I Cani

I.

Questa brutta storia cominciò una piovosa sera di novembre. Zanomaro era un posto dove non accadeva mai nulla. Se si cercava il nome del paese su Google, tutto ciò che s’otteneva era un orrendo sito web comunale, una striminzita pagina di Wikipedia e una manciata di notizie – roba di poco conto: dichiarazioni roboanti del sindaco, un furtarello, una truffa ai danni di alcune anziane.

La faccenda dei cani era diversa, e, a volte, ho ancora il dubbio che sia stato tutto un grosso incubo.

Un volpino giaceva sull’asfalto del corso di Zanomaro, mentre la pioggia gli arruffava il pelo. Restò là per tutta la notte e gran parte della mattina dopo. Molta gente lo vide, e molti dissero che l’animale aveva due grossi fori da un lato all’altro della testa. L’impressione, aggiunse qualcuno, era che l’avessero ammazzato come s’ammazzano i maiali, cioè con una pistola che spara un lungo ferro, trapassa le cervella e li secca in meno di un attimo, o, almeno, li rende incoscienti.

Due settimane dopo, visto che la moria di quadrupedi continuava, il giornale online con cui collaboravo per pochi spicci mi mandò a Zanomaro. L’assassino dei cani era diventato virale.

Fui inondato di informazioni – molte, devo dire, sembravano uscite da un romanzo paranoide e complottista; ma la paura, si sa, genera la diceria, e di dicerie ne raccolsi a bizzeffe. C’era chi sosteneva di aver visto un furgoncino bianco alla ricerca di cani da macellare. C’era chi giurava di aver notato tre cinesi uscire da una casa in piazza, disabitata da secoli, aggiungendo con aria circospetta «si sa che combina quella gente». C’erano anche i membri della LAZ, ovvero la Lega Animalisti Zanomaro, neonata associazione fondata sull’onda emotiva del canicidio in atto. Il fondatore era il Dottore, Professore, Presidente Ernesto Russo, più volte candidato sindaco, sempre senza successo, che mi raccontò ciò che segue.

Quando calava la notte, la LAZ s’incamminava, guidata dal suo lider máximo, intenta a perlustrare il territorio di Zanomaro – inclusi terreni, salite impervie e anfratti nascosti, che solo un vero zanomarese poteva conoscere. Durante quelle notti furono scoperti almeno tre casi di conclamato tradimento, un paio di guardoni che spiavano coppie appartate in stradine secondarie e un cospicuo numero di ragazzi intenti a drogarsi, immediatamente riportati all’ordine dal dottor Russo, autodefinitosi inflessibile vigile della moralità cittadina. Stavano stanando tutti, tranne che l’assassino – o l’assassina – dei pelosetti, come li chiamò Russo.

La prima volta che lo incontrai in uno dei cinque bar di Zanomaro, questo bellimbusto di due metri per centotrenta chili mi confidò, digrignando i denti, che lui sapeva chi fosse il bas-tar-do.

«Oreste» disse dopo qualche secondo di teatrale silenzio, «il bastardo Oreste». Mi cacciò sotto al naso la foto di un povero cristo spelacchiato, con le palpebre cadenti e un maglioncino di due taglie più grande.

«Si segga, caro» disse, invitandomi a prendere una sigaretta – che rifiutai. «Non fumo» risposi, e lui: «Fa bene, Dio santo se fa bene, vorrei togliermi questo maledetto viziaccio, ma, ecco, è più forte di me, e poi quando parlo di furfanti di tale fatta, che ci devo fare, mi sale la voglia di una bella rossa, aaaah!». 

Se ne accese una e ordinò due Campari. Questa volta accettai. Prima che arrivassero i bicchieri, lui ricominciò a parlare.

II.

Oreste era figlio di buona famiglia, possidenti terrieri che, ai loro tempi, erano più che benestanti. Lo stronzo, disse Russo, se l’era goduta in gioventù. Quando nessuno aveva il motorino, lui ce l’aveva; quando nessuno aveva la macchina, lui ce l’aveva; quando nessuno andava in vacanza, lui ciondolava per i più bei posti di mare e montagna. Aveva donne bellissime a ronzargli intorno, soldi quanti ne voleva, e lo stesso per i suoi due fratelli. La sorella, invece, stava relegata in casa, ma era la più bella di tutta Zanomaro, «una femmina raffinatissima, caro il mio giornalista, voi che ne volete sapere». Si fermò solo per dare una sorsata al Campari, riattaccando immediatamente.

