Se sei povera le paure te le tieni

Con S. ci siamo lanciati un’occhiata, salendo in auto, dopo un aperitivo con due amici neogenitori. Appena le portiere si sono chiuse, abbiamo condiviso un’epifania: volevamo diventarlo anche noi. Sorridevamo e non serviva dircelo. Lo sentivamo nello stomaco.

Ma come?

Come funziona per le coppie come noi?
Avremmo dovuto chiedere dello sperma a qualcuno? 

A chi?

Quanto costa una fiala?
Quanto dura?
La devi mettere in frigorifero?
E se devi trasportarla, la metti nella borsa frigo come il cocomero quando vai al mare?

Mentre queste domande mi assalivano, mi è balenata una scena di Jane The Virgin, quando la bionda Petra si inserisce, con la siringa del tacchino, il seme dell’ex marito multimilionario per incastrarlo per sempre. Una cosa da soap opere per ricchi etero cis.
Lo stavo per raccontare a S. quando nel silenzio mi dice che «è una cosa che comunque affronteremo insieme» mentre mi sfiora il braccio. Mi fermo, il gesto è troppo dolce per citare la siringa riempi-tacchino. 

Sorrido e S. fa partire l’auto.

Nessuno lo dice ma la performance a cui veniamo sottoposte noi persone assunte e viste come donne, le femmine, le prede, insomma quelle con i capelli lunghi e il grembiule lungo, ecco noi, è davvero insensata, un bombardamento continuo. Siamo addestrate da madri, nonne e zie dagli otto anni in poi, lungo tutta la nostra adolescenza, a sopravvivere a una sola cosa importante: non rimanere incinte.

La parrucchiera Patrizia aveva constatato che mia sorella e io avevamo le anche larghe e che quindi partorire sarebbe stata una passeggiata. Ovviamente fu un trauma. Pensare di partorire era la cosa più lontana che potessimo pensare, oltre che proibita. Il nostro compito era evitarlo a tutti i costi e anche ascoltare certi discorsi poteva causarne i malefici, era necessario tapparsi le orecchie e non parlarne mai più.

Ma oggi il paradigma è ribaltato, oggi è il momento della vita in cui lo si deve chiedere e dire in continuazione. Devi assolutamente rimanere incinta, come le altre, come le tue compagne delle medie, delle elementari, le vicine di casa. Te lo chiedono al bar sport, alla cassa della Tigros, alle cene dei coscritti e in tutti altri gironi dell’inferno.

Perché comunque rimane sempre tutto a nostro sfavore, in un controllo perpetuo di corpi, come da Patrizia, con il rumore del phon asfissiante. Sono convinta che, chi si è inventato l’espressione l’università della strada, intendeva le meches rosse del salone di bellezza, come in una sineddoche paesana. Sì, perché dall’educazione all’affettività all’anatomia illustrata, tutto avveniva in questi salotti di donne giudicanti e sorridenti. Patrizia poteva aver capito la nostra anatomia con il suo sguardo da dottoressa mancata, ma non poteva sapere che di fronte a lei, quella con il caschetto alla George Harrison, era in realtà una piccola persona queer. 

Mentre S. tamburella sul volante a ritmo di una canzone che non sto ascoltando mi domando: siamo forse diventati noi i tacchini? Noi coppie queer non possiamo romanticamente avere bambini con una birra di troppo, sussurrandoci emozionati sotto i piumoni Ikea ammuffiti che sì, è il momento di fare un bambino. Intendo questo quando dico dei tacchini, siamo il frutto di un pensiero strutturato, organizzato, un sotterfugio per incastrare non il milionario ma la legge italiana e il governo fascio.

