
La regina dei piccioni
Ci siamo spiati per due anni, da prospettive oblique, senza mai scambiarci una parola, se non alla fine. All’inizio pensavamo fosse la casa, Lisa pensava fosse la casa: prima di tutto l’interno, il sedici A, inciso in oro sulla targhetta del citofono con un carattere elegante: in realtà è un diciassette secco. «Se ne sta lì camuffato tra il sedici e il diciotto, nasconde la sua ignominia dietro le gonne di una vocale forte, cosa c’è di più subdolo di un interno così?»: Lisa si era proprio fissata sulla questione dell’interno, quanto abbiamo litigato a causa di uno stupido numero, fino a quel momento non ci aveva creato alcun problema, anzi ci faceva quasi tenerezza: «È da provinciali temere il diciassette, il tredici passi, è irrazionale ma cosmopolita, però il diciassette…» Parole sue, di Lisa, la Lisa di prima, quella equilibrata e allegra, la Lisa del prima che «il maligno si abbattesse su di noi». Devo dire che l’agente immobiliare si è ben guardato dal farcelo notare durante la visita, che quello non era un sedici bensì un diciassette. Deve aver dissuaso un bel po’ di aspiranti inquilini, forse più svegli e sicuramente più superstiziosi di noi: nonostante il prezzo conveniente e la bellezza strutturale dell’immobile e il quartiere ambito, Monteverde Vecchio, l’annuncio se n’era rimasto a ammiccare sulla bacheca di Immobiliare per oltre due mesi, un fatto del tutto incomprensibile, su cui avremmo dovuto riflettere prima di prendere in affitto l’appartamento” secondo Lisa, vista anche la penuria di case decenti disponibili e i prezzi da strozzinaggio del mercato. «Qualcosa sotto doveva esserci» insisteva, «e quel qualcosa aspettava giusto due allocchi come noi». Devo ammettere che non avevamo neanche preso possesso dell’appartamento che già il condominio voleva farci causa: i traslocatori avevano solcato con una lunga linea nera il marmo candido delle zone comuni trasportando senza cura il mio vecchio Schulze Pollmann scordato dall’ingresso su per le scale, fino alla nostra porta. Da lì si erano susseguiti una serie apparentemente senza fine di eventi sfortunati, di piccola, media e grande entità, e dalla frequenza inconsueta, che per Lisa presero la forma e il nome della maledizione, del malocchio a essere più precisi, mentre per me rimasero quello che in parte sono ancora convinto fossero: sfiga, fatti della vita. Dopo la causa intentata dai condomini per danni ai beni comuni i traslocatori si erano dati alla macchia; il manutentore dei condizionatori d’aria inviato dalla proprietaria, una tirchia incallita vicina alla pensione, aveva rotto un tubo, la casa si era allagata e la suddetta tirchia negava ogni responsabilità e risarcimento; il riscaldamento autonomo, pregio che aveva spazzato via ogni residuo di dubbio al momento della firma del contratto, Lisa è molto freddolosa, non funzionava: il quadrante di controllo di orari e temperature dell’impianto dava i numeri, cambiava impostazioni da solo, si moriva di caldo l’estate e di freddo l’inverno, nessun tecnico ci capiva niente. Lo sciacquone del water si rompeva a giorni alterni e l’idraulico era diventato un caro amico che veniva a prendersi un caffè a casa nostra più volte al mese e che non si raccapezzava del mistero che si perpetrava all’interno della cassetta dello scarico, che tante volte aveva smontato e rimontato: l’acqua scrosciava all’improvviso, e faceva battere il cuore di Lisa di angoscia. La muffa, «infida come tutto in questa casa», aveva iniziato a trasudare dalle pareti pitturate di fresco, e continuava ad allargarsi come una malattia tra le fughe delle piastrelle nella doccia, agli angoli del soffitto, «rutilante nel suo verde muschioso», secondo Lisa, che diceva di poterne «scorgere bene la peluria schifosa d’insetto», aggiungendo che «La muffa è l’unica cosa viva in questa casa, tutto il resto è grigio e sta morendo, anche noi moriremo se restiamo qua!»
