L'età giusta
Avevo ventidue anni e ovunque andassi mi dicevano la stessa cosa: hai l’età giusta. L’età giusta per quel paio di scarpe, l’età giusta per bere superalcolici, o, secondo mio padre, per andare a lavorare. A dire il vero secondo lui l’età giusta ce l’avevo già da qualche anno ma prima di allora mi era sempre e solo sembrata una provocazione. Era cambiato dopo la morte di mia madre. Dapprima si era chiuso in un silenzio tutto suo, poi aveva cominciato a darmi il tormento per qualunque cosa. Ogni volta che tornavo a casa sbronzo o dopo un concerto con Mirko mi diceva sempre la stessa frase: “bella prova”. Credo fosse un modo di dire dei suoi tempi.
Eppure c’era una cosa per cui sentivo di avere realmente l’età giusta, ed era una Triumph Scrambler 400. La cilindrata bassa la rendeva più abbordabile. Più abbordabile per gli altri, purtroppo. Io raccattavo qualche soldo d’estate vendendo gelati giù al porto, ma spendevo quasi tutto in attrezzature musicali e per produrre le basi a Mirko. I nostri concerti non andavano male, solo che ci pagavano in birre. Non c’era molto da fare: se volevo la moto, dovevo chiedere aiuto a mio padre.
Ricordo che entrai in cucina, il telegiornale parlava della Cina, avevano appena invaso Taiwan. Dicevano robe sul silicio, chip per i computer. Qualcun altro invece sosteneva fosse tutto un pretesto e che in realtà da quelle parti non vedessero l’ora di scannarsi, non lo so. Mio padre non perse l’occasione per commentare «Bella prova del cazzo» e poi diede un morso ai suoi spaghetti.
«Quando te li tagli quei capelli?» mi disse. Non sopportava che andassi in giro con la testa mezza blu e mezza bionda.
«Stamattina sono passato in cartiera, ti ricordi Roberto, il mio compagno di stanza in Afghanistan?»
«Papà…»
«Ha detto che ti prendono se ci vai ma lo devi fare subito»
«Non mi interessa»
«E figuriamoci. Cos’è che ti interessa, sentiamo»
«Ho visto una moto dal Paolini. Costa solo seimila euro»
Le sopracciglia gli si inarcarono fin quasi all’attaccatura dei capelli, radi ma ancora presenti, «Solo?»
«Pensavo che facendo a metà, e con le rate…»
«E dove li trovo secondo te i soldi per una moto? La vuoi? Vai a lavorare e te la compri»
«Lavoro già»
«E da quando?» ride, «Me lo devo essere perso»
«Con Mirko»
«Quel rumore che fate non è nemmeno musica, figuriamoci un lavoro»
Seguirono urla e offese. Alla fine me ne andai sbattendo la porta. Potevo sentire l’eco del suo solito bella prova rincorrermi per strada.
Io e mio padre non ci parlammo per settimane. Ma capitava di incrociarlo per colazione. Rientravo da qualche serata con gli amici o da un concerto con Mirko e lo trovavo in cucina, a bere il caffellatte e a sentire la tv che insisteva con la guerra e di come si stesse espandendo. A me fregava niente, pensavo solo alla moto e giuro che fui tanto così dall’andare in cartiera come mi aveva suggerito, ma non volevo dargli soddisfazione. Non potevo proprio.
Poi conobbi Astrid. Faceva l’ultimo anno di liceo ed era venuta per uno scambio culturale o non so bene cosa dalla Spagna. Si presentò a uno dei nostri concerti e si sedette sullo sgabello di fianco al mio per bere una birra.
«Lascia perdere le IPA, non sono artigianali come dicono. Prova con le rosse»
Inclinò la testa leggermente verso destra e mi squadrò, una specie di tic che avrei imparato ad amare. Le lampade opache del pub illuminarono quanto bastava del viso per rivelare un pugno di lentiggini sul naso da perderci la testa. Ma fu il modo in cui ordinò da bere al cameriere, la piroetta della sua lingua mentre strusciava quella doppia esse sul palato, che accese in me un ingranaggio di cui non ero minimamente a conoscenza.
Facemmo l’amore la sera stessa, in un campo di garofani in periferia. Il mondo è la tua ostrica, ti dicono, e nella mia credevo di aver trovato una perla.
Per un po’ mi scordai della moto, di mio padre e anche della musica. Stavo con Astrid tutto il giorno, tutti i giorni. Parlavamo di qualsiasi cosa, mi interessava qualunque aspetto di lei. Dal modo in cui si mordeva le unghie smaltate di nero, alla piega del polpaccio che scivolava dolce giù dal muscolo fino alle caviglie; dalla sua passione per i potato rolls alla sua collezione di DVD. «Non conosco un supporto che sia invecchiato peggio e più in fretta» mi diceva, «Neanche sono usciti e già c’erano i blu-ray, e subito dopo abbiamo preso a guardare tutto in streaming. Le VHS sono durate anni, i DVD invece… è come se non fosse mai arrivato il loro tempo» e negli occhi aveva una malinconia che sembrava venire da un posto lontanissimo, più lontano della Spagna, più lontano di tutto.
Una sera eravamo sulla collina appena sopra la città e vidi che aveva un’aria strana.