Ma poi mi blocco, non siamo tacchini, forse siamo delle galline, la loro versione povera. Perché non siamo propriamente quelle persone queer che fatturano tutto il giorno per brand inclusivi, proprio no. Ci piacerebbe, così da evitare di fare sette lavori in due contemporaneamente. Eviterei di far visita al mio conto in banca che è un quarantenne con i baffi a manubrio, un hipster del 2016, che assomiglia un po’ alla versione maschile di Patrizia, con un’ancora tatuata sul braccio. Ogni volta che lo vedo mi dà una pacca sulla spalla sussurrandomi che «c’è sempre qualcuno che sta peggio». Ma è assurdo che esista ancora qualcuno che abbia quei baffi e che creda che si sta meglio a sapere delle morti e devastazioni e cambiamenti climatici e genocidi. Possiamo dire non è questa la strategia di marketing corretta? Mi viene quasi voglia di non fare più i figli… Come se li potessi fare! Li devo pensare, organizzare, spendere, innestare, medicalizzare e così via. Ma era per dire.
S. svolta a sinistra. La canzone è quasi finita e per calmarmi buttò giù una lista mentale. Cose che ho scoperto da sola di cui non posso fare a meno: la zuppa di miso, Fiona Apple, bagni brevi e docce lunghe, le pannocchie, gli LCD Soundsystem, il cibo taiwanese, l’essere queer, Laura Marling e la maionese. Sono più calma. Mi giro e sorrido a S. sprofondando nel sedile.

Ancora lo voglio questo bambino, anzi bambinu, per far inorridire. So che il terrorismo psicologico sulla minaccia femminile della gravidanza per me, ora, è acqua passata. Al contrario, ci sono nuove questioni. Quanto è stato investito di immaginario culturale sull’epopea prosopopeica del liquido seminale maschile? Tutto quello che ci hanno detto o fatto credere, sappiate che è falso. Lo hanno fatto per patriarcale egoriferimento, perché la validazione di essere una brava partner avviene solo se stai a certe logiche. Ma il punto è che dobbiamo fare i conti anche con questo. Perché la gravidanza da persona queer in Italia è sempre in difetto. Stai sempre sbagliando e a me manca sempre qualcosa. Dai soldi all’utero al seme al tempo alla legge. È una lista della spesa persa tra i carrelli di una persona con una pessima memoria, come S. che compra più del dovuto ma che si scorda sempre qualcosa. 

E così lo stomaco si stringe, un po’ per la  fame e un po’ ripensando al listino prezzi per diventare un genitore queer. Prezzi che mi ricordo che mi aveva elencato la mia ginecologa, che assomiglia un po’ a Patrizia, l’ottava specialista che avevo cambiato nella mia vita. Era come una riunione al vertice di Stato, legge con gli occhiali un po’ sbilenchi e la voce piatta. Qualche giornalista disinteressato alla questione, i fasci tutti in fila con le magliette della Meloni e degli schermi led di 120 pollici intorno a me con la scritta SEI POVERA. E io al centro, illuminata a intermittenza, a gambe all’aria sulla poltrona. La dottoressa Patty cambia foglio e continua a leggere un altro elenco dettagliato dal podio. Non sono più prezzi, ma tutte le sindromi che ho e che nessuno prima mi aveva mai detto. Patrizia appoggia gli occhiali, le TV si spengono, i fasci fanno un passo nell’ombra, sempre pronti a intervenire. «Quindi aggiungici allo shot innestato anche le terapie per fartela andare bene, questa siringa da tacchino. Che non venga sprecata, insomma, che poi non rimane altro nel frigo»

E so che il frigo è già vuoto. E non so se riesco in un Monsieur Camuf, il termine coniato da mia madre per camuffare tre olive e un limone raggrinzito nel frigo in una cena prelibata per otto persone. Questa volta è diverso. Per inventarci qualcosa anche noi, dovremmo camuffarci in ricchi tacchini o in Patrizia o in Monsieur Camuf in carne e ossa, per diventare dei veri genitori. 

Torno nell’abitacolo della macchina, sono di nuovo qui mentre scrollo la testa, ci siamo solo io e S. abbasso tutto il finestrino e sento l’aria calda che mi sfiora i capelli. 

Sto per aprire la bocca, sono pronta a vagliare tutte le opzioni che l’Italia ci fornisce, a coppie come noi. A fare anche io un elenco dettagliato, un elenco che può aiutare altre persone come noi.

Lo faremo insieme. 

Ha ragione S.
Apro la bocca e dico: «Possiamo sempre rubare un bambino.»
S. mi guarda perplesso. Prima sorrido, ma poi ci ripenso. 

Davvero è la nostra unica opzione. 

Immagine generata con AI generativa di Adobe Photoshop

“dipinto ad olio che ritrae una siringa in plastica dentro ad una bolla di vetro illuminata”