Accanto, sopra e sotto il nostro appartamento sono iniziati in simultanea lavori di ristrutturazione che non rispettavano mai gli orari del silenzio, nessun condomino sembrava avesse qualcosa da ridire sulla violenza del rumore continuo: trapano e martello, trapano e martello, trapano e martello: la nostra sveglia al mattino, la buonanotte che ci impediva di prendere sonno se non dopo ore la sera. Il pavimento oscillava come il ponte di una nave che sta lì lì per affondare nella tempesta; anche i muri, adesso che ci penso, sembrava dovessero venir giù, volessero seppellirci mentre dormivamo nel sonno perpetuo.
Lisa, molto sensibile al rumore, resisteva indossando cuffie da cantiere, ma non riusciva a concentrarsi, a lavorare, è una grafica e purtroppo lavora da casa. Quello fu anche un periodo di grande isolamento: amici e parenti erano spariti, tutti troppo impegnati per incontrarsi con noi, e la casa non aveva conosciuto nessun nostro ospite. Se devo essere sincero cercavo di tenermi lontano da quel posto il più possibile.
L’unica persona che veniva a trovarci era la vicina del piano di sotto, la Chiappotti, a cui non dava fastidio il frastuono incessante dei lavori ma il passo felpato di Lisa la notte quando a piedi nudi si alzava insonne per andare in bagno o bere un bicchiere d’acqua, e che riceveva puntualmente la porta d’ingresso sbattuta in faccia, fatto che non la scoraggiava minimamente dal venirci a fare visita quasi ogni mattino.
Mentre tutto questo accadeva, mentre la nostra vita andava a rotoli e in pezzi e frantumi, avevamo la costante sensazione di essere spiati. I primi giorni ho creduto fosse colpa di Lisa se anche io mi sentivo sorvegliato, colpa sua che mi stava influenzando con il suo cattivo umore, un cattivo umore che si andava trasformando velocemente in follia: non avevo nessunissima intenzione di lasciarmene contagiare. Poi lei me li ha mostrati: occhi, occhi che ci spiavano da dietro una tendina di pizzo, occhi morbosi assetati della nostra vita giovane, occhi di vecchia, pazza e sola: la vicina del palazzo di fronte.
Si era manifestata il primo giorno in cui siamo arrivati, mentre a pranzo brindavamo alla nuova sistemazione con due bicchieri di Ribolla gialla, seduti sugli scatoloni ammucchiati, dimentichi delle minacce telefoniche della proprietaria e della Chiappotti di farci causa per i danni agli spazi comuni dovuti al trasloco, stanchi ma euforici come all’inizio di ogni nostra nuova avventura: una bestemmia squarciò l’aria e uno stormo di piccioni si alzò con funereo fragore di ali nel cielo rannuvolato: «Vi ammazzo, avete capito? Non dovete cagare qui, maledetti!»: La Regina dei Piccioni, come l’avremmo poi soprannominata, si ergeva in tutta la sua pazzia. Magrissima e ossuta, l’incarnato grigiastro, la testa quasi rasata a zero, un naso a becco e lo stesso timbro di voce di una cornacchia isterica. Sedeva su una sedia di legno troppo grande per lei, il suo trono, al centro esatto del suo balcone, e minacciava il popolo dei piccioni, da quello che potevamo vedere suoi unici interlocutori, con maledizioni, bestemmie e una tazza di latta in mano che sbatteva con rabbia sulla ringhiera, le sbarre di ferro della sua prigione a cielo aperto: «Guardate che vi vedo, eh! Andate a cagare da un’altra parte, ho detto, che poi sono io che devo pulire. Oh!»: declamava ordini ai suoi sudditi, inveiva contro di loro e il loro guano, bestemmiava il nome del Signore senza remore, convinta di avere potere su quei defecatori indefessi sempre intenti a mettere al mondo altri cretini come loro.
