È solo il caldo padano

Faceva ancora molto caldo. Ricordo la sensazione vischiosa addosso, come se mi avessero spalmata di gelatina, da capo a piedi. Un metro e sessantaquattro di essere umana gracile, appiccicaticcia. Nemmeno il tallone si era salvato, nel mio caso. El xe mojo, è umido, era l’espressione che accompagnava ogni mia colazione. Caffè freddo e croissant, appena tiepido. Al barista Alvise mancava un dente, un incisivo credo, e puzzava di alcol già dalle otto di mattina. Aveva una di quelle facce tonde tonde, con la pelle spianata come pasta fresca, a cui nemmeno il più sapiente astrologo, o il più anziano dipendente dell’anagrafe comunale, avrebbe saputo attribuire un’età più o meno certa. I capelli, la stempiatura ancora rossiccia, parevano rimarcare la dicotomia fisica. Sopra i cinquanta per la carenza tricologica, sotto i quaranta per il colore ancora così carico. Comunque poteva anche essere uno di quei giovani vecchi a cui cadono i capelli appena superati i diciotto. O poteva essere uno di quegli eterni Peter Pan, che non riescono a sottrarsi al richiamo odoroso della tinta. Meglio della mona. Comunque Alvise non la smetteva di intrattenermi con previsioni metereologiche, di cui mi interessava quanto – probabilmente meno – dei suoi dati anagrafici.
Un giorno avrebbe piovuto nel pomeriggio, dae tre xe sicuro, aggiungeva spavaldo, un altro avrebbe fatto addirittura grandine, chichi grandi come ua bòna, un altro ancora ci sarebbe stato un sole, che ne gavarìa imbriagà. Chissà perché la maggior parte delle sue immagini avevano a che fare con il dominio etilico. E più il cielo si preannunciava ai suoi occhi piccoli e miopi nella sua chiarezza specchiata, più assumeva la forma di un calice, o di un boccale di birra. 

El xe mojo, era però il suo must have, una sorta di questione identitaria. Una volta mi ero permessa di dirgli, sommessa, Quando c’è il meteo alla tv cambio sempre canale. Allora Alvise si era fatto cupo cupo come le nuvole che minacciavano i peggiori temporali di fine estate. E parché? Lo strofinaccio che aveva legato in vita a stento riusciva a fare il giro di tutta la circonferenza, penzolava un poco, a sinistra, l’aveva fermato con un fermaglio di chissà quale entità femminile; c’erano patacche quasi su ogni quadretto, e la cosa mi infastidiva non poco. Avevo già affondato il colpo esprimendo il mio odio verso le questioni metereologiche, non potevo ferirlo anche sulle scelte in fatto di vestiario. Perché mi sembra che mi porti sfiga. Chiaramente Alvise l’aveva presa sul personale. Quindi anca mi porto pègoa? Il caffè mi inacidiva la gola, lo zucchero a iosa sulla brioche me la raschiava. Era palese che mi fossi cacciata in un ginepraio. 

Non so come ci fossi uscita. Intendo dialetticamente da quel groviglio meteo-campanilistico, e fisicamente da quel buco con le pareti coperte da una carta da parati con strani motivetti floreali, molto anni Settanta. Tutto sembrava essersi fermato, lì dentro. Era come fare un tuffo indietro, fare lo slow motion di un tuffo in una piscina piena a metà. Al cinquanta per cento avresti potuto dare una capocciata, o spanzare inondando gli altri bagnanti, per l’altro cinquanta li avresti lasciati sbalorditi. Alvise compreso, che infatti non aveva età, moglie, figli, animali domestici, passioni che non fosse quella di scrutare il cielo per ore, da quell’unica vetrata, che si ostinava a non voler pulire. Se fosse nato ai tempi dell’Antica Grecia, l’avrebbero sicuramente ingaggiato come oracolo di qualche tempietto sperduto nel niente.

