Saperlo, prima della cancrena
Dunque sono vivo, penso, al risveglio dall’anestesia, ancora in barella, nell’ascensore con cui dalla sala mi stanno riportando in camera: l’infermiera nota che ho aperto gli occhi e mi tranquillizza, È andato tutto bene.
Ora sono nel letto, non ho idea di come ci sia arrivato: dev’essere l’anestesia ancora in circolo. Un’altra infermiera mi sta collegando della fisiologica alla flebo che ho attaccata al braccio, mentre mi spiega che comunque questa sera potrò già bere un po’ di tè. Come deve essere bello, penso, credere che tutto sia casuale. Quest’operazione, l’amore, i successi che ottieni. Solo sfortuna o fortuna: che scarico di responsabilità esistenziale!
Mi perdo di nuovo, ancora una scia di sedazione.
Al risveglio, che stavolta sarà definitivo, riprendo da dove avevo smesso: mi piacerebbe pensare che io sia qui per caso, che tutto sia un caso, ma cinquant’anni sono un campo d’indagine troppo ampio per non riconoscere le catene causali nelle vicende dirimenti. Vedo cause, non caso. Dovrei fare lo scemo, essere disonesto, per sostenere il contrario.
D’istinto mi ritrovo concentrato sul mio addome e mi stupisco di non sentire più la pietra sotto il costato destro: realizzo che è il motivo per cui mi trovo qui, me l’hanno tolta quella cazzo di colecisti. E a proposito di cause, i quattro buchi che sento pizzicare nell’addome da cui, un paio d’ore fa, mi hanno estratto l’organo ormai in cancrena, so benissimo da dove vengono. La sfortuna non c’entra, e neanche cause meramente cliniche: non c’entra l’abuso di alcool (io non bevo) né una dieta troppo ricca di grassi (non mangio latticini da almeno dieci anni e ho un sistema digerente talmente fragile che la mia dieta è degna di un monaco buddista – religione che tra l’altro pratico).
Mi ricordo che nel cassetto ho il cellulare. Lo prendo, con un po’ di fatica, e aspetto che si attivi. La prima notifica è un messaggio di Giko, uno dei miei alunni del professionale. Non uno qualsiasi: ha collezionato una decina di sospensioni in tre anni, Giko; un padre che ha passato più anni in galera che fuori; un daspo, per una rissa a tredici anni con i Drughi, che ogni volta che la Juve gioca lo costringe a presentarsi in caserma per firmare. Oggi Giko frequenta la quarta, io sono il suo professore di lettere e nel silenzio della camera (il tipo del letto a fianco devono averlo dimesso mentre ero in sala operatoria) decido di leggere il suo messaggio. Com’è andata, prof, sta bene?
Mi commuovo. Il messaggio di Giko è una sorpresa. La conferma che sono la prima persona, nella sua vita, rappresentante l’autorità, che lui stimi e a cui si sia affezionato. Ma questo messaggio è anche una risposta a una scommessa che ho fatto un anno fa, e che c’entra proprio con questo letto in cui mi trovo, coi quattro buchi nell’addome, con le cause all’origine della colecistite. Per questo mi commuove che la risposta arrivi proprio ora, proprio qui.
Qualcuno di voi, magari, starà pensando che a causare il mio eccesso di bile, con tanto di coliche e una colecisti a un passo dalla pancreatite, sia stato il comportamento di Giko in classe, suo e degli altri studenti come lui. Ma non è così. Io non sono uno di quei docenti che hanno i nervi rovinati dai propri alunni ignoranti e volgari e violenti. Se dopo vent’anni sono ancora nello stesso istituto professionale dove ho iniziato, un istituto da cui molti colleghi scappano non appena riescono ad aver un trasferimento, il tipo di istituto superiore dove i docenti delle medie spediscono i posseduti dal demonio, i delinquenti, insomma se io lavoro ancora qua è perché ho scoperto di essere bravo coi ragazzi come Giko, che il mio senso sta proprio nell’incarnare l’ultima occasione di rivoluzione umana che questi disgraziati hanno prima di diventare gli adulti che vi rapineranno, che offriranno ai vostri figli le prime dosi di droga, che forzeranno le porte finestre dei vostri appartamenti mentre sarete in vacanza, che molesteranno le vostre figlie, che andranno a ingrossare le fila di disperati arruolabili da mafia, camorra e ‘ndrangheta.