Che successe? Dovete sapere che il padre di Oreste, la buonanima di don Rodolfo, era, come dire, un Casanova, un furfante pure lui, e aveva tradito la povera moglie, donna Linda, più e più volte. Don Rodolfo era uno dei pochi zanomaresi che frequentava le bische di tutta Napoli e provincia, e, per non portarla a Santa Maria, in pochi anni si giocò tutto. Rimasero senza una lira, tant’è che donna Linda si arrabattava pulendo le case di gente che, fino a poco prima, andava da loro a chiedere l’elemosina, e don Rodolfo, per la vergogna, morì nel giro di un anno. La sorella fu data in sposa a uno del Nord, che, si vociferava, aveva prestato un sacco di soldi al vecchio, mentre due dei tre fratelli trovarono buoni lavori statali e se ne andarono.

L’unico rimasto qua fu proprio Oreste, scansafatiche lurido e perfido, che non ha mai voluto fare niente nella vita; prima campava sulle spalle della madre e ora sulle nostre, e vedete come ci ripaga, come ripaga la comunità! Oreste è tale e quale a suo padre: pure a lui piacciono assai le donne, e pure lui, quando può, si gioca quei quattro spicci che ha; solo che, a differenza di don Rodolfo, è un pezzente e un canicida.

Oreste, una volta, fece salire su da lui una donnaccia. Si figuri che abita a poche centinaia di metri dalla chiesa! Dopo che avevano combinato le loro cose, questa scese sbraitando perché quel fetente non volle provvedere al pagamento di quanto dovuto. Svariate volte l’hanno trovato a orinare in strada, come se si trattasse di un suo diritto. E che dire del fatto che rovista tra l’immondizia e, con una faccia di tolla, raccoglie i mozziconi da terra o dalle ceneriere dei bar e se li fuma, perché nemmeno i soldi delle sigarette spende?

Ecco perché una cospicua pattuglia rondista setaccia ossessivamente la strada in cui abita Oreste D. F., in attesa di un suo passo falso.

Non dissi a Russo che mi ricordava un pelato del secolo scorso, ma in versione più goffa e comica, e lo ringraziai per le preziose informazioni. Le scriva pure, disse lui, e scriva che gliel’ha date Ernesto Russo in persona, presidente della Lega Animalisti Zanomaro.

Fonti anonime interne alla LAZ, che incontrai dopo la chiacchierata, mi confidarono che il dottor Russo aveva chiesto di stanare Oreste in qualunque modo, lecito o non lecito, e dunque i rondisti passavano la notte a schiamazzare sotto al balcone del presunto canicida, a lanciare pietre per controllare che fosse in casa, a sorbirsi le sue furibonde bestemmie. Uno dei suoi più fidati collaboratori mi chiese se sapessi perché Russo non si fosse mai sposato, e io dissi che ovviamente non lo sapevo, non sapevo nemmeno fosse scapolo, e l’uomo rispose che era pazzo di Concettina, la sorella di Oreste, e che lei non l’aveva mai voluto, anche se, resti tra noi, se la faceva un po’ con tutti in paese. Quando lei se ne andò al Nord, Ernesto cadde malato e non si vide in giro per un paio d’anni.

III.

Una mattina mi svegliarono alle cinque e mezza.

«Correte!» mi disse l’informatore al telefono «venite alla salita che porta al Castello». Mise giù, e io sperai per lui che fosse un fatto grosso, grosso almeno da farmi vincere il Pulitzer.

Il Castello era una roccaforte medievale che dominava Zanomaro. Per arrivarci bisognava percorrere una salita molto ripida, lungo la quale la mia Panda scassata saliva bofonchiando e minacciando di fermarsi ogni due metri. Parcheggiai mentre albeggiava, sperando che il freno a mano tenesse; mi avvicinai alla schiera di carabinieri, trovandomi davanti a un fatto che definire vomitevole è poco.

A bordo strada avevano ritrovato un chihuahua con orecchie e coda mozzata. «Avvelenato» sentenziò il veterinario, ed elencò i motivi che glielo facevano pensare: la rigidità muscolare, le gengive pallide e, soprattutto, la schiuma viola dalla bocca. C’era un dettaglio, però, a rendere la scena ancor più raccapricciante. Prima che venisse ucciso, il cane era stato violentato. Ripetutamente, aggiunse il veterinario, che rispondeva a monosillabi alle domande del maresciallo Forestieri. Lo avevo conosciuto proprio un paio di sere prima e mi aveva confidato di non avere la più pallida idea di chi fosse il criminale che ammazzava i cani.

Quella mattina don Filippo, il prete del paese, pubblicò su Facebook un chilometrico post strabordante di citazioni bibliche, in cui denunciava non meglio precisate bestialità che la chiesa, in pieno centro di Zanomaro, aveva subito durante la notte. Ciò che il prete celò sotto un velo di reticenza era chiaro dalle quattordici fotografie allegate. Sui gradoni c’era merda molliccia e una lunghissima riga di piscio; un’opera più che intenzionale, data la precisione geometrica secondo cui gli escrementi erano disposti.

Non fu un episodio isolato.

