A cena con Melanie Griffith
Avevo cominciato a scrivere da qualche mese, durante la convalescenza, sai, tanto tempo per leggere, parecchi pensieri che ti girano in testa, risolvi parole crociate e trovi risposte alle grandi domande esistenziali.
Senti questa necessità di comunicare al mondo le tue scoperte, vorresti uscire di casa e urlare: ho capito cosa voleva dire Gesù quando dichiarava questo, ho scoperto come si fa quest’altro, i conflitti bellici si risolvono così, la verità è dentro di te ma è scritta in swahili, cose del genere, ma non puoi alzarti dal divano perché hai una gamba rotta, quindi che fai? Scrivi un libro.
Chiariamo subito la faccenda, pur riconoscendo di aver intrapreso questa strada per puro caso e non avendo mai pensato di poter diventare scrittrice, le centoquindici cartelle realizzate in quel periodo mi piacevano, intendo proprio da lettrice, le trovavo interessanti e ben scritte, quindi ho ritenuto che potessero essere per me un’opportunità per inserirmi nell’ambiente. Dopo aver studiato la situazione leggendo blog e forum ho cominciato a inviare il mio manoscritto alle varie case editrici piccole, medie e grandi, ho vagliato le risposte che mi sono arrivate e ho scelto quella che pretendeva che io comprassi meno copie del mio libro a fronte della migliore promozione. Avevo un progetto ben preciso in testa, quello di uscire dalla triste e umiliante condizione di “esordiente”. Ho continuato a scrivere e a pubblicare su diverse riviste letterarie, andavo bene, diventavo sempre più veloce e prolifica, volevo inserirmi sempre di più.
Fino ad allora, l’unico interlocutore valido che avessi era il mio compagno Max, un uomo straordinario incastonato in un’esistenza ordinaria. Solo con lui potevo parlare di temi importanti, confrontarmi e chiarirmi le idee, e poi sapeva appoggiare bene ogni battuta, vedeva il lato grottesco di ogni situazione esattamente come me, parlare con lui era una danza, sempre un passo a due.
«Stavo pensando una cosa…» esordii con tono di assoluta noncuranza mentre preparavo qualche pastrocchio in cucina.
«Oddio!» sospirò Max, seduto al tavolo della cucina. Come sempre mi faceva compagnia in attesa di bere qualcosa insieme prima di cena.
«Dai, senti, sul serio. Non ti piacerebbe introdurti fisicamente nell’ambiente degli scrittori, avere discussioni interessanti, conoscere autori fighi dei quali abbiamo i libri?»
«Certo» era distratto da qualche discussione su Facebook, continuava a muovere il dito sul telefonino ma sapevo che aveva drizzato le orecchie, solo che non voleva darmi la soddisfazione di mostrarmi quanto temesse la nuova idea che mi frullava per la testa.
«Dovremmo frequentare i posti giusti, quelli dove si incontrano gli scrittori»
«Ci sono bar dove puoi ordinare una birra e un Sandro Veronesi?»
«Non sono ancora arrivata a capire dove fa l’aperitivo Veronesi, in realtà sto osservando gli itinerari di Donato Carrisi che adesso è in giro in promozione, ma noi dobbiamo partire con minori pretese, cicci, io non ho ancora scritto il caso letterario dell’anno e quindi comincerei a inserirmi in un ambiente frequentato da Aspiranti Superstar della letteratura»
«Quindi ordiniamo una birra e un esordiente?»
«Esatto. Sto seguendo delle pagine su Facebook che forniscono informazioni utili, sai, eventi, presentazioni, firmacopie…»
«… locali per scambisti letterari…»
«No, quelli me li sono dovuti sudare da sola, con un po’ di ingegno e tanto tempo a spiare account vari» Max aveva abbandonato il telefono sul tavolo e non fingeva più di ascoltarmi distrattamente.
Continuai a raccontare con enfasi, aiutandomi con una mimica vezzosa, le mani che si muovevano per ipnotizzarlo come una diva che gesticola solo per mostrare gli anelli che indossa «te la faccio breve, una di queste pagine ha postato un articolo che parlava dei caffè letterari storici, poi si faceva cenno ai locali che ancora oggi sono frequentati da artisti»
«E quelli sono i locali dove va Carrisi, immagino» mi incalzò Max che ormai mi seguiva con trasporto, le mani sulle ginocchia e la schiena curva, proteso verso di me.
«Credo di sì, ma non sono quelli che ci interessano per adesso. Ho stilato una lista di locali frequentati da chi segue la pagina e ne parla tra i vari commenti. Sono tutti posti normalissimi, bar, pub e ristoranti che questi dicono di frequentare»
«Tipo un Writer Advisor? Ma almeno la birra è buona?»
«Non so nulla delle consumazioni ma potremmo provare una cosa diversa e consumare l’aperitivo in un locale, su uno scomodo trespolo come fa la gente civile, che dici? Ho individuato un posto interessante non lontano da qui»
«Quantifica “non lontano”»
«Una quarantina di chilometri, direi…»
«Oh porca eva… ok, ma almeno, questa gente la conosci? Ci hai parlato? Chi stiamo cercando?»