Quindi no, non sono stati Giko e i suoi compagni a condannarmi alla colecistectomia: il responsabile è lo Stato.
Nonostante da vent’anni sia un dipendente della pubblica istruzione, io e lo Stato non ci siamo mai amati. Io ho sempre lavorato nonostante il Ministero (nonostante gli Invalsi; nonostante un’offerta, di materie e programmi, rimasta indietro di cinquant’anni; nonostante corsi di aggiornamento che ti aggiornano su tutto fuorché sulla didattica; nonostante gli immani sperperi a favore di una transizione digitale che consiste nel transitare da un fallimento educativo in carne e fogli a un fallimento educativo attraverso lim, classroom e powerpoint). Lo Stato d’altronde non ha mai amato me, ignorando volutamente i miei successi didattici, non interrogandosi su come riuscissi, quasi sempre, a portare tutte le classi almeno a un livello di sufficienza e ad avere un ottimo rapporto con alunni che gli altri docenti vorrebbero solo sospendere, bocciare, espellere.
Ci siamo ignorati il più possibile, io e lo Stato, e in questo modo, da parte mia, sono riuscito a lavorare bene coi ragazzi e a non mangiarmi il fegato ogni volta che prendevo atto dell’ennesimo adempimento burocratico a ribadire che le priorità, per lo Stato, sono ben altre da ciò che accade in classe. Ma con l’arrivo del Covid, questo delicatissimo equilibrio da separati in casa tra me e lo Stato, è andato in pezzi.
Giko è diventato mio alunno all’inizio della seconda, nel settembre del 2020. In prima faceva parte di quella 1G destinata a essere ricordata come la peggiore prima di sempre del nostro istituto! Ci avevo fatto solo due supplenze e per la prima volta nella mia carriera mi ero trovato in difficoltà. La collega di lettere che li aveva avuti, non appena subodorato che a causa del Covid ci sarebbe stata una promozione d’ufficio, e che dunque quelli lì se li sarebbe ritrovati tutti in seconda, aveva chiesto il trasferimento in un altro istituto.
La Dirigente, consapevole della mia capacità a trattare con alunni difficili, decise di assegnare a me quella seconda. Stavolta non si sarebbe trattato più di supplenze, ed ero fiducioso che lavorando con loro ogni giorno, avrei trovato il modo di aiutarli.
La prima settimana Giko non l’avevo visto. I colleghi che avevano avuto la classe l’anno prima sostenevano che lui fosse il peggiore e a conferma di questa nomea Giko, al primo giorno di scuola, aveva pensato bene di portarsi in spalla la bici al primo piano e farsi l’intero corridoio dei laboratori impennando su una ruota; il tutto mentre un compagno lo filmava in diretta su Youtube. Sospeso per una settimana alla prima ora di lezione dell’anno (non ho mai verificato ma potrebbe trattarsi di un record). Insomma, per conoscerlo avevo dovuto attendere la seconda settimana.
“Perché ti fai chiamare Giko?”
“Gigi l’ha scelto papà, in onore a Buffon, ma da piccolo Gigi mi sembrava da coglione e a suon di scoppole li ho costretti tutti a chiamarmi Giko”
“E quanti anni avevi quando hai picchiato i tuoi compagni per costringerli a chiamarti come volevi tu?”
“Sei”
“E ancora oggi credi che usare le mani sia la soluzione?”
“Perché Prof, lei conosce un altro modo?”
Non gli avevo risposto ma ero contento del nostro inizio. Mi avevano detto gli altri che con quello era impossibile parlare. Che se ti rispondeva a una domanda era già un miracolo. Invece io e lui avevamo avuto un piccolo dialogo. Perché non l’avevo giudicato.