«Cosa c’è?» le chiesi, e mi disse che l’avevano chiamata i suoi, che la Spagna entrava in guerra e lei non sapeva davvero cosa pensare. La strinsi a me e mentre riflettevo mi cadde lo sguardo sulla concessionaria Paolini. Così le dissi che non si doveva preoccupare, le indicai il negozio e dissi che avrei preso la Scrambler e insieme avremmo viaggiato ovunque si potesse andare. Mi abbracciò e mi baciò forte. Quella fu la notte più bella della mia vita.
Astrid finì gli esami e tornò in Spagna. Ogni sera la chiamavo e parlavamo per ore, anche tutta la notte. Poi le telefonate si fecero più brevi, divenne ogni giorno più sfuggente e alla fine non rispose più.
Tornai in quella cucina di merda per chiedere a mio padre i soldi per andare in Spagna. Gli dissi che volevo andare da Astrid. Mi scrutò a fondo, e disse: «Ti ha lasciato?»
Abbassai gli occhi; non volevo ammetterlo. Mio padre capì, si arricciò il baffo e tutto ciò che seppe rispondermi fu: «Bella prova».
Mi tinsi i capelli di verde e tornai a suonare con Mirko. Il disgusto negli occhi di mio padre mi dava la forza per tirare avanti. Finché a settembre, uscendo dal locale dopo un concerto, non vidi una macchina che stava passando e mi investirono. In mano avevo il synth. Ricordo ancora i pezzi di tastiera in frantumi sull’asfalto.
Passai del tempo immobilizzato a letto, non ero in pericolo di vita ma avevo mezza spina dorsale rotta e non se ne parlava neanche di mettermi seduto. Mio padre ne approfittò, venne con una macchinetta in mano e mi rasò i capelli.
Non lo avevo mai odiato così tanto, lo offesi in ogni modo che conoscevo. Lui continuava solo a radere e a dirmi:
«Bella prova, ragazzo» e «Ma adesso ci penserà l’esercito, vedrai, io ci sono stato e non è bello». Blaterava di orrori di guerra, di compagni morti e intanto mi tagliava i capelli. Così sbroccai: «Eri un cuoco del cazzo, l’unica cosa morta che hai visto sono i pezzi di carne nello stufato». Mio padre si bloccò. Ora lo avevo offeso davvero. Tornò a radermi la testa e sentii le lame del rasoio premere più forte sulla cute. «Hanno messo la leva obbligatoria… Oh, vedrai, hai proprio l’età giusta».
Una mattina arrivò una busta gialla con un timbro dell’esercito. Sapevo già cosa contenesse. Il giorno prima avevo visto il mio vicino con la divisa militare uscire in gran silenzio all’alba accompagnato da suo padre. Non so dei due chi fosse più triste. Mi vide che rientravo in casa da una nottata spesa in giro a ubriacarmi e mi disse: «Vado a Taiwan» poi imbarazzato aggiunse, «Non so manco dov’è».
Il quattordici mattina al Palazzetto dello Sport si sarebbe tenuto l’esame per valutare la mia idoneità. Anche Mirko e altri nostri amici avevano ricevuto la lettera. Così decidemmo che il giorno prima del test sarebbe stato tipo festa dell’apocalisse, o una cosa del genere. Il tredici andai alla concessionaria Paolini. Dissi che ero interessato allo Scrambler 400, mi fecero firmare dei fogli e mi diedero le chiavi della moto per una prova. Avrei dovuto riportarla entro un’ora ma non lo feci. Girai tutte le strade della città. Andai in tutti i luoghi dove ero stato con Astrid. Mi fermavo solo per fare benzina. La sera passai al pub dagli altri ragazzi, mi presentai con la moto, dissi a Mirko di prendere quante più birre poteva, di metterle in una busta e venire via con me. Facemmo su e giù per la tangenziale consumando le gomme, urlando come indemoniati, bevendo e abbrustolendoci col fumo nero della marmitta. Quando arrivò quel momento in cui la notte e il giorno si incontrano, alzai gli occhi e fissai il cielo. Le stelle sparivano lasciando posto a un azzurro vuoto. Eccolo, pensai, questo è il mio ultimo orizzonte.
Prima di andare alla visita lasciai la moto davanti al negozio ancora chiuso.
Quando tornai a casa dopo il test mio padre era in cucina. Aveva gli occhi rossi e le occhiaie profonde. La conoscevo bene: era la faccia di chi aveva passato la notte in bianco tormentato dai fantasmi.
Di colpo lo vidi per l’uomo anziano che era e mi dispiacque. Notai che sul tavolo c’era la mia busta gialla dell’esercito.
«Dove sei stato» mi chiese.
«Sono andato all’esame di leva»
«Com’è andato?»
«Non mi hanno preso. La mia schiena dopo l’incidente…»
Mio padre emise un sospiro lungo e profondo, vidi le sue spalle abbassarsi come quando da bambino lo spiavo togliersi il cappotto militare di rientrato da una missione.
«Bella prova, ragazzo» mi disse, «Bella prova».
Immagine generata con AI generativa di Adobe Photoshop
“dipinto ad olio di una triumph scrambler 400 davanti ad un negozio di moto chiuso all’alba”