Don Filippo, nei suoi strali online dei tre giorni successivi, documentò tutto e invocò l’intervento del sindaco, che con Forestieri s’era già attivato per individuare il colpevole. Il tribunale del popolo zanomarese aveva, però, già sentenziato: tutti, sotto al post, scrissero che era chiaro l’autore del gesto, che lo stronzo abitava lì vicino. Il prete mise pollici alzati a questi commenti, senza aggiungere una virgola.

Ovviamente mi interessai alla vicenda, anche se non era detto fosse collegabile ai delitti dei cani – sui quali, intanto, si moltiplicavano articoli e reportage, tanto nostri quanto di altri giornali. Le indagini sul deturpatore della chiesa cominciarono in fretta, ma con esiti diversi da quelli attesi.

L’ingegner Aurelio Romano, il giovanissimo sindaco, esponente della sinistra locale e in rampa di lancio verso prestigiosi incarichi, mi aveva assicurato che il delinquente era in scacco, grazie alle telecamere posizionate in piazza, che puntavano proprio sul portone della chiesa.

Il primo imprevisto fu che nessuna telecamera era più funzionante.

Il secondo fu invece scoprire che, secondo alcuni avventori del bar di fianco alla chiesa, era stato lo stesso prete a cacare e pisciare sulle scale. Il folto gruppo di baldi giovani in pensione da vent’anni l’aveva visto aggirarsi in piazza a orari insoliti. «Nuie stammo ccà a pazzià pure ‘a notte» dissero «e chillu là nun ce piace».

I delitti dei cani passarono in secondo piano. Qualcuno si dimenticò persino di Oreste, che continuava a sfuggirmi, anche se mi dissero che era tornato a fare le sue solite lunghe passeggiate. Molto spesso sconfinava nei paesi limitrofi e anche in quelli più lontani, perché poteva camminare per ore intere senza stancarsi.

L’unico lusso che si concedeva era fermarsi in qualche bar lungo la strada per bere una Peroni ghiacciata, rigorosamente da sessantasei e tracannata in un paio di sorsi.

Aveva smesso di uscire perché, ogni volta che uno zanomarese lo incrociava, cominciava a pedinarlo. Tutti dicevano che quel fetente di Oreste portava sempre in tasca una manciata di croccantini, ecco perché puzzava come una fogna, e andava girando per adescare cagnolini indifesi e fargli le sue porcherie.

L’apparente calma regnò solo per un paio di giorni.

IV.

In quegli attimi che precedono l’aurora, quando il mondo è avvolto da un alone d’irrealtà e tutto sembra acquietato, un contadino trovò, rannicchiato tra l’erba alta e bagnata dall’umidità della notte, il corpo di un grosso San Bernardo.

L’uomo, spiegò ai carabinieri, era andato a lavorare il suo terreno appena fuori Zanomaro. Non ci andava da una settimana per via di una febbre infame che gli aveva spezzato le ossa e i polmoni. Il fetore, dato dalla somma del puzzo dei broccoli coltivati e dal cane in decomposizione, era tremendo; ma, mentre i carabinieri delimitavano la scena del crimine, scoprirono con orrore un altro corpo, e questa volta non si trattava di cani, bensì d’una giovane donna.

La mia fonte raccontò che don Pasquale, l’anziano contadino un po’ curvato dagli anni, ma dalle braccia possenti e vigorose, vomitò, e, visto com’era combinata la salma, già banchetto per le mosche, anche i carabinieri si trattennero, coprendosi come potevano naso e bocca.

Don Pasquale fu portato in caserma, e lui, che mai era salito su una macchina dei carabinieri, bestemmiò, perché guarda che gli doveva succedere. Venne  interrogato a lungo, confermando subito che quella doveva essere una signorina, capite a me, una di quelle che si mette là tutte le notti, e il maresciallo Forestieri, che conduceva l’interrogatorio, gli chiese di dettagliare i suoi spostamenti negli ultimi dieci giorni. Don Pasquale disse: 

«È facile, marescià, songo stato dint’ ‘o lietto! Sarà stato stu sfaccimma ‘e Covìd». 

«Don Pasquà» rincalzò il maresciallo «avete, come dire, usufruito in qualche caso dei servizi della signorina?». 

Il contadino, rintuzzato dalla calunniosa accusa, scattò in piedi e disse con tono solenne: «Mai, quant’è vera ‘a bonanema ‘e Assuntina, mia moglie, defunta il quattro nove duemiladieci, mai ce so juto, mica songo comm’a chilli schifuse de’ paesani vuoste!».

Gli chiesero a chi si riferisse, e lui rispose che era voce ‘e popolo, cose che lui sentiva, ma non sapeva chi e come, perché io fatico comm’a nu ciuccio e basta, marescià.

Secondo un’altra fonte, Forestieri gli mostrò una foto di Oreste, chiedendogli ripetutamente se l’avesse visto aggirarsi da quelle parti, magari in orari sospetti. 

