Tutti i nostri sorrisi
Siamo braccati.
Il temporale circonda la biblioteca mentre i fulmini ululano randagi nel cielo. La pioggia precipita, cade rumorosamente sulle vetrate. Guardo seduto a terra una mandibola aperta galleggiare su un letto di sangue. Ho perso il conto di quante ne ho viste in un solo pomeriggio. Giro la testa verso destra. Una lingua. A sinistra. Due mani arrotolate all’indietro. Respiro. Chiudo gli occhi. È troppo per me.
Tutto questo casino è iniziato proprio così: con questa violenza, questo grigiore. Il cielo aveva il corpo di un piccione malato. Dovevamo intuirlo forse, riconoscere che qualcosa stava cambiando da tempo. Le piogge erano fitte e violente, le nubi grasse e oscure mentre il sole si sbiancava, somigliando sempre più a un lampadina difettosa. La prima volta che è sceso dalle nuvole diluviava, e un forte vento portava via sedie e tavoli da bar, spostava automobili e piegava alberi, ma le persone avevano deciso comunque di scendere in strada ad ammirare quello strano fenomeno apparso in cielo. Dopo pochi minuti però qualcuno era caduto a terra preso da un malore, qualcun altro esploso come sotto una mina, volavano corpi e vestiti, grida e interiora, e le persone, pensando di subire un attacco terroristico, fuggivano e si disperdevano come formiche, si chiudevano in casa, ma senza risultati. Non c’è stato tempo per fare nulla. Proteggersi è stato invano. Sono morti tutti nell’arco di qualche ora. Tutta la città si è spenta, implosa, forse l’intera regione, il paese.
Tutti, esclusi me e la ragazza che seguo come educatore da sei mesi, Luna.
Ho provato a contattare tutte le persone presenti nella mia rubrica telefonica, sui social network, per email, ma non ho ricevuto alcuna risposta, e le tivù e le radio hanno interrotto le comunicazioni. La città è sprofondata nel silenzio.
Non so bene cosa pensare, come sia potuto accadere, anche se in fondo non mi importa più di tanto perché so già come finirà. Questo perlomeno l’ho intuito. Mi scoccia solamente ritrovarmi in questo casino con Luna, la ragazzina non vedente dal sorriso largo e malizioso, che ogni tanto mi fa impazzire con i suoi capricci da adolescente. Ha solo tredici anni, non è un caso disperato come gli altri bambini che seguivo, ma è molto strana e vanitosa, ride spesso per ragioni incomprensibili ed emette degli acuti irritanti quando l’aiuto nei compiti, mi prende in giro e sgambetta da una parte all’altra della stanza sbattendo su tutti i mobili, dicendo che è colpa mia se poi si fa male. Proprio non la sopporto. Le avevo proposto di venire in biblioteca per evitare di sorbirmi le sue nuove manie musicali, e fortunatamente la lettura rappresentava un alibi perfetto, dato che rientra fra le sue passioni. Essendo cieca, preferisce che sia io a raccontarle la storia piuttosto che lei a toccare le superfici dei libri. Dice che c’è più bellezza nell’immaginare con le parole di qualcun altro, che il timbro della voce e la tonalità trasmettono meglio i segreti di quell’universo racchiuso in poche pagine. Ha ragione ‘sta cieca, a volte mi spaventa per come ragiona, sembra molto più grande della sua età, possiede un modo di esprimersi e di pensare così maturo che mi chiedo spesso da dove sia uscita, anche se stavolta i suoi pensieri e le sue parole non ci serviranno a molto, non ci risparmieranno di sicuro. Forse dovrei dirglielo. Le avevo promesso di rileggere L’isola del tesoro di Robert Louis Stevenson, uno dei suoi libri preferiti.
Mentre aspetto che esca dal bagno, osservo la sala d’ingresso della biblioteca: è piena di cadaveri sparsi. I corpi non si riconoscono più, sono buste di carne rovesciate per terra. È tutto confuso in un groviglio di sangue. Mi viene da vomitare, e mi chiedo come reagirebbe lei a tutto questo schifo, se continuerebbe a ridere e danzare come al suo solito. In fondo, ho più paura per me stesso che per Luna, per il mio futuro. Il mio programma era di affittare casa con due amici dopo la laurea, di andarmene dai miei e smettere di lavorare con ragazzine problematiche, mi mancava solamente la tesi per chiudere tutto e fuggire. Ero così vicino. E invece eccomi qui, nascosto fuori dal bagno dei disabili ad aspettare un’altra disabile.
Improvvisamente arriva una risata dal bagno. Mi volto di scatto. Luna esce con una mano sulla bocca, trattenendosi dal ridere mentre con l’altra cerca la mia mano.