Lui mi raccontava, fiero, di come costringesse la sua tipa a fare tutto quello che voleva lui; che il quartiere dove abitava era pieno di negri di merda; che le madri e le sorelle dei compagni erano tutte troie. E io non lo giudicavo. Ascoltavo. Sentivo che aveva bisogno di quello.
I ragazzi come lui cercano persone simili a se stesse, ma hanno bisogno di persone che da se stesse le possano salvare.
In quei primi giorni parlavo il meno possibile. Stavo accanto a Giko, accanto agli altri, senza paura, senza innervosirmi, senza scandalizzarmi. Facevo saltare gli schemi a cui erano abituati, fondati sulle reazioni incontrollate dei docenti ai loro dispetti, che li facevano sentire potenti. E invece con me restavano spiazzati.
“COGLIONE!” urlava Giko a un compagno.
“GIKO, non essere generico!” replicavo io. “Il coglione destro o quello sinistro? Se insulti qualcuno lo devi fare con precisione”
“PORCO DIO!” bestemmiava un altro, e io: “NON DISCRIMINATE I MAIALI!”
A volte ridevano, altre restavano interdetti. Cercavano di capire se fossi pazzo o cosa.
Giko, intanto, mi fiutava. L’odore a cui era abituato era quello del professore che ti sopporta perché pagato per farlo. Quell’odore lo fiutava in un minuto secco; e il fiutato era fottuto. Diventava il suo giocattolo preferito. Con me fiutò che l’odore non era il solito, e nel buio della sua coscienza si chiese, senza chiederselo, perché, allora, io stessi lì. Ci mise un po’ a capire, perché persone che fanno l’odore di chi ti ama non ne aveva conosciute tante.
Alla fine aveva capito: era lo stesso odore di sua nonna, quella che poi era morta di cancro; l’odore dello zio che peccato vivesse a Genova; capì che io ero lì per amore, che amavo tutti loro ma lui, e i difficili come lui, in particolare, un po’ di più.
Poi, uno della classe prese il Covid, scattò il protocollo e finimmo in DAD per due settimane.
Io la DAD, come tutti, me l’ero già fatta nel secondo quadrimestre dell’anno precedente, ma con due quinte; ragazzi che mi portavo dietro dalla prima, che mi ero cresciuto come figli, che avevo ormai trasformato in esseri umani come Buddha comanda. Eravamo in una condizione di lusso didattico, non di emergenza.
Adesso, invece, avevo Giko da salvare, e gli altri, rovinati come lui o quasi. La posta in gioco era altissima.
Mi resi subito conto che mandare in DAD ragazzi con quei problemi era una bestemmia: bestemmiare l’essere umano e i suoi bisogni. Quando si parla di scuola si parla sempre di bisogni. La scuola dovrebbe essere una risposta d’amore alla carenze affettive dei ragazzi. Non in tutte le famiglie i genitori sono in grado di amare.
E un bambino dev’essere amato, ancora prima di essere sfamato, perché è più importante essere umani che essere vivi. Le cose disumane, a opera della nostra specie, sono state compiute da persone nutrite ma non amate, vive ma non umane. Coi ragazzini non amati, il lavoro del docente diventa indispensabile.
Ma farlo in DAD non era possibile.
Appena rientrammo in aula, ne approfittai per fargli fare il primo compito in classe e scandalizzarli con gli 8 e i 9 che gli diedi. Il voto massimo che quei ragazzi avevano preso in tutta la loro carriera scolastica era stato un 6, forse alcuni un 7 di educazione fisica. E allora i miei 8? Innanzitutto avevo fatto scegliere a loro gli argomenti: calcio, moto, passare i pomeriggi nelle fabbriche abbandonate. E quindi avevano scritto. E poi non avevo certo valutato la grammatica: ma la passione, la sincerità, la fantasia e in quello quei ragazzi erano dei fenomeni: più vivi e originali dei primi della classe. Ricordo lo sguardo di Giko davanti al nove che gli avevo dato. Per la prima volta, nella sua vita, riusciva a catturare l’attenzione di un docente non distruggendo qualcosa o molestando qualcuno, ma scrivendo e raccontando. Scopriva di saperlo fare, di avere un talento.
