di alzarsi. Il timido professore di chimica fa un debole sorriso ma si rifiuta di levare il calice in alto. La festa procede e nella vecchia balera c’è chi balla nel cortile, chi fuma marijuana mentre suona la chitarra, chi fa progetti per dopocena anche se sono ancora le 5 di pomeriggio e nessuno ha digerito l’antipasto. L’unico etero single è proprio di fianco a me ed è abbastanza compromesso. La nostra vicinanza non è un segno di una qualche divinità benevolente, siamo semplicemente arrivati per ultimi. Tra un amarone e un cognac mi aggiorna sulle sue prodezze sentimentali. L’ultimo appuntamento di Tinder lo ha fatto in hangover da MD. La tipa di fronte al suo mutismo, non proprio selettivo, aveva preferito interrompere la serata e andarsene.

Sei Moretti dopo, nel bovindo del suo appartamento a Nolo, aveva realizzato che “la gente adesso è troppo sensibile”. Dieci anni prima avrebbe probabilmente aggiornato così il suo status su Facebook. Si è rivelata così una conquista che almeno nell’era di Instagram i millennial, seppur fatti e sfatti, non postino in real time il proprio risentimento.

Pensa – gli ho detto in un sol respiro – secondo me è tutto il contrario, sembra che a nessuno interessi più la responsabilità personale. Lasciamo morire la gente sulle spiagge, la povertà per le strade è ormai un concept urbano, il pianeta è in fiamme, c’è immondizia anche nello spazio. Quest’ultima parte però l’ho tenuta per me. Un po’ come Dino Campana che strappava le pagine dei Canti Orfici e cancellava le parti che – secondo lui – l’acquirente non avrebbe compreso.

Manca il coraggio di dire: è finita o non mi piaci, vogliamo evitare il dolore come se non fosse il rischio commisurato per essere felici, o quanto meno liberi.

Sparire è la soluzione: come se con noi venisse via pure la sofferenza, il fastidio, l’orrore, come se non lasciassimo cenere, incredulità e malessere. Del resto la festa va avanti.

Immagine generata con AI generativa di Adobe Photoshop

“dipinto ad olio astratto che rappresenta una festa triste dove le persone sono sole”