«Non ci ho parlato, però li leggo, è tutta gente che segue le stesse mie pagine, ha pubblicato tante cose, alcuni lavorano per case editrici minori e poi è sempre un’avventura nuova che faremmo insieme, no? Che dici?»
Lo interrogavo cercando di capire se ci fosse una possibilità di convincerlo ad affrontare quel viaggio.
«Ma certo, ciccia, andiamo dove vuoi, solo non capisco cosa dobbiamo fare, qual è l’obiettivo se dici che questa gente non la conosci. Perché non interagisci con loro prima? »
«Perché sono aspiranti teste di cazzo letterarie. Ne ho aggiunti tanti come amici nella speranza di poter comunicare con gente che ragiona come uno scrittore, che non stupra la consecutio, con cui si può parlare di politica senza ricevere come risposta una frase che contenga il verbo “rosicare”, ma questi non discutono con altri aspiranti teste di cazzo letterarie. Ti aggiungono come amico solo per avere un pubblico più ampio al quale esporre i propri lavori, poi cerchi di scambiare due parole e manco ti rispondono»
«Ah ecco, che bella seratina che si prospetta. Quindi noi cosa andiamo a fare in locale pieno di Principi del Verbo con la stola di visone?»
«Ricerche di mercato, cicci. Ci inseriamo, carpiamo, studiamo l’ambiente…»
«Spionaggio industriale!»
«Esatto, cicci! Si va?»
«Certo, ci diamo alla pazza gioia, ciccia, come sempre».
Serata all’ Irish Coffee da Assuntina, punto di ritrovo per aspiranti “Principi del Verbo Pubblicare”: piccolo, sporco il giusto e in nessun modo riconducibile all’Irlanda.
Prendemmo posto al bancone e riponemmo tutte le nostre speranze in un autentico Irish coffee che naturalmente si tradusse in un semplice caffè con una spruzzata di panna sopra. Max studiò la piccola tazza con molto interesse:
«Bella l’idea di servirti un caffè pezzotto dentro la miniatura di un water, all’improvviso mi sento già James Joyce, ti giuro, sto per scrivere Cessi di Dublino. Come potrò mai sdebitarmi con te per avermi trascinato in questo posto?»
«Zitto che non sento, ho appena adocchiato un gruppo sospetto a quel tavolo laggiù. Prendi il tuo cesso e trasferiamoci al tavolo vicino»
Ci sedemmo proprio di fianco al tavolo occupato da sei figuri che discutevano animatamente, ma non di calcio. Avevo carpito qualche parola e mi sembrava che discutessero di “scrivere, bio, editore”, non potevo sbagliare. Ci saremmo seduti e come si conviene tra persone per bene, avrei fissato uno di loro, ammiccato per mostrargli tacita solidarietà, al momento giusto avrei fatto un commento lusinghiero e sarei stata invitata in quel consesso letterario trascinando Max.
Avevo ragione. Erano cinque uomini sulla quarantina. Il più esperto, nel senso di anziano, spiegava ai colleghi perché non riuscisse a piazzare la sua biografia. Gli altri gli rispondevano che sì, cavolo, il libro era bellissimo, lo avevano divorato, e lo ringraziavano per averglielo regalato, inammissibile che avesse dovuto autoprodurselo. È mai possibile che nessuna casa editrice avesse compreso il valore dell’opera?
Max sorseggiava la sua panna guardandosi intorno con la sua solita curiosità.
«Beh? Hai carpito qualcosa di divertente?» mi chiese con ingiustificata speranza.
Mentre gli riassumevo il dialogo, lui prese a guardare con grande concentrazione un punto dietro le mie spalle. Succedeva sempre quando eravamo in giro, all’improvviso vedeva qualcosa di buffo e me lo raccontava.
«Colpa del principe Harry, con la sua autobiografia si è mangiato il mercato, non ce n’è più per nessuno, cicci»
«Sì ma che stai fissando? Hai beccato un pezzo grosso?»
«Io no, ma lei sì, ne sono sicuro»
«Ma chi? Immagino di non dovermi girare, giusto?»
«Dipende, scegli tu. C’è una signora, spero con tutto me stesso che non faccia parte dello staff del locale e dio non voglia che lavori in cucina, comunque questa matrona è seduta due tavoli dietro di te, un vestito da mamma ciociara, tipo la Loren, la bisnonna della Loren, beh, ha appena estratto dalla narice alcune piriti aurifere, previa accurata esplorazione del sito e ora sto cercando di capire cosa ne farà»
«O mio dio, secondo te voglio assistere allo spettacolo? Dimmelo tu se mi devo girare»
«Aspetta, ora te lo… Oh Cristo, no no… non vuoi sapere, lascia stare. Dicevamo? Il tavolo qui a fianco?» Max mimò un paio di conati e obbligò sé stesso a fissarmi negli occhi.
«Ah sì, dunque, c’è qui Hemingway che non si capacita del fatto che a fronte di una miriade di case editrici consultate, abbia ricevuto solo un paio di risposte in cui si dichiarava senza mezzi termini che il prodotto era assolutamente invendibile»
«Ciò è strano»
«Già. Invece ascolta questo, alla tua destra c’è una ragazza che mi sembra di aver visto tra i miei contatti e menzionava proprio questo pub in alcuni commenti, poco prima che le togliessi l’amicizia».