Se non fossimo tornati in DAD dopo neanche due settimane, quegli 8 sarebbero diventati per loro una droga; per continuare a prenderli avrebbero accettato di studiare anche argomenti portati da me, si sarebbero sforzati pure con la grammatica. Ma tornammo in DAD, e purtoppo, in quel carcere digitale di illusoria condivisione sociale e altrettanta illusoria educazione, ci avremmo passato quasi l’intero anno. Per me ogni volta era più doloroso. Mi sentivo come una madre che prendeva dalla culla il suo cucciolo urlante per la fame, se lo portava al seno per allattarlo e, appena il piccolo iniziava a suggere con la sapiente violenza della sopravvivenza, arrivava lo Stato e glielo strappava via. Tutto quel latte che avevo da dare, ma mi impedivano di dare, si trasformava in bile. Bile in eccesso ogni volta che non potevo stare accanto a Giko, a offrirgli la gentilezza a cui non era abituato, l’unica in grado di evocare la sua. Bile in eccesso ogni volta che non potevo mettermi in ascolto delle richieste di aiuto nascoste nei suoi insulti. Bile ogni volta che non potevo guardarlo senza credere alla bruttezza con cui si presentava, ma piuttosto sognandolo magnifico e sorprendente. Tutte cose che in dad non è possibile fare.
Ma c’era una pandemia, che alternativa avevamo?, vi starete chiedendo. Beh, si poteva partire dalle percentuali di rischio tra gli adolescenti, praticamente nulle; aggiungere il fatto che anche buona parte di noi docenti, per ragioni anagrafiche, correva un rischio molto basso; arrivare alla conclusione che sarebbe stato più equo, da parte dello Stato, lasciarci scegliere; io avrei scelto di continuare in presenza, e quei ragazzi, Giko compreso, pure.
Lo avrebbero fatto per lo stesso motivo per cui, nonostante non studiassero e si comportassero nel peggior modo possibile, raramente erano assenti, perché quella era, nelle loro vite, l’ultima forma di protesta possibile: presentare nella pubblica piazza dell’aula lo spettacolo osceno dei loro corpi maleducati, scomposti, pericolosi e farlo con tutta la violenza necessaria a una richiesta d’aiuto che nessuno aveva raccolto finché era rimasto un invito.
Con la DAD, lo Stato li costringeva a tenerseli a casa quei corpi, a farli implodere, mentre costringeva me a farmi esplodere il fegato per non potermi prendere cura di loro. Quei ragazzi avrebbero scelto di rischiare e continuare in presenza. Magari non tutti, ma di certo non ne avremmo persi due, come accadde da lì alla fine dell’anno, ragazzi che in DAD erano quasi sempre assenti e che, all’ennesimo rientro in classe, smisero di presentarsi. Alla fine del 2022, i dati ci diranno che quell’anno e mezzo di DAD avrà fatto aumentare, tra gli adolescenti, i casi di automutilazione, di depressione, di ritirati sociali, di suicidi. Molto peggio che se si fossero presi il Covid (che, tra l’altro, nonostante le varie misure di contenimento, eravamo tutti destinati a farci, presto o tardi).
Nell’estate del ‘21 mi illusi che il peggio fosse passato. Ed effettivamente dal settembre successivo il mio lavoro in classe poté riprendere in presenza. Finalmente potevo dedicarmi ai miei ragazzi, a Giko, come volevo. Fu chiaro, da subito, che rispetto a una classe terza, erano indietro nel percorso: avevano perso quasi due anni di lavoro in classe e lo Stato aveva avallato, con la DAD, quella tendenza, già generazionale, a guardare il mondo attraverso uno schermo, invece che attraverso gli occhi degli altri. Ma adesso io potevo riportarli nei miei occhi, nei loro, in quelli dei compagni (altro che lim e classroom). Potevo educarli a quanto di più importante può avvenire in una scuola: condividere uno spazio, empatizzare con gli altri, entrare in relazione con corpi e anime che ti stanno accanto.
