Non ho voglia
Non ho voglia.
Di alzarmi. Di fare la doccia. Di fare colazione. Di uscire di casa. Di andare a lavorare.
E anche quando prendo la macchina e vedo tutti quei larghi parcheggi nella via, mi scatta uno sfrenato embolo di dietrofront. Se poi penso alla fatica che faccio per trovare un posto quando torno a casa…
In più, questa mattina mi sento come se la notte avesse giocato a tetris con intestino e pancreas e li avesse rimessi a posto a caso appena prima della sveglia.
Il viaggio in treno è la cosa meno pesante dei miei rituali mattutini: in questo periodo che non devo lavorare anche in viaggio, riesco a far scappare la mente con un libro. E per fortuna riesco a sceglierli belli: a volte sento proprio l’immersione nelle pagine, una comunione con le parole che mi allontana volentieri dalla realtà che mi circonda.
E quando, dopo un’oretta, arrivo a destinazione, ecco arrivare nuovamente i fantasmi della non-volontà. Soprattutto quando sento annunciare treni pronti a partire per la destinazione da cui sono arrivato. Cosa ci vorrebbe a fuggire? Niente, basterebbe volerlo.
L’ho sentito dire da molti: avvisare (ma anche no) il posto di lavoro e andarsene per un giorno. A me non basterebbe un giorno. Non è l’ambiente di lavoro a pesarmi. È un fardello interiore, che cambia forma in continuazione.
Sarei pronto a fare il gesto plateale. Non sarei altrettanto pronto a doverne sopportare le conseguenze. Anche per questo ci vuole un fisico bestiale…
Arrivo a scuola, senza inciampi. E già questo è positivo in una giornata che parte così bene.
La sala professori è vuota. Tanto meglio, perché non avevo voglia di scambiare quelle due chiacchiere di facciata. Avrei finito per parlare di me. Avrei finito per lamentarmi di cose stupide invece di mettere in luce quello che non va.
Ma lo so quello che non va?
Forse non sto così bene con me stesso.
Bravo, hai trovato il rispostone. Vuoi anche premiarti adesso? Prendi i libri che oggi ti va anche bene: hai una giornata leggera.
Devo entrare in una seconda, ostica ma gestibile. Tutto sta nel non stare al loro gioco: si divertono nel vedermi arrabbiato e fanno di tutto pur di farmi urlare. In un linguaggio da totocalcio, molte mattine sono da ics in schedina, ma quelle con il due, quando ‘vincono’ loro, valgono doppio, come i gol in trasferta.
Oggi con questo malessere non so come potrebbe andare a finire. L’importante è non apparire deboli, altrimenti loro potrebbero approfittarsene. Intanto questo senso di indolenza sembra invadermi. Lento. Preciso. Inesorabile.
Non ho voglia di fare la vittima (anche se in fondo penso di esserlo): la mattinata non sarà lunga.
Tutto sembra procedere nella normalità fin quando non decido di interrogare. Al decimo che accampa l’ennesima scusa per non aver fatto i compiti mi saltano le protezioni.
E comincio un discorso a voce davvero alta.
Le parole mi vengono spontanee. Sono piccoli e numerosi proiettili che vanno a segno. Sono incisive e dirette. La voce è prorompente, stentorea, da far impallidire anche il più onesto degli studenti.
E nel momento in cui concludo vittorioso questa filippica (le loro facce sono eloquenti), ecco che mi arriva un segnale dall’interno…
Il suono che percepisco, ma lo percepisco solo io, è quello di un interruttore che si sposta da ACCESO a SPENTO.
Inizio a sentire una fitta al petto. Non lancinante,ma che si fa sentire come un bussare alla porta.
Cerco di non tradire emozioni. Per creare un diversivo, cerco di sedermi senza franare troppo sulla sedia.
Va meglio, ma non basta.
La vista subisce un leggero appannamento. Strofino gli occhi, come se fosse un piccolo tic. Con l’ultimo briciolo di lucidità riesco a dire il numero di una pagina del libro di antologia dove voglio che inizino a leggere: è un brano molto lungo. Mi darà il tempo per pensare a come uscire dalla classe senza creare panico nei ragazzi. I più svegli avranno capito che qualcosa non va.
«Brambilla, leggi tu».
Brambilla va avanti a leggere, ma la sua lettura è per me un rumore bianco, di sottofondo. Cerco di non far trasparire il panico, indicando, ma interrompendo a caso, chi debba leggere.
Sefrondini, Aimo, Liberti, Valaguardia, Zanetti.
«Avanti».
Negli occhi non mi torna più l’immagine nitida della mia classe. Vedo solo figure sfocate dai contorni grossolani. Solo la memoria mi aiuta a ricordare chi è seduto in un posto e chi in un altro.
Anch’io sto seduto. Alzarsi, camminare, muoversi accelererebbero il ritmo del sangue venoso. Rischierei di affaticare il cuore.
Tra le mie cose sulla cattedra trovo un foglio abbastanza grande che potrebbe essere la mia salvezza.
«Continua Doninelli».
Non so quanta forza mi rimanga. Devo scrivere un messaggio rapido e conciso per qualcuno che mi venga a tirare fuori di qui.
AIUTO, questa è la prima cosa da dire. Scrivo subito la parola in un maiuscolo un po’ pedestre. Non ci vedo benissimo, ma se nelle mie condizioni riesco a leggere aiuto, allora lo capiscono tutti.