«Credo che qualcuno abbia fatto la pipì per tutto il bagno, che schifo» fa lei divertita.
«Davvero? Ci sei passata sopra?» rispondo controllando le sue scarpe. Le suole imbevute di sangue.
«Ma secondo te sono così scema?» continua pizzicandomi il fianco. Vorrei risponderle che scema un po’ lo sembra, ma evito le discussioni e la prendo per un braccio, le sussurro di fare silenzio perché in biblioteca le regole sono chiare: niente chiacchiere. Lei annuisce e si lascia guidare. Le pozze di sangue sono ovunque, e molto scure. Devo fare attenzione.
La prima volta che li ho visti, i corpi tendevano a contrarsi, si strizzavano come panni bagnati per poi svuotarsi di ogni organo interno. L’immagine mi ossessiona ancora. Siamo fuggiti di casa quando ho assistito alla morte della madre di Luna davanti il portone. Stavamo discutendo la paga del mese, quando in quel momento preciso si è scatenata la tempesta. Sua madre non ha avuto neanche il tempo di strillare che la testa si è compressa su se stessa e il corpo si è sciolto in una massa di liquidi rossi. Tutto davanti ai miei occhi. Ho visto il mio stipendio dell’ultimo mese sfumarmi davanti, ricordo di aver balbettato qualcosa e poi le mie gambe hanno iniziato a correre verso la macchina, con Luna già dentro e la radio a tutto volume. Mi disse che la pioggia era la miglior scusa per stare insieme in biblioteca. Non le ho risposto, non ho avuto il tempo di capire né di provare qualcosa. Ho acceso la macchina, pestato l’acceleratore e siamo fuggiti, mentre alle nostre spalle si consumava la carneficina.
Al piano terra la pioggia cade furiosa, e la mia mano stringe forte quella di Luna, più piccola e delicata. La mia suda ma Luna sembra non farci molto caso. La biblioteca è un cimitero di studenti. Mi muovo cauto per la sala lettura. Misuro i passi e i movimenti, regolo il respiro, dissimulo la paura. Lei è capace di percepire ogni singola variazione del tono della mia voce. Coglie ogni mia emozione. Come quando ho rifiutato un pessimo voto ad un esame, e non sapevo bene come giustificarlo ai miei genitori. Ero terrorizzato all’idea di dover subire l’ennesimo sfogo di mio padre, e quando andai da lei a prenderla, mi abbracciò subito e disse: “Stavolta hai bisogno tu di una storia nuova”. Maledetta cieca, chissà come l’aveva scoperto. Stavolta però è diverso, non posso sbagliare.
Arriviamo all’ascensore, aperto e ostruito dai resti di tre giovani liceali, che mostrano i volti tumefatti da non so quale tipo di pressione, come se fossero finiti dentro la lavatrice.
«Facciamo le scale che l’ascensore sembra bloccato» bisbiglio.
«Uffa, sono stanca. La mamma mi ha svegliato presto stamattina»
«Dai che sei grande per l’ascensore»
«Allora quando arriviamo sopra, scelgo io cosa leggere» risponde mentre si accarezza la sua chioma corvina. Quel movimento di dita, quella grazia di nervi e candore mi acquieta per un istante.
«Ma non volevi leggere L’isola del tesoro?” e intanto sposto con un calcio i resti di una bambina sulle scale.
«Ho cambiato idea» e mi sorride ancora. Saliamo. Passo dopo passo. Luna ha quello stupido sorriso in volto che mi fa venire voglia di gridarle in faccia, scuoterla e mostrarle quello che vedo io, gli arti che evito di farle calpestare, i liquidi e le viscere penzolanti, le cartilagini. Lei cammina fregandosene del mondo. Poi per sbaglio sale un gradino e pattina su un orecchio.
«Oddio, cosa ho calpestato» grida ridendo.
«Reggiti. È solo una gomma da cancellare» le rispondo improvvisando, calciando l’orecchio di sotto. Superiamo altri organi sparsi. Un braccio di bambino pende da un altro gradino. Deglutisco. Il mio cuore striscia lungo la gola, quasi mi sguscia via. Sudo freddo, ma tengo stretta la mano in quella di Luna. Penserà che sono teso o accaldato ma di certo non immaginerà tutto questo. Poi si gira e mi fissa, mi osserva con quel suo sguardo opaco e abbraccia tutte le mie forme in un punto bianco dei suoi occhi e le scompone a suo piacimento, adunando tutta le energie dentro il mio turbamento. La deve smettere di fare così. Mi fa male quel suo modo di guardarmi. Che cazzo starà pensando poi – mi chiedo – mentre saliamo al quarto piano. Apro la porta e mi si contrae lo stomaco. Strattono Luna per errore.
«Ma che fai, Matti? Sei scemo?»