«Questo povero cristo» rispose don Pasquale «lo conosco, come tutti. L’aggio visto pe tutt’e parte che vulite, manco na vota, però, attuorno ‘a terra mia». Il maresciallo insistette per provare a tirargli di bocca una mezza verità, un gancio per buttare Oreste dentro quella storia, ma nulla, don Pasquale fu irremovibile; ben presto venne mandato a casa: non c’erano prove contro di lui, ma gli chiesero di restare a disposizione.

La pagina Facebook della LAZ, dove si parlava al plurale ma in realtà era gestita dal solo Russo, aveva emesso la propria sentenza, unendosi al cordoglio della comunità per i ritrovamenti in via del Faggio, e scrivendo che, per quanto fiduciosi nella giustizia, sia umana che soprattutto divina, volevano ricordare le malsane voluttà di un certo personaggio tristemente noto. Senza nominarlo, si raccontava della passione di Oreste per le prostitute e di quella storia che Russo mi aveva già propinato, a cui si aggiunse il dettaglio della fuga della signora, e della sceneggiata che ne venne fuori, con urla, e Oreste in mutande per le strade di Zanomaro.

V.

La notte, ormai, dormivo poco e nulla. Restavo sull’attenti, pronto a scattare per racimolare nuova carne sanguinolenta da dare in pasto alla folla bramosa d’indignazione. Quando non riuscivo a prendere sonno, gettavo lo sguardo fuori dalla finestra, dove stavano il mondo, la morte, il disfacimento.

Sentivo tutto precipitare, chissà verso dove, e immaginavo me stesso cadere dal quarto piano del fatiscente palazzo dove l’editore mi aveva preso un monolocale. La faccenda dei cani di Zanomaro tirava tantissimo, e noi eravamo stati i primi a raccontarla come si deve, anche se ora erano arrivati i pezzi grossi della tv nazionale. Io ero stato intervistato dalla Vita in Diretta e da Pomeriggio Cinque, e mia madre, fierissima, ogni giorno ripubblicava quelle interviste sugli stati di WhatsApp e su Facebook. Immaginavo anche di non schiantarmi mai, di continuare a cadere all’infinito, provando uno smisurato terrore. In una di quelle notti insonni, bevvi un caffè freddo lasciato sulla scrivania e conclusi l’ultimo pezzo sulla storia della prostituta e del san bernardo – anche se non si sapeva nulla e mai si sarebbe saputo nulla, come sempre. Per scrivere mi stesi a pancia sotto sul letto. Sentivo già la schiena tirare e il collo irrigidirsi. Il telefono squillò.

Su via Roma, l’arteria principale che collega Zanomaro alla civiltà, corrono come i pazzi. Così disse un ragazzo, quando giunsi sul luogo dell’ennesimo delitto canino. Questa volta la vittima era un delizioso maltese, investito da una Fiat Punto che sfrecciava a tutta velocità. Finalmente c’eravamo? Il conducente era un uomo sulla quarantina, non uno zanomarese, e s’era pure fermato, ma ormai per il cane restava poco da fare. Il pelo, che sembrava zucchero filato, era impastato di sangue. L’uomo, nonostante giurasse che il cane s’era buttato all’improvviso in mezzo alla strada, fu portato in caserma a sirene spiegate. Qualcuno disse di non aver mai visto Forestieri così allegro e sereno.

La mia fonte nei carabinieri mi aveva descritto l’interrogatorio nei dettagli. Il maresciallo s’era tolto la giacca e l’aveva appesa alla sedia, dunque s’era arrotolato le maniche della camicia, poi aveva girato la sedia verso l’interrogato, sedendosi a gambe aperte davanti a lui, non prima di essersi acceso una sigaretta.

«Se tu sei qua, tu sei colpevole, capiamoci bene» gli disse. L’interrogato, tale Rodolfo P., provò a controbattere, ma Forestieri non gliene diede modo. Aggiunse che non era solo colpevole d’aver ucciso un cazzo di maltese, bensì aveva sulla coscienza i novantadue delitti di cani avvenuti fino ad allora. L’interrogatorio andò avanti per una notte intera, ma più si continuava e più era chiaro che la convinzione di Forestieri fosse inconsistente, benché lui vi si aggrappasse disperato. Il signor Rodolfo P. era residente a Desenzano sul Garda, nato e cresciuto là, e lavorava come operaio in una fabbrica locale. Quando aveva investito il cane era appena arrivato dal lungo viaggio, motivato dalla necessità di sbrigare delle faccende familiari.