Per farlo, però, ero costretto a sorbirmi tre tamponi alla settimana in quanto non vaccinato. Da quasi dieci anni mi curavo con la naturopatia, una filosofia medica che non aspetta i sintomi di una malattia per poi ricorrere ai ripari con antibiotici e antinfiammatori, piuttosto lavora a prevenire coltivando il sistema immunitario, con una dieta adeguata, sport, meditazione, integratori vitaminici. Mi ero affidato alla naturopatia perché, arrivato ai quarant’anni, un’allergia cronica mi aveva reso dipendente da cortisoni e antistaminici. Nel giro di un paio d’anni ero guarito dall’allergia e mi ero disintossicato da quei farmaci. La naturopata mi disse chiaramente che il vaccino avrebbe rovinato il lavoro fatto sul mio sistema immunitario, che avrei dovuto ricominciare da capo. Così andavo avanti coi tamponi (che, di certo, non mi ha aiutato con la bile). Ma la violenza definitiva doveva ancora arrivare; nel dicembre del 2021 lo Stato annunciò la soluzione finale: chi non si vaccinava sarebbe stato sospeso dal servizio fino alla fine dell’anno. Al di là del rimanere senza stipendio per sei mesi (condizione che, essendo in part time e facendo altri lavori avrei potuto anche sostenere), la violenza fondamentale era costringermi a scegliere tra tutelare il mio percorso di salute e non abbandonare Giko e gli altri ragazzi. Quando spiegai in classe i motivi per cui avrei potuto scegliere di non vaccinarmi vidi nei loro occhi una delusione enorme: se li avessi abbandonati, si sarebbero sentiti traditi. Sia io che i ragazzi sapevamo che le probabilità che arrivasse un docente in grado di occuparsi di loro nel modo adeguato erano molto basse. Se mi lasciavo sospendere dal servizio, non pochi sarebbero stati bocciati, Giko compreso; a quel punto avrebbero abbandonato e sarebbe stata una disgrazia, perché ogni singolo anno di frequenza in più, per quei ragazzi, era una possibilità concreta di una vita migliore. Così feci la mia scommessa: tradire i miei principi, mettere a rischio la mia salute, per provare a salvare Giko e gli altri.
Il giorno che mi fecero la prima dose, quando sentii l’ago forare la pelle, il fluido entrarmi nella carne, subii la più grande umiliazione della mia vita. Lo Stato mi aveva ricattato e aveva abusato di me, sottraendomi la libertà di scegliere come curarmi. Come se non bastasse, durante le vacanze natalizie immediatamente successive, i milioni di vaccinati si contagiarono tra loro.
È stato il vaccino a dare il colpo di grazia alla mia colecisti? Oppure l’essere violentato a vaccinarmi?
Poco importa. Avevo fatto la mia scelta e alla fine di quell’anno tutti erano stati promossi.
Per questo, adesso, il fatto che il primo messaggio dopo l’operazione sia quello di Giko mi commuove: Com’è andata, prof, sta bene? Giko il terribile che si preoccupa di un prof.
Sì, tutto bene. Tra due settimane sarò di nuovo in classe con voi, gli rispondo.
Anche quest’anno, Giko, riuscirò ad accompagnare tutti alla promozione. Tranne te. Tu negli ultimi mesi mollerai. Arriverai agli scrutini con solo le mie materie sufficienti e ti farai bocciare. E l’anno dopo non ti riscriverai in quarta.
Ma io ti ho amato e tu lo sai. Sai che un professore che conoscevi da poco più di due anni si è fatto infilare un ago nel braccio per non lasciarti, si è fatto umiliare, da uno Stato che disprezza, per rimanerti accanto.
“Ti ricordi Giko, quando ti ho chiesto se credevi ancora che la violenza fosse la soluzione ai problemi?”
“Perché Prof, lei conosce un altro modo?” mi avevi chiesto.
È questo Giko, l’altro modo.
Ora lo sai.
E a me basta.
Immagine generata con AI generativa di Adobe Photoshop
“dipinto ad olio in stile surrealista di una siringa con un vaccinio che punge un braccio vicino alla spalla”