«Scusami, stavo scivolando io stavolta» dico mentre il cuore si infila fra l’ugola e la tiroide.
La sala è un vivaio di morte: uomini, donne e bambini sono accasciati nella sala principale. Mi viene da piangere. Non ho mai visto così tanti cadaveri in vita mia. Non so interpretare questa scena, non so assegnargli nessun significato.
«Matti andiamo nel reparto per grandi?» sussurra. Ignora cosa sia successo, eppure mi stupisce che non abbia ancora intuito qualche stranezza, il silenzio così profondo, l’assenza di colpi di tosse degli anziani, il rumore delle pagine sfogliate dagli studenti, le penne che cadono.
«Voglio rileggere Emilio Salgari» dice e mi strattona il braccio in preda all’emozione.
«E non tirare!» l’ammonisco.
Il suo umore non diminuisce mai di un grado, ogni volta la ritrovo felice e festiva, come se ogni giorno fosse sempre il primo, con le sue gonnelline e i capelli sciolti profumati, la sua cecità. Forse è la mia presenza o il fatto che non può vedere le oscenità che vediamo noi, vallo a capire. A me invece viene solo da piangere. Allora le stringo ancora più forte la mano, quasi a farle male. La stringo ancora, e ancora. Lei non reagisce. Respiro. Passiamo attraverso i corridoi e le varie sezioni. Ci sono resti umani ovunque, tra i libri, sugli scaffali, sopra i tavoli.
«Oh e questa cos’è una pallina» esclama Luna schiacciando con il piede un occhio umano.
«È di qualcuno per caso?» continua lei alzando il tono della voce.
«Stai zitta Luna, così ci fai cacciare!»
«Ma chi è che si porta una pallina in biblioteca»
«Non lo so ma vai avanti che la signorina ci sta guardando malissimo».
Luna allora calcia delicatamente l’occhio che scivola piano alla sua destra, fa un piccolo salto ma si affloscia subito sul pavimento. Ride.
«Scegli cosa vuoi leggere» le dico all’orecchio mentre la blocco davanti uno scaffale, uno dei pochi intatti e non ricoperti di sangue o capelli. «E non ti muovere da qui»
«Sei strano oggi» mi fa lei infilzandomi con il suo indice sul fianco.
«E smettila!»
«Sei proprio strano»
«No, solo stanco Luna, scusa»
«È successo qualcosa? Un altro brutto voto?» dice facendo una piroetta sul posto, e muove tutta l’aria, la sfibra e mi disorienta con la sua gonnellina di lana nera e i suoi capelli così perfetti.
«No no figurati, ho solo sonno, sto dormendo male in questo periodo» faccio io.
«Forse perché non mi vedi da una settimana. Quando ci vediamo poi stai bene» e si ferma su una gamba guardandomi dritta in volto. Ogni volta sa perfettamente dove mi trovo.
«Sei una furbetta tu” le rispondo, stavolta abbracciandola, e lei si raggomitola come una gatta e strofina la testa sul mio petto.
«Insomma cosa vuoi leggere?»
«Te l’ho detto, Emilio Salgari. Però qualcosa di nuovo, non sui pirati»
«Vediamo cosa c’è, allora. Tu ferma qui, non ti muovere» le dico.
Noto che anche su questo scaffale sono presenti diversi resti umani, piccole masse rosse, fili di pelle e altro materiale non classificabile, che pendono dalle copertine dei libri. Molti sono macchiati. Poi trovo la lettera S. Faccio in fretta. Con la coda dell’occhio becco Luna che si avvicina allo scaffale, allunga le mani per toccarlo.
«Ferma!» grido. Luna si blocca di colpo, spaventata.
«Ti ho detto di non toccare oggi» continuo.
«Mattia» bisbiglia lei. Il suo sorriso si atrofizza, ma con le mani si allunga per cercarmi.
«Scusami Luna, ma non puoi toccare tutto oggi»
«Perché no?» fa lei sconsolata.
«Perché oggi ci guardano male fin dall’inizio»
«Va bene» risponde guardando a terra e strofinandosi le ginocchia. È un gesto che fa spesso quando si vergogna.
«Ecco l’ho trovato, Le Due Tigri. Può andare?»
«Sì perfetto» dice, riaccendendosi.
“Andiamo, allora” e mi guardo intorno cercando un luogo dove poterci rilassare. Alla nostra destra, in mezzo alla sala, c’è un divano libero con un tavolino tondo, e qualche libro poggiato sopra.
«Vieni» e le prendo la mano con delicatezza, porgendole il libro con l’altra.
Il divano appare intatto. Così ci sediamo e mi guardo intorno per assicurarmi che non ci sia veramente nessuno. In fondo un poco ci spero.