«Mia madre era di Zanomaro» disse «si chiamava Concetta D. F.». Sentendo il cognome, l’ormai depresso Forestieri riacquistò compostezza. Nel cassetto teneva una foto di Oreste. La tirò immediatamente fuori per mostrarla all’uomo e chiedergli se lo conoscesse. L’uomo rispose: 

«Come non lo conosco, è mio zio, fratello di mia madre, un gran figlio di puttana». Il signor P. raccontò che i rapporti tra sé e suo zio Oreste erano pressoché inesistenti, e che la stessa madre, morta l’anno prima, non lo vedeva da secoli, così come d’altronde gli altri suoi zii. Oreste non voleva sloggiare dalla casa di famiglia, che, per eredità, era da dividere in quattro parti uguali, e tutti erano convinti che avesse fregato dei soldi alla buonanima della nonna. Non sapeva, però, che lo zio fosse un sospetto canicida, ma confermò una delazione, giunta dal dottor Scafandro, medico del paese.

Scafandro era arrivato a Zanomaro da pochi mesi, controvoglia, poiché s’era dovuto accollare un migliaio di pazienti, e il suo cellulare squillava di continuo. Controvoglia, ogni tanto, andava anche da Oreste, che altrimenti o si presentava in ambulatorio con un nuovo malanno oppure lo tempestava di telefonate. Una mattina il sedicente malato lamentava dolori polmonari e gravi difficoltà respiratorie – sebbene, secondo Scafandro, non soffrisse di nulla, tant’è che quando andò a casa sua gli fece un lavaggio d’acqua solo per toglierselo dalle scatole, e quello si riprese. Il fatto interessante, disse al maresciallo, era che, nel somministrargli la soluzione salina, aveva visto spuntare una pistola, forse una rivoltella, da sotto al cuscino.

«Il dottore si sbaglia» spiegò P. «si tratta di una Beretta M1951. Mio zio Oreste, a quanto so, ci dorme da sempre, è un tipo paranoico. Pensate che un giorno si convinse che nella sua televisione ci fossero microchip sovietici per spiarlo, perciò la spaccò con le sue mani, e non ha mai più avuto una televisione» 

«E come se n’era convinto?» chiese il maresciallo, con la faccia tronfia di chi sente di star scavando verso il pozzo giusto. 

«Mi pare, se ricordo bene, che avesse parlato con un certo Vittorio. Mi pare che mia madre lo chiamasse don Vittorio Russo, forse, comunque è il vecchio segretario della DC. Lui e mio zio hanno parlato del PCI e tutto, e quand’è tornato a casa al telegiornale c’era Berlinguer» 

«Ma la pistola?» chiese il brigadiere che affiancava Forestieri.

«La pistola, già. La pistola. Era di suo padre, cioè mio nonno Rodolfo, che era un appassionato. Tutto il resto se l’è dovuto vendere per i debiti, ma quella pistola no. La teneva come la cosa più cara al mondo, e non so perché poi l’ha lasciata alla testa di cazzo del figlio».

VI.

Seguirono altre settimane senza canicidi, e, per sfamare il voyeurismo di lettori e follower, scrissi un pezzo biografico su Oreste, senza parlare della pistola. Intervistai il sindaco, il dottor Russo, il maresciallo e provai a intervistare anche lui, Oreste, ma l’unica volta che ero quasi riuscito ad avvicinarlo mi sputò addosso.

Il giornale, allo scoccare del primo mese senza cani ammazzati, smise di finanziare la mia – seppur economica – permanenza a Zanomaro, non più giustificata da motivi giornalistici; detta altrimenti, non producevo abbastanza clic, poiché dopo mesi di martellamento il vento della viralità soffiava altrove.

Tornai a Napoli a vivere la mia solita vita, a metà tra la redazione e l’appartamento al centro storico che dividevo con tre studenti, e, quando il caldo piombò come una cappa su di noi, mi concessi pure qualche giorno di mare.

L’estate, la prima dopo la pandemia con una parvenza di normalità, era rovente.

Su Instagram girava questo reel di un tizio che, a mezzogiorno, forse a Bologna o forse era a Torino, cuoceva un uovo sull’asfalto. Ora, tralasciando la dose di follia necessaria per pensare di prendere un uovo dal frigorifero, scendere in strada con quaranta gradi all’ombra, rompere l’uovo, versarlo sull’asfalto, aspettare la cottura e riprendere la scena, pensai che fosse davvero tremendo e che ormai ci troviamo già dentro un burrone, dove, nonostante quello che si farnetica, siamo tutti felici, drogati da ciò che abbiamo e che pensiamo di non poter perdere.

Ancor più tremendo fu il WhatsApp che mi mandarono appena arrivato in un paesino del Cilento, dove avevo rimediato una mezza vacanza a scrocco. Erano tre foto e un audio lungo due minuti e ventuno secondi. Prima ancora che le foto si scaricassero, tirai un porcone.

La prima immagine mostrava un cane irriconoscibile, spiattellato sulla via Roma di Zanomaro, diventato ormai dello spessore e la consistenza di una sottiletta squagliata, per due motivi: il caldo, e l’abbiamo detto; ma soprattutto l’indifferenza dei passanti, che, se non lo schiacciavano con l’auto, passavano dritti. Nella seconda immagine c’era un labrador che, da quanto appresi dall’audio, era sempre stato confinato nella tenuta di un ricco avvocato locale, che di rado scendeva in paese. Il labrador era stato appeso a testa in giù di fronte al cimitero. La terza e ultima foto ritraeva il corpo senza vita del pinscher del sindaco, e io ero giunto a questa conclusione: che non ci capivo davvero un cazzo di questa faccenda. Il pinscher era stato truccato come Joker.