D’altronde il popolo dei pennuti sembrava temerla: appena usciva sul balcone e batteva con forza la tazza di latta contro le sbarre della ringhiera volavano via abbandonando i loro appigli, sbucando fuori da fessure sulla facciata, da ogni angolo e interstizio impensabile e demoniaco, e uno stormo rumoroso si radunava nel cielo sopra la sua testa con gran sbattere di ali e gridolini gutturali di spaesamento: erano loro la sua gente. Era una donna del tutto sola, piccioni a parte, e all’inizio ci faceva molta pena.
Ci soverchiava dal suo quinto piano, dalle sue finestre aveva una visione quasi totale della nostra casa nel palazzo di fronte, della nostra vita, di cui era avida. Noi, dalle finestre del quarto piano del nostro appartamento, la sbirciavamo di sotto in su: potevamo solo intuire ambienti e miseria. La sua casa si rivelava, seppur dalla nostra visuale angusta, di una asetticità inquietante: lampadine nude penzolavano dal soffitto attaccate a cavi neri, nessun orpello, quadro o fotografia sui muri bianchi. Unico vezzo le tende, di pizzo francese immacolato, alla finestra di quella che avevamo deciso fosse la sua camera da letto, che scostava per spiarci con sguardo fisso e penetrante.
Sua seconda ossessione, sorella gemella di quella per i piccioni e il loro mefitico guano, era l’igiene. Quando non dava di matto o ci spiava, la Regina puliva. Indossava una tuta da operaio arancione, guanti e copriscarpe di plastica azzurri, scarpe da lavoro, e con furore maniacale igienizzava tutto: la maniglia il vetro e le inferriate della porta finestra, la ringhiera, l’altissimo armadio da esterni verde ricolmo di detersivi e prodotti per la cura della casa, ogni pertugio del suo balcone senza vasi né piante. La lunga e minuziosa pulizia quotidiana -dove la trovava tutta quella forza, quel furore, quella vecchia rachitica? – la lunga pulizia, dicevo, terminava inevitabilmente con il rito della scala: la piazzava davanti all’altissimo armadio verde e si arrampicava fin su, in una mano uno spruzzino e un panno, l’altra per aggrapparsi alla bell’e meglio all’armadio, e puliva il piano superiore del mobile con vigore. Dall’alto della sua posizione strofinava la superficie di buona lena, gesti concentrici che partivano dal centro per arrivare ai bordi, e dai bordi al centro, e poi di nuovo, e ancora, dandosi il ritmo con bestemmie ripetute e roboanti. Terminato il lavoro, al momento di scendere, il suo gracchiare cresceva e si faceva potente mentre lanciava indignata le sue invettive: «Per colpa vostra rischio di cadere e di morire, maledetti!» gridava ai piccioni, dunque conscia del pericolo che correva. Ci faceva pena sì, ma ancor più ci innervosiva quel suo oscillare nel vuoto. Volevamo gridarle di smetterla, di scendere da quella scala, ma lei non aveva risposto ai nostri saluti iniziali, sembrava non accorgersi di nessuno all’infuori dei piccioni, e poi c’era il rischio che si spaventasse e mollasse la labile presa, suo unico appiglio.
La depressione di Lisa intanto si era fatta grande, maggiore: «Ho la nebbia nella testa, è un gas nervino che mi farà scoppiare il cervello». Se ne stava tutto il giorno a letto a piangere e a dormire, stordita dalle gocce di Minias e Cipralex che io stesso le avevo dovuto prescrivere. Non è affatto facile prendersi cura dei familiari, e se la paziente poi è tua moglie è ancora peggio.
Le mie terapie però non sembravano sortire effetti: non aveva più la forza di uscire, di alzarsi dal letto. Al ritorno da un turno di dodici ore di pronto soccorso e codici rossi me la ritrovavo così: sdraiata, al buio, le tende tirate nonostante le quali diceva di sentirsi nuda: «La vecchia, quella vecchia maledetta. Il problema non è la casa, il problema è davanti, sopra, la casa: il problema è la Regina dei Piccioni!»
Al mio sollevare un sopracciglio, scettico, al mio sguardo di compatimento, Lisa insisteva: «Quella vecchia strega vede tutto, comanda tutto, lei ci ucciderà!»
Erano queste le parole con cui mi accoglieva la sera, quasi le uniche che mi ha rivolto per mesi: era diventata una fissazione, un manto che oscurava la sua mente e le succhiava via ogni energia.