«Continua Vascinelli».
Cosa posso aggiungere dopo? Intanto il dolore sembra essersi assestato. La morsa sui polmoni rallenta. Anche il cuore ha smesso di galoppare. Vascinelli sta leggendo. Di solito sbaglia tutto quello che si può sbagliare, scatenando crasse risate tra compagni e compagne.
Io non lo sento.
I casi sono due. Vascinelli ha imparato a leggere. Vascinelli legge come sempre ma la classe è più attenta a capire cosa mi stia succedendo.
Il cuore, cazzo. Perché non scrivi il cuore sul foglio? AIUTO IL CUORE. Basterà?
Strano che la classe non abbia chiesto spiegazioni su nessuna parola.
«Bassi, prego».
Forse hanno capito che sto male. Forse no. Non vedo le loro facce e non mi rendo conto se stiano andando in panico o meno. Io invece sto iniziando a sudare, ma non troppo. Ecco, panico. NO PANICO.
Sto sudando.
«Soffientini, avanti tu».
Non posso dare questo biglietto a uno dei ragazzi. Dovrei dare qualche spiegazione che non ho voglia di dare. Non ho forze, se non per parole brevi e semplici.
Il bidello! Accidenti, è appena passato!
Questa specie di emozione fa traballare quel poco di equilibrio che ero riuscito a crearmi. Meno male che la porta è aperta. Devo solo sperare di attirare la sua attenzione quando torna indietro. Altrimenti è la fine. Se devo morire non voglio farlo davanti ai miei ragazzi.
«Bernardi, per favore».
Certo che è strano. Il mio fisico sta per crollare. Invece la mia mente è lucida, pensa, rifle… Il bidello!
Il braccio sinistro alzato.
Teso.
Una fitta.
Il dolore si attenua nel momento in cui il bidello coglie il mio richiamo in silenzio. Mentre si avvicina alla cattedra ho una sensazione gradevole e rassicurante.
Gli indico il biglietto, le parole che ho scritto. Il mio sguardo, eloquente per lui, misterioso per i ragazzi.
Le mie parole sono nelle sue mani. Io sono nelle sue mani. Lo vedo che esce dall’aula con uno sguardo che ragiona sul da farsi.
Mentre attendo, «Silvestri, leggi tu», mi domando se sono stato davvero esauriente con il bidello. E mentre penso, mi accorgo di faticare a mantenere una percezione del tempo. E a ogni secondo (che ha una durata diversa da quello precedente) mi chiedo se ho scritto le parole giuste…
Cazzo, non ho scritto ambulanza!
E la mia scrittura? Ci vedo annebbiato, sfocato. Avrò scritto in modo diverso dal solito. Sarà bastato ingrandirle per renderle più comprensibili?? Avrà capito il bidello?
«Baldonzi, tu».
Sono preoccupato, ma non in panico. Sento lo stesso dolore al petto. Costante. Non mi sembra sia peggiorato da quando ha avuto inizio. Sarà la forza del mio insano ottimismo a farmi pensare così. Questo né-carne-né pesce è un preludio alla fine? E che ne so! Non ho l’hobby di collezionare infarti.
E se questo mio continuo pensare affannosamente potesse aggravare il mio stato fisico? Ma che ne so!
Adesso mi chiedo, ma se stamattina avessi scelto un percorso alternativo alla scuola? Se fossi rimasto a casa? Se fossi fuggito davvero verso altra destinazione…
Mi sarebbe successo lo stesso? Oppure si sarebbe trattato di rimandare lo spettacolo a do…
«Buongiorno bambini!»
Due giovani, seguiti a debita distanza dal fidato bidello, sono appena entrati in classe. Ci metto qualche istante a capire. Sono due barellieri dell’ambulanza. In borghese, probabilmente su suggerimento del bidello. Bidello, sei un mito: mi hai capito al volo!
Quelli che non hanno capito forse sono proprio gli alunni, che in un’altra occasione si sarebbero decisamente inalberati di fronte a qualcuno che chiamava bambini dei ragazzi di dodici anni.
Non capiscono. Vedono due studenti universitari o poco più, in jeans polo e scarpe da tennis, che in pochi istanti entrano, sollevano la sedia del professore dalla cattedra e la portano via con il loro insegnante che, con le ultime forze, li saluta.
Anch’io vedo la stessa scena. E nel momento in cui vengo sollevato sento una positiva botta di endorfina. Mi sento come un sovrano vittorioso che ha appena consolidato il suo potere. Mi sento come una specie di eroe che ascende all’empireo.
Al di là di questi deliri di onnipotenza c’è la soddisfazione di lasciare la classe senza aver creato panico o allarme.
Mentre esco, faccio in tempo a vedere il bidello, sulla soglia dell’aula, a braccia conserte, gambe appena divaricate e uno sguardo che dice Non temere, prof, è arrivata la cavalleria.
È una bevanda dissetante questa endorfina e me la vorrei godere fino in fondo. Mi alzerei in piedi per far capire agli altri gli effetti benefici di questa situazione. Ma non si scherza con il cuore.
Adesso siamo lontani da occhi indiscreti e non c’è più bisogno di fingere. E allora soccorretemi, cazzo!
Non ho voglia di morire proprio adesso.
Immagine generata con AI generativa di Adobe Photoshop
“dipinto ad olio che ritrae un biglietto con scritto A I U T O poggiato su una cattedra di scuola”