L’autore dell’audio raccontava che tutto era successo nella notte appena passata, e che la LAZ, cioè Russo, aveva ordinato di riprendere le ronde, questa volta ricevendo l’appoggio ufficiale dell’ingegner Romano, che contribuì assegnando il compito anche a uno dei due vigili zanomaresi.

Girai il materiale in redazione, e in meno di ventiquattr’ore ero di nuovo nella desolante Zanomaro, a cui, tuttavia, un po’ mi stavo affezionando.

Questa volta mi sistemai in una casa sulla strada verso la chiesa, a poche centinaia di metri da Oreste e anche dalla signora Rachele, per tutta la vita insegnante d’italiano, con la quale combinai un’intervista.

«Bello mio, voi non potete capire che spavento!» disse questa graziosa e minuta donna quando ci sedemmo sul divano, sopra al quale il condizionatore sparava aria a sedici gradi. «Io tutte le mattina, verso le sei e mezzo, massimo sette, esco e vado a prendere il pane, ché mio marito vuole il pane fresco tutti i giorni». S’interruppe subito, sentendo il caffè gorgogliare nella moka. La signora Rachele, già indaffarata in cucina quando ero arrivato, si asciugò le mani sul grembiule e chiese: «Voi ve lo pigliate con lo zucchero o senza?»

«Senza» risposi io, che bevo il caffè amaro dai tempi dell’università, perché mi dà la sensazione di farmi salire meglio la botta.

«E che dovete fare con questo caffè amaro? Siete pelle e ossa! Fate come Luigino mio, che non se lo beve se non ci stanno almeno tre o quattro belle cucchiaiate di zucchero» e intanto già le mescolava direttamente nella moka.

Mise su un elegante vassoio tre tazzine piene fino all’orlo, servendomene una e lasciando l’altra sul tavolo per sé, prima di aprire la porta della stanza adiacente, dove ronfava il suddetto Luigino. Dalla grancassa prodotta, tanto -ino non doveva essere.

«Com’è?» chiese dopo il mio primo sorso, e sul momento pensai che quella bevanda dolciastra fosse orrenda. «Speciale, signora, speciale. Stavate dicendo? Andavate a prendere il pane?»

«Sì, ecco, praticamente stavo camminando su via Roma, madonnella dell’Immacolata mia, se ci ripenso solo mi vengono le carni di gallina, eccolo là…» si mise le mani davanti agli occhi e poi gridò: «Un cane scamazzato!». Mi confermò i dettagli sugli altri due cani, e disse che per quei mesi s’era stati tranquilli, ma ora ricominciava la paura.

Io avevo già scritto un lungo articolo, ricco di foto e video, che mi arrivarono durante la giornata, e, sebbene fosse tutto censurato, il pezzo, per la gioia del direttore, diventò virale.

Prima che andassi via, la signora Rachele volle per forza darmi un vassoio dei suoi biscotti. Avvicinandosi e abbassando la voce, come se qualcuno in casa sua potesse sentirci, disse che era convinta che l’assassino fosse Oreste:

«Statevi attento» si raccomandò «quella è sempre stata gente strana, d’altronde dimmi a chi sei figlio e ti dico come sei fatto. Forse voi lo sapete già, ma il padre di Oreste non era tanto normale, e si dice che sparò alla prima fidanzata, anche se allora, che io ero signorina e avevo la stessa età della buonanima di Marina, fecero credere che s’era sparata e lui non andò in galera. Allora avevano i soldi, e coi soldi tutti si compra». Camminando verso casa, pensai che, fosse o meno l’assassino dei cani, la colpa di Oreste era un fatto antico, più antico del tempo.

VII.

Nel tardo pomeriggio, appena il caldo svaporò, gli zanomaresi si ritrovarono per un comizio in piazza, dove fu montato un palchetto e un maxischermo, sul quale venne proiettato il santino di Lucio, il cane del sindaco, e un collage animato dei cani ammazzati. Uno scrosciante applauso segnò la fine della proiezione e l’ingresso del sindaco, che teneva il busto ritto e il mento alzato, e, con lo sguardo al cielo, lo indicò con un dito. Disse, quasi sforzandosi a cacciare le parole: «Non ci fermeremo finché non troveremo il colpevole. Non mi fermerò io, non si fermerà il maresciallo, non si fermerà il dottor Russo. Non si fermerà nessun zanomarese» e dopo una breve ma significativa pausa, che diede ancor più solennità al discorso, aggiunse: «I nostri dolci pelosetti saranno vendicati». Disse proprio così, pelosetti, accentuando in me la sensazione che quelle parole fossero state scritte da uno spin doctor di serie C, probabilmente ubriaco.