Max si girò cautamente e riprese a fissarmi cercando di non ricadere sulla Matrona Delle Caccole.
«E perché l’hai tolta dai contatti, Arisa? Poverina, che ti ha detto?»
«Sì, forse, una leggerissima somiglianza con Arisa quando aveva rasato i capelli, hai ragione. Comunque, se è lei, dovrebbe essere una rompicoglioni di dimensioni bibliche».
Eravamo entrambi protesi sul tavolo, l’uno verso l’altra, come facciamo sempre quando sparliamo dei presenti e ciò accade molto spesso.
Continuai a spiegare sussurrando come una cospiratrice «posta solo selfie con lo sguardo perso verso l’infinito, oppure fa gli occhioni, e ultimamente gira per locali e si ritrae sempre con un cocktail in mano»
«Molto letterario, fa tanto Dorothy Parker, sai “Amo i Martini, ma due al massimo. Tre, e sono sotto il tavolo. Quattro, e sono sotto il cameriere”, direi che ci piace. Ripeto: perché l’abbiamo tolta dagli amici?»
«Perché mi sono sorbita un video dove mi inondava di banalità riassumibili così: non contattatemi in privato perché la trovo una cosa molto volgaVe, io voglio solo leggere libri con voi, (con voi, capito? Che cazzo vuol dire “con voi?”) e insomma voglio solo leggere con voi e recensire. Tutto questo facendo gli occhietti da coniglietta e… oh mio dio, sì, è lei»
«Cosa? Cosa fa? Lo voglio sapere? Dimmelo tu se mi devo girare» era la nostra frase.
«Sta facendo una diretta social col telefonino, sta tenendo il maglione con un dito in modo da far uscire due terzi di tetta e… oh santo cielo, mi sembra di aver carpito Roth.»
«Philip o Tim?»
«Aspetta… guarda come tira fuori la tetta, è sublime, con l’espressione vacua tipo “non so cosa stia succedendo e perché parte del mio corpo stia sfuggendo al mio controllo mostrandosi in maniera volgaVe “… Sì, ci siamo, mi sembra abbia detto pasta, no no, l’ha detto, non era pasta, era…»
Entrambi siamo quasi saltati dalla sedia esclamando insieme «Pastorale! Sì!»
Quella sera tornammo a casa a mani vuote, senza aver conversato con nessun esordiente, senza aver confrontato le mie esperienze con quelle di altri autori, e non avevo neanche lontanamente toccato argomenti politici, sorvolato la geopolitica, accarezzato filosofia e religione, nulla. Gli aspiranti qualcosa sono solitamente dei gran rompipalle pieni di sé e poco inclini a condividere il proprio spazio con altri come loro, ma gli aspiranti scrittori sono decisamente “la sintesi della disgrazia” citando il saggio Cecco, il fornaio, “l’apice dell’apoteosi” della noia, concentrati solo sul progetto di diventare noti intellettuali da talk show: mi dica signor Giovanni come risolverebbe i conflitti in Medioriente, cosa pensa del femminismo, delle farine d’insetto? Ha opinioni sulla strage di Ustica? Dica, lei crede agli ufo, alle proiezioni astrali, alla telepatia, crede la ESP, alla chiaroveggenza, alla fotografia spiritica, alla telecinesi, ai medium scriventi e non scriventi, al mostro di Loch Ness, e alla teoria sull’Atlantide?
Mi misi subito al lavoro e realizzai un simpatico racconto umoristico che parlava di signore attempate alla ricerca dell’Arca perduta e giovani insegnanti di Tette e Filosofia, finito in due giorni e subito piazzato su una rivista letteraria.
«Beh? Non usciamo più in cerca di qualche posticino decadente da scrittore disperato?» mi chiese una sera Max.
«Aspirante scrittore, cicci» sottolineai, «è una differenza importante»
«Giusto. Per adesso non possiamo ordinare una birra e una Chiara Valerio, al massimo una panna con una goccia di caffè in tazza del water»
«Comunque no, ho deciso che i miei colleghi sono noiosi e mi intristiscono»
«Allora, ciccia, non posso più offrirti un aperitivo fuori?» «Certo che sì, devi farlo! Ricordati che esci con Melanie Griffith, hai presente “Una donna in carriera”?» «Sì però non mi pare che fosse una scrittrice in quel film, giusto?» «Non fa differenza. Lei è come me, compra una quantità infinita di giornali specializzati che magari manco capisce, roba di finanza e cose incomprensibili, eppure, un riquadro infinitesimale la ispira»
«Come La Signora delle Caccole, che bel personaggio» sospirò con aria sognante Max.
«Vero, la mia protagonista al momento più apprezzata, se la sono contesa ben tre riviste. Del resto, Melanie me lo ha insegnato: non si sa mai da dove può arrivare un’idea».
Immagine generata con AI generativa di Adobe Photoshop
“dipinto ad olio astratto che rappresenta una festa triste dove le persone sono sole”