Il picchio
Attendeva il suono della sveglia, gli occhi socchiusi e un mal di testa martellante, quasi nella scatola cranica ci fosse un picchio a tambureggiare ostinato. Tactacatac. La luce filtrava dalla porta del bagno rimasta aperta sul corridoio. Mosse la mano e sfiorò il fianco di Sara, rannicchiata nel nido di coperte, una cuccia che si creava nel sonno, rubandogli perfino il lenzuolo. Erano trascorsi ottantaquattro giorni. La quotidianità nuova era un tessuto cicatriziale ambiguo, aveva qualcosa di stridente, un imitatore imbranato. Tactacatac. Avrebbe dovuto prendere un analgesico dopo colazione, solo il pensiero di un’intera giornata in ufficio con quell’emicrania invadente lo nauseava. Reclinò il collo sorridendo. Tutto sommato il dolore sarebbe stato tollerabile se non si fosse costituito come stucchevole ornamento all’ambiente dell’assicurazione. Si proiettò già alla sua scrivania minuscola, tra quella del capo e del figlio, principe arrogante e odioso, col caschetto di capelli biondi alla Raffaella Carrà e la filosofia spiccia come maschera inutile per l’incompetenza. Chiuse gli occhi. Si immaginò in una pellicola di Wes Anderson, un’inquadratura statica, studiata e densa di oggetti di cancelleria. Lui stesso chino sul pc, lo sguardo stanco e un uomo dal gilet color albicocca e i baffi curati che parlando in camera ne introduceva la vita allo spettatore divertito. Ecco il nostro protagonista, quarant’anni portati in modo anonimo, buono solo a fare RC Auto. Ah, recentemente tradito dalla compagna. Dice di averla perdonata. Noi sappiamo che mente.
All’improvviso la sveglia disintegrò quella visione e gli fece spalancare gli occhi verso il soffitto grigio. La melodia orribile che si chiamava Swingy destò anche Sara che sbadigliando si sedette sul bordo del letto. Ottantaquattro giorni.
«Buongiorno» gli disse.
Tactacatac, rispose il picchio nel cervello.
Si salutarono sull’uscio di casa. Lei impeccabile con la divisa scura dell’albergo e la targhetta di plastica che rifletteva le nuvole grigiastre. Lui le sfiorò le labbra con le proprie, si sollevò il bavero del cappotto e si incamminò verso la fermata della metro. Il ketoprofene non faceva ancora effetto. Mentre saliva sul vagone direzione Clodio gli venne in mente una pubblicità che passava spesso in tv. Ogni mal di testa ha il suo principio attivo, o robe simili. Emicrania cervicale, cefalea a grappolo o tensiva. Tactacatac.
Lui non ne aveva mai sofferto prima. Era iniziato tutto ottantaquattro giorni fa, quando Sara gli aveva candidamente svelato di averlo tradito.
Ci sono tanti tipi di infedeltà ma ognuna ha il suo farmaco giusto?
Una voce impostata dentro di lui.
Per la verità le emicranie erano comparse da quando lei era tornata a casa dopo la settimana che aveva trascorso dai suoi, in quel limbo in cui la loro relazione aveva vacillato.
Non ne soffriva tutti i giorni ma c’era una certa, misteriosa regolarità. Col tempo la frequenza non era aumentata ma l’intensità sì. Poteva essere un fatto nervoso, lo stress che agisce in modi imprevedibili. Arrivò perfino a pensare che il malessere derivasse dalla propria incapacità di andare avanti e di essere chiaro con se stesso. Lei pareva aver superato ogni cosa, non erano più ritornati sull’argomento, per entrambi evidentemente doloroso. Ma lui sentiva in qualche modo di aver subito quella scelta. Lei lo aveva tradito, lei se n’era andata e lei era tornata. Ci pensava spesso. Aveva avuto voce in capitolo nel decidere di riprovarci oppure era stata Sara ad averlo manipolato? In ufficio fu la solita routine svilente. C’era un odore di chiuso ma era troppo freddo per aprire le finestre. Lì nessuno arieggiava mai. Come di consueto, poi, nelle giornate piovigginose il pos andava a rilento. I clienti sembravano giudicarlo con lo sguardo, come se fosse colpa sua. La Carrà non riusciva a destreggiarsi col gestionale e lo interrompeva di continuo. Quando, nella pausa, finì di consumare il supplì al bar di fronte, scrisse un messaggio a Sara. Tutto andava bene, gli rispose. Avevano fatto i turni, da giovedì a domenica il serale. Tactacatac. Non si era mai considerato un uomo possessivo, ma ora che qualcosa si era spezzato, assaporava quella nuova sensazione. Anche in quel caso incapace di comprendere se fosse gelosia o orgoglio ferito.
Gli bruciava passare per uno stupido ingenuo quanto non fidarsi più. Era come fare un torto alla propria persona. Come poteva andare avanti senza fiducia?