«Lo stanerò, lo staneremo, e lo sbatteremo dentro!» concluse Romano, con una vena pulsante sul collo e il sudore che gli colava a fiotti. «Perché tutti sappiamo chi è, il bastardo, tutti!».

Il mormorio che s’alzò da terra era l’assenso della massa, confermato durante l’arringa di Russo, del tutto simile nei contenuti e nei modi all’intervento del sindaco; anche durante quello del maresciallo, più sobrio e mirato a calmare gli animi, ci fu la stessa risposta unanime. L’ultimo a prendere la parola fu don Filippo, che dal balcone sembrava la brutta copia di un papa, e lesse alcuni brani di San Francesco d’Assisi.

Mentre percorrevo il corso per tornare nella mia bettola, presi una birra da un distributore automatico, ma quel maledetto non si decideva a darmi il resto dei cinque euro che gli avevo infilato. Un tipo con una camicia di lino e la sigaretta in bocca, che avevo spesso visto in giro ma con cui non avevo mai parlato, si avvicinò e, senza smettere di fumare, schiacciò un bottone, poi un altro; come per magia, la macchina si sbloccò, restituendomi i miei tre euro e ottanta centesimi.

«Grazie»

«Voi siete il giornalista, o mi sbaglio?» fece l’uomo dai capelli brizzolati e la faccia bucherellata per una vecchia acne giovanile.

«Sì»

«Io sono uno che non ci ha a che fare volentieri con quelli come voi – anzi, se vi devo dire la verità, mi faccio i cazzi miei e campo cent’anni, e se ve ne devo dire un’altra, penso proprio che tutti quanti i giornalisti italiani siete dei ricottari, che ci abboffate la guallera cu nu sacco ‘e fesserie»

«Grazie» dissi, questa volta sorridendo, e il tipo, che s’era infervorato, disse che il fatto dei cani gli dispiaceva assai, e che aveva qualcosa da confidarmi.

«E dicite allora» feci, iniziando a sorseggiare la birra, calda come brodo.

«Nun esce ‘o nomme mio ngopp’ o giurnale, o no?». Lo rassicurai, e quello iniziò a parlare.

«Oreste e io tenimmo ‘a stessa età, ‘o saccio a quanno stemmo ‘a scola. È sempre stato nu personaggio, me capite? Uno nu poco curiuso, che bellebuono asceva ‘e capa. Già quanno era aveto quant’o cazzo mio. ‘O pate? Era duie punti peggio ‘e isso, e papà mio diceva che ‘a bonanema ‘e donna Linda aveva passato ‘o guaio che ‘Ntufati, accussì ‘e chiammeno, perché songo ‘ncazzusi. Donna Linda nun era ‘a primma mugliera ‘e don Rodolfo». Lo interruppi dicendogli che conoscevo quella storia e chiesi se Oreste avesse una passione, un hobby, un lavoro.

«Lavoro?» mi fece il verso l’uomo, che intanto s’era presentato come Giovanni, anche se non sono sicuro si chiamasse così.

«Chillu là n’ha mai fatto nu juorno ‘e fatica, piglia ‘a pensione, e ‘a malatia soia mi sa c’ha sapite già, li ho letti gli articoli che scrivete. Io però n’ata cosa v’aggia ricere. Oreste è nu spuorco, pe carità, ed è vero che tene ‘a passione de zoccole. Col fatto dei cani non c’azzecca niente, però, quant’è vera l’anema ‘e papà e mammà. Stu fatto è chiù gruosso ‘e chillu rimbambito. Ve sta purtanno ‘ncanzone, chi ve dà ‘e nutizie che po’ comm’o babà scrivite».

Gli chiesi se avesse delle prove, ma lui, che s’era acceso un’altra sigaretta, schioccò le labbra per dirmi di no. Poi aggiunse: «Siamo arrivati». Per un attimo mi domandai come sapesse che abitavo là, poi pensai che a Zanomaro si sa tutto di tutti, e lo salutai.

VIII.

Nelle settimane successive il canicida o la canicida, oppure, a quel punto, i canicidi, si diedero da fare. Tre povere bestie furono trovate a pezzetti nel terreno di una cognata del sindaco, il primo giorno di settembre. Nella notte tra il 2 e 3, un pastore tedesco fu freddato con un colpo di pistola alla testa e lasciato sull’uscio della caserma. Nelle registrazioni delle telecamere il cane morto appare all’improvviso, tra le 4:27 e le 4:29, come se qualcuno avesse manomesso il file. 

«È impossibile» mi spiegò un giovane sottotenente, da poco arrivato a Zanomaro. «Tutte le registrazioni sono conservate su degli hard disk fisici, in locale, e cioè per manometterle bisogna fisicamente entrare nella caserma, cosa che, come può immaginare, è complessa da fare senza essere notati».