Perché non ce ne siamo andati via il prima possibile? Perché era impossibile lasciare la casa, liberarci di lei. Le raccomandate per la cessazione del contratto d’affitto non venivano recapitate, tornavano indietro al mittente e la proprietaria non rispondeva più al telefono. Abbiamo deciso di lasciarla comunque, ma, valigie e scatoloni pronti, Lisa si è sentita male: le è venuta la varicella. Una varicella che non se ne andava: è durata un anno. Né io né nessun collega siamo riusciti a capire perché i farmaci non avessero effetto, perché il virus non seguisse il suo corso naturale. Per fortuna io l’ho avuta da piccolo, come gli orecchioni. Lisa aveva la faccia puntellata di bollicine e cicatrici, la sua bellezza era sfiorita: non era più la Lisa a cui piaceva tanto ridere e di cui mi ero innamorato. I suoi occhi erano finestre vuote, malate e infette, pronte a spargere il virus della depressione anche su di me.
Non sono mai stato un tipo superstizioso, né particolarmente religioso, ma ho iniziato a pregare. Pregavo Dio per la fine delle pene della Regina e anche delle nostre. Morte, che brutta parola, in certi casi andrebbe chiamata solo atto di compassione.
Che Dio esiste, cosa di cui ho sempre dubitato, l’ho capito una mattina di sole di fine estate: la varicella di Lisa se n’era andata, così come le pustole anche il dolore dentro di lei aveva iniziato a mollare la presa. La coltre grigia, la nube velenosa che ci aveva avviluppati, si era dissolta: ci siamo svegliati da un lunghissimo incubo. Il buon umore serpeggiava intorno a noi, dentro di noi, avevamo di nuovo voglia di baciarci, cosa stava succedendo? Ci siamo fatti coraggio, e abbiamo tirato la tenda in camera da letto: le serrande del quinto piano davanti a noi erano serrate, nessun gracchiare mortifero, il silenzio era continuo, meraviglioso. Abbiamo aspettato, certo, prima di cantar vittoria. Lisa ha ripreso a mangiare, il suo colorito è tornato roseo, la pelle perfetta; ha ripreso a lavorare.
La casa non era più umida, ma asciutta e luminosa, i lavori di ristrutturazione terminati, il quadrante delle impostazioni della temperatura magicamente aveva iniziato a funzionare e in casa il clima era così gradevole che controvoglia ne uscivo. Lo scarico del water rispondeva finalmente allo stimolo degli appositi pulsanti e non faceva più di testa sua. La Chiappotti era scivolata sul nostro pianerottolo e si era rotta un femore. I piccioni erano spariti, quasi del tutto.
Abbiamo pian piano riacquistato fiducia e speranza.
Era passato più di un mese oramai, più di un mese di silenzio e di serrande del quinto piano abbassate. Certo, nessuno ci poteva garantire che non fosse una situazione transitoria, la Regina poteva essersi assentata provvisoriamente, per delle cure o che so io, ma l’intuito formidabile di Lisa diceva che non era così, che era tutto finito: era dunque arrivata l’ora di festeggiare. Abbiamo brindato in onore della Regina, alla sua morte. Ci siamo scolati una bottiglia di vino bianco, un Ribolla Gialla dell’ottantasette che tenevamo da parte per le grandi occasioni, e poi abbiamo attaccato con la bottiglia di genziana, augurandole di riposare in pace. L’abbiamo voluta ricordare in costume, un bichini spaiato orribile, arancio cachi sotto e verde marcio sopra, mentre prendeva il sole di luglio sul balcone a quarantacinque gradi, il mento alzato in segno di sfida, libera e ribelle, trasudando fierezza per quel suo spazio aperto in quel momento scevro di piccioni e guano. Abbiamo riso, ballato, ci siamo abbracciati, abbiamo fatto l’amore. Siamo rinati. Tutto ha ripreso a scorrere e a fluire, i mesi precedenti una parentesi di passato, il brutto ricordo di un brutto periodo che andava già sbiadendo.