«Oggi c’è un gran silenzio qui» fa Luna mentre si sistema la gonna e accarezza la superficie del libro.
«Hai ragione, ci sono poche persone»
«Con la pioggia saranno tutti a casa»
Guardo dalla finestra. Le nubi violacee sembrano essersi diradate, e la pioggia diminuita.
«Io ci sono» mi dice Luna composta sul divano con le gambe che dondolano.
«Bene, iniziamo» rispondo.
Inizio a leggere a bassa voce la storia. Mi concentro. Per un momento ho l’impressione che non ci sia veramente nessuno a parte noi, a parte questa lettura, questa biblioteca. Il temporale non esiste più. Così il mio cuore rallenta per un istante, si concilia con le parole. Luna è felice. Durante la lettura però mi accorgo che i suoi occhi iniziano a tingersi di diverse fasce di colori, passano dal bianco al viola, rosso, arancione, verde. Rimandano una vasta gamma di gradazioni. Mi interrompo di colpo.
«Che cosa c’è, Mattia?» mi chiede lei.
«Un secondo, mi suona il cellulare» e il mio cuore torna a saltare.
I colori invadono tutta la sala, schizzano come palline impazzite da una parete all’altra. Luna cambia espressione, ha annusato qualcosa. Mi giro e mi accorgo che la finestra è aperta. Cazzo.
«Aspetta che rispondo» dico saltando giù dal divano e sorpassando i corpi. Mi precipito verso la finestra, la chiudo con forza. Mi affaccio fuori: sta arrivando. Merda. Sta arrivando. Luna nel frattempo si è alzata in piedi e torce il collo in tutte le direzioni. Cosa ha sentito? Assisto allo sbocciare di uno dei suoi tipici sorrisi, poi si strofina una gamba sopra l’altra, le braccia dietro la schiena e ancheggia come in attesa di un regalo. Era tanto tempo che non venivamo insieme in biblioteca. Tra lo studio e le lezioni, sono stato molto occupato, e ogni volta che trascorrevamo la giornata insieme, mi distraevo facilmente. Però ora la guardo mentre brulica di grazia. Trattengo le lacrime. Esamino lo spazio: possiamo chiuderci in bagno o scendere di nuovo, nasconderci tra le scale, ma arriverebbe comunque. I suoi fasci colorati arriverebbero comunque. Non abbiamo scampo. Lo sapevo fin da principio, fin dalla comparsa di questo inspiegabile arcobaleno. Ora che ci ha visti, sta venendo verso di noi. Siamo riusciti a ritardare la nostra fine.
Tutto nel silenzio. Tutto per Luna.
La fisso.
Senza vista, il mondo acquisisce tonalità diverse. Glielo leggo in faccia, lei vede il bene senza sfumature o cromie, non possiede confini né forme.
Così mi volto verso l’arcobaleno, questo ammasso di colori magnetici che traghettano morte, e sorrido. Finalmente sorrido. Come le spiego che questo fenomeno ottico non è sinonimo di bellezza? Chi l’ha detto poi che è così bello? Fanculo penso, tanto dopo la laurea non avrei fatto l’educatore. Torno da Luna e le balbetto:
«Vieni, fuori è uscito l’arcobaleno. Vieni, che te lo descrivo»
«Che bello! È tanto tempo che non ne vediamo uno insieme!» sorride cercando nuovamente la mano. Gliela porgo e sento il sangue macerare nei muscoli, lungo la schiena, fin sopra la testa. La faccio sedere sul divano. L’arcobaleno sgretola le nuvole e sottomette il cielo, irrompendo nella biblioteca. È veloce. Ansimo.
Luna mi afferra per il bordo della maglietta e dice:
«Non preoccuparti, ci sono io qui con te»
«Cosa?»
«Ho capito tutto fin da quando sei salito in macchina. Il tuo cuore emetteva un suono diverso dal solito»
«Luna io… »
«Non fa niente, Matti. Non fa niente» ripete mentre dondola le gambe sul divano e mi tira a sé, con il suo sterminato sorriso che mi ingoia come l’arcobaleno. È il nostro momento. Assistiamo al suo ingresso. Nessun impatto, nessuna frattura. Guardo Luna mentre sento mancarmi le forze. Riguardo il suo sorriso. Lei ricambia. Piango, e anche lei sta piangendo mentre sorride, come la pioggia con il sole. Qualcosa mi tocca e mi chiude gli occhi, come un panno freddo sopra un’ustione.
Rimango in silenzio. Luna sorride. Io sorrido.
Non ho più paura.
Immagine generata con AI generativa di Adobe Photoshop
“dipinto ad olio di un uomo che tiene per mano una bambina dentro ad una grande biblioteca poco illuminata e con dei corpi a terra”