I giorni 4, 5 e 6 sembrò tornare un’apparente calma, ma il 7 avvenne un massacro.

Per oltre tre chilometri di via Roma furono disseminati i cadaveri di quindici cani di piccola taglia, e già a colpo d’occhio si notava che erano disposti secondo una perversa logica, poiché a un cane dal pelo chiaro seguiva un cane dal pelo scuro. Era un feticismo dell’orrore, che veniva praticato da quanto tempo? Tutti avevano perso il conto dei giorni. Sembrava che quel male esistesse da sempre, perché al male presto ci si abitua.

Anche nei paesi limitrofi, che fino ad allora erano stati risparmiati, fu denunciata la scomparsa di chihuahua, barboncini, Yorkshire terrier dal pelo vellutato, batuffolosi Bichon frisé e cani Papillon con le orecchie a farfalla, oltre che di un raro cane crestato cinese.

Fino al 10 settembre, intanto, a Zanomaro i canicidi continuarono al ritmo di uno per notte. Le modalità si rinnovarono: i cani non vennero rapiti, bensì uccisi direttamente nelle loro cucce o giardini, mediante polpette avvelenate e chiodate.

Di Oreste nessuno aveva più notizie da settimane, e i vicini giuravano di non averlo visto mettere la testa fuori dal balcone. Nessuno sapeva che fine avesse fatto, almeno fino a quella notte settembrina, che cominciava a essere fresca e portarsi via l’estate.

IX.

Avevo dovuto lasciare l’appartamento in cui il giornale mi aveva ficcato – costava troppo; la storia, però, tirava e il direttore chiese di adoperarmi per trovare una soluzione alternativa. Chiedendo in giro, scoprii che la signora Rachele aveva una casa sfitta in piazza, proprio davanti alla chiesa, e non volle soldi; bisognava solo pagare luce, acqua, gas ed elettricità. L’affare fu presto concluso, ma durò poco.

La notte dell’11 settembre, urla disperate mi svegliarono. Misi una felpa e una tuta sopra al pigiama, presi il cellulare e gli occhiali, e scesi le scale di corsa. Dalla piazza vidi una folla rumorosa accalcata sotto al balcone di Oreste, e, quando mi aggregai a loro, eccolo là: Oreste stava fuori, in mutande, come a governare il popolo, mentre ballava in una canottiera sudata. Aveva in mano la sua pistola.

Mi dissero che s’era affacciato sbraitando, puntandosela alla testa. Tutti s’erano zittiti e ora continuava a gridare «m’accire! m’accire! m’avite abbuffato a guallera! i’ m’accire!». Era la prima volta che sentivo la sua voce, ed era proprio come la immaginavo, rauca e profonda. Il sindaco, accorso immediatamente, gli disse che aveva ragione, che la gente stava esagerando, che lui lo conosceva e sapeva che in fondo era un bravo cristiano. Oreste lanciava sguardi indemoniati, ma quando il peggio sembrava inevitabile fece per rientrare. Un sospiro di sollievo esalò dal capannello di spettatori.

Prima di chiudere il balcone, prima che la gente si diradasse per tornare a casa, Oreste si voltò di botto, mirando in basso: verso il nipote Rodolfo, che era tornato giù per quella faccenda familiare, poi verso Russo, e sparò cinque volte. Mancò il bersaglio col primo colpo, mentre il secondo e il terzo gli trafissero il petto, il quarto e il quinto gli sfregiarono il volto.

Russo cadde con un tonfo tremendo, come una quercia in un bosco silenzioso, e, quando l’ambulanza arrivò, era morto.

Oreste fu portato giù dai carabinieri, io registrai ogni attimo col cellulare: gli sputi, gli insulti, l’odio vomitato contro il Mostro. Ora era finalmente il Mostro. Era innegabile, l’avevamo visto, nessuno poteva dire il contrario, nessuno poteva più fare il buonista. Era l’11 settembre e la prima pioggia da mesi bagnò Zanomaro.

I telegiornali e i talk show parlarono per giorni solo di quella vicenda, e al funerale di Russo c’erano tutti: gli zanomaresi, il presidente della Regione, i capi dei partiti nazionali e una delegazione del Governo. Il Ministro dell’Ambiente, scusandosi per l’assenza del Presidente, tenne un discorso toccante, e, come aveva fatto il prete al comizio d’estate, citò San Francesco, baciando la croce e dipingendo Russo come un martire per la giustizia. 

La mattina del 7 ottobre, quando Oreste era in carcere e ormai nessuno parlava più del martire Russo e dei cani, un pastore tedesco fu trovato decapitato sui gradoni della chiesa di Zanomaro. 

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Immagine generata con AI generativa di Adobe Photoshop

“dipinto ad olio di un politico che parla con enfasi alla folla e dietro di lui vengono proiettate immagini di cani”