Il primo novembre 2023, verso le dieci di un mattino nebbioso e lugubre che non era riuscito a scalfire il mio buonumore, ero in cucina a preparare il caffè canticchiando. Ho alzato lo sguardo, ho guardato fuori dalla finestra, e mi è preso un colpo secco: la vecchia, la Regina, era sul suo balcone: nuda, la testa appuntita completamente glabra, senza sopracciglia; l’incarnato cadaverico, la fascia gialla del picc infilata a uno degli stecchi che aveva come braccia, il sinistro. Scheletrica, diafana, sì, quasi trasparente. È stato il naso a farmi pensare di avere le traveggole: era cresciuto, era enorme e non era più un naso, era un vero e proprio becco. È un fantasma, ho pensato. L’ho creduto per un lungo, lunghissimo minuto, in cui non facevo altro che fissarla, senza sbattere le palpebre, e lei fissava il cielo, avvinghiata all’inferriata del balcone, nuda e immobile, neanche un piccione all’orizzonte. Poi le mie palpebre si sono chiuse; le ho strizzate sugli occhi aridi che bruciavano; le ho riaperte: lei era ancora lì. Mi è venuto in mente un pensiero intollerabile: i fantasmi non muoiono.
Una suoneria che simulava il trillo di un telefono analogico mi ha strappato dalla mia trance: la Regina, o quello che rimaneva di lei, è rientrata in casa e ne è riuscita subito, con in mano un cellulare, non era quindi poi così sola la vecchia. Non avevo mai sentito il suo gracchiare rivolto a qualcuno che non fossero i piccioni, sono riuscito a carpire questo dai suoni distorti dei suoi versi: «Pronto? Sì, la malattia, all’improvviso, cancro, no, non mi serve niente, non voglio nessuno!», bruscamente ha messo fine alla conversazione e, per la prima volta, mi ha guardato: dritto in faccia, il suo sguardo sparato nei miei occhi: mi ha sorriso, senza labbra né denti perché non aveva più la bocca, il becco leggermente alzato in segno di sfida, mi sorrideva fissandomi con quegli occhi rossi pieni del riverbero del suo orgoglio folle. Mi ha sorriso, è vero, ma era un sorriso di sfida. Il sorriso ridicolo di un uccellaccio spennato.
Sono scappato via dalla cucina tappandomi la bocca con una mano, sono entrato in camera da letto in punta di piedi: Lisa stava ancora dormendo. I lunghi capelli neri incorniciavano il suo viso sereno, rilassato: chiusa nel bozzolo del sonno diventava più splendida ogni secondo che passava. No, non ho avuto cuore di svegliarla, la mia Lisa; Lisa che era tornata quella di una volta, immersa nel sonno di una vita giusta. La guardavo dormire tranquilla, e intanto tendevo le orecchie; il silenzio era pastoso e opprimente. Finché Lisa non si è mossa, ha sbattuto le lunghe ciglia scure, sbadigliando si è stiracchiata con i pugni chiusi come fanno i bambini, e mi ha sorriso: non c’è stato più niente da capire, niente da decidere. Sono tornato alla finestra spalancata della cucina: la Regina, grazie a Dio, era proprio dove doveva essere: in cima alla scala poggiata all’armadio verde. Ancora nuda, con in mano un panno, strofinava la superficie superiore del mobile alacremente come al solito suo, l’artiglio sinistro avvinghiato all’armadio, gracchiando nenie incomprensibili sulla melodia di una ninna nanna triste, e intanto dondolava, dondolava, impavida, nel vuoto: «Attenta!» ho gridato, con quanto fiato avevo in corpo: si è girata di scatto, gli stessi occhi rossi, lo stesso sorrisetto di orgoglio e sfida, ma è durata poco quell’espressione: era di terrore il suo ultimo gracchio.
Non ho guardato giù: il cielo si è aperto, splendido di vita; la matassa grigia delle nuvole dissolta in un istante; il sole è spuntato, magnifico, sfolgorante: la Regina è morta. Viva la Regina.
Immagine generata con AI generativa di Adobe Photoshop
“dipinto ad olio che ritrae dei piccioni in fila su un balcone”