Superò il capannello di fumatori fuori dalla porta e riattraversò la strada per tornare anzitempo in ufficio. Scambiò un clochard, che si riparava dalla pioggia disteso nell’androne di un condominio, per un mucchio di stracci e si sentì in colpa. Ma non intendeva essere un’associazione denigrante, ogni tanto lui stesso si paragonava a un brandello di tessuto, buono solo per spolverare e dimenticato in un angolo quando non serve. A riposo, senza pensieri. E aveva perfino voglia di buttarsi a terra, anzi lasciarsi cadere al suolo e rimanere lì, indisturbato, come in un vecchio videoclip dei Radiohead. La testa gli pulsava. A volte, anche quando guidava, sbocciavano immagini simili. Staccare le mani dal volante e far andare il veicolo da sé, lento, fino ad appoggiarsi a un muro o un lampione. Senza far male a nessuno. Finire così la corsa. Senza nuocere neanche a se stesso. Idee strane. Per questo forse inconsciamente preferiva la metro. Meglio non rischiare.
«Altrimenti mi aumenta il premio RCA» mormorò da solo in ascensore.
Rincasò prima di lei e iniziò a cucinare. Avrebbe preso l’ennesimo analgesico dopo cena. Stare in cucina lo rilassava, anche senza fare preparazioni complicate, la mente si distraeva e vagava libera. Stava tagliando le zucchine quando Sara rientrò.
«Come è andata?» le chiese.
E lei iniziò a raccontare dei check-in e dei check-out, di una famiglia inglese, di un anziano olandese, di una coppia di toscani, di una certa età, che parevano molto innamorati e si scambiavano effusioni.
Lui aveva la sensazione che Sara tendesse a rassicurarlo. Ogni relazione interpersonale che lei poteva avere nel corso della giornata, fosse per un incontro nel lavoro o casuale, non era mai una potenziale minaccia per il loro rapporto. Gli uomini che incrociava erano sempre attempati, felicemente accompagnati o omosessuali. Suonava tutto così falso. Tactacatac.
«E il mio assicuratore preferito ha concluso qualche affare interessante?»
Lo abbracciò. Sembrava finto anche quel gesto e costruita quella frase. O forse era solo una suggestione. Si lasciò andare e scosse il capo.
«Andrà meglio domani.»
«Ma, stai male?»
«Niente di che, solo un po’ di mal di testa»
Dopo cena si addormentarono sul divano. Lui aprì gli occhi prima di lei e la osservò. Era bella. Una parte di lui avrebbe voluto svegliarla per fare l’amore. Fece per accarezzarle il viso ma la mano si fermò a mezz’aria e poi si ritirò sul telecomando. Come se svegliando Sara avesse potuto rompere quell’incantesimo di pace, di tregua, in cui perfino l’emicrania pareva sonnecchiare innocua. Spense la tv e si alzò in piedi. Sara si mosse, ma aveva ancora le palpebre chiuse e la bocca imbronciata, come se facesse un incubo.
Forse era il senso di colpa che si affacciava sui suoi sogni. Si era mai messo nei suoi panni?
Tactacatac. Si allontanò di qualche passo. Quando gli aveva raccontato la verità non aveva lesinato sui particolari. In seguito lui aveva pensato che fosse per ferirlo in modo più segnante. Per scuoterlo. Lei gli aveva descritto la sensazione delle mani del suo amante che le esploravano il seno e che scivolavano verso il basso. Il sapore della sua lingua di tabacco. L’orgasmo e il sesso orale. E poi la scena: la camera di quell’albergo maledetto che recava i resti dell’incontro erotico, l’abatjour proverbialmente caduta sul pavimento, chissà se era vero e i collant strappati nell’impeto.
Non intendo rivederlo mai più. Resterà vivo solo nel ricordo. Voglio stare con te.
Le frasi stesse erano state contraddittorie, quella vita per sempre eternata nella memoria faceva male. La cristallizzazione della felicità perduta, quasi un monumento da venerare. E un senso malcelato di rinuncia da fargli pesare.
«Io vado a letto» disse ad alta voce, con freddezza.
Lei lo raggiunse sotto le coperte. Provò ad avvicinarsi, con intenzioni che lui non riusciva a cogliere e poi si addormentò quasi subito. Lui spense la luce e cercò di prendere sonno. Il mal di testa era opprimente e nel silenzio notturno il martellare del picchio sembrava acquisire corpo e nuove sonorità.
Si addormentò pensando che il giorno dopo sarebbe stato l’ottantacinquesimo e che prima o poi il tempo avrebbe fatto il proprio dovere.
Tactacatac.
Alle quattro e zero sei del mattino, attraverso le meningi e l’osso parietale, finalmente, il becco nero e appuntito di un picchio ostinato aprì un varco d’uscita forando il cranio.
Immagine generata con AI generativa di Adobe Photoshop
“dipinto ad olio che ritrae un picchio che picchia con il becco un tronco”