Via del Vescovado era piena di portici. Padova era piena di portici. Uno spreco di mattoni e calcestruzzo. L’espressione architettonica del disturbo ossessivo-compulsivo di qualche artista rinascimentale. Ma si sa che in Padania, el xe mojo. Bisognava pur proteggersi in qualche modo dalle intemperie. Per fortuna, quel giorno non pioveva – come aveva profeticamente annunciato Alvise –, e il sole giocava a infilarsi fra un mattone, e un altro, fra una fessura del tempo, e una sciatteria di qualche manovale debosciato. Era comunque piuttosto ombroso. Il che donava refrigerio a tutti i passanti, tranne che a me. Un senso imprecisato di ansia, mista ad angoscia, paura, forse smania, mi chiudeva l’ugola, rischiando di farmi morire crepata a pochi metri da casa mia. Sui giornali locali avrebbero annoverato la mia precocissima morte fra le vittime di quel caldo settembrino aberrante e anomalo ancor prima di passare sotto i ferri di un qualsiasi medico legale. 

Il telefono aveva vibrato, silenzioso, ma mobile, nella tasca sinistra dei Levi’s corti. Nove e un quarto. Simbolo di Gmail. Avevo rallentato il passo, socchiuso gli occhi anch’essi collosi di sudore e mascara, sperando che fosse il mio relatore. Sì, doveva essere la risposta del mio relatore. Le prime venti pagine di tesi corrette. Un grande passo avanti. L’applicazione era così intasata da aver mandato per più di qualche attimo il telefono in burnout. Il cerchietto che girava mi dava la dimensione plastica, e anzi grafica, del senso di soffocamento invadente. Prima il mio indirizzo privato, poi quello accademico. Era una prassi inevitabile. Le gambe iniziavano a cedere, le sentivo mollicce sotto il peso esiguo. forchecaudine@gmail.com, ecco come avrei dovuto chiamarmi, invece del solito, scontatissimo, nome.cognome. plotonedesecuzione@gmail.com. Trentanove mail non lette, in meno di ventiquattrore. Peggio dei contatti del più prestigioso hotel di Forte dei Marmi. Almeno non c’era il rischio di trovarci la Santanché di mezzo. Il mittente era sempre lo stesso, lo stesso fastidioso espediente del nome.cognome. Ma il suo non iniziava con la M, e non finiva con la C. Tre portoni, e sarei arrivata a casa. Due archi, e sarei arrivata a destinazione. Divano, acqua fresca, tesi. Damnatio memoriae. Si poteva ancora fare, lo dovevo ancora fare. Il mio indice sinistro aveva cliccato sull’ultima, quella delle 08:50 dell’11 settembre. Manco a farlo a posta. Quale sarebbe stata la prima a crollare su sé stessa? 

 

Cara Spaccapiatti,

 

Ho notato proprio poco fa che mi hai bloccato su Whatsapp. Non voglio dirti che sia un gesto quantomeno infantile, ma ammetto che l’ho pensato. Ti do così noia? Eppure ieri non mi sembrava, quando ti ho incontrata casualmente in piazza dei Signori. Te ne stavi tranquilla con i tuoi amici, no? Ho avuto l’impressione che quel Lorenzo, quell’ingegnere, ridesse di me, quando mi sono un po’ allontanato. Forse era solo per la mia bici da donna, fa a molti questo effetto. Anche a te la prima volta che ci siamo visti, ti ricordi? E non ci sapevi nemmeno andare, quanto eri goffa, Spaccapiatti. Però quella risatina sotto quei baffetti spelacchiati mi ha innervosito. I miei sono più belli, no? Anche se tempo fa ti piaceva definirli “peluria adolescenziale”. Te lo lasciavo fare, sapevo che li apprezzavi. L’ho notato mentre stavo facendo una pausa, a casa di Gioia, stiamo preparando quell’esame bastardo, sicuro non supero il 23 a ’sto giro. Comunque poi non sono più riuscito a concentrarmi. Dopo l’infelice scoperta, intendo. Mi sono irritato al punto che anche Gioia si è preoccupata, e ha finito per smettere di ripassare anche lei. Non proprio il massimo. Vorrei sapere però perché l’hai fatto. Vuoi tagliarmi fuori dalla tua vita per sempre? Sarebbe meschino da parte tua, e non credo sarebbe quello che vorresti. I tuoi amici ti condizionano troppo, ma questo te l’ho già detto. Comunque vorrei riuscire a parlarne con te di persona. Ma se ti citofono, aprimi. Non sono mica un assassino 

 

Ci vediamo dopo, spero,

 

Ti bacio meglio di quello che fanno nei libri che ti piace tanto leggere,

 

Tuo Pi.

 

Effettivamente era stato di parola. Alle 19:15 aveva iniziato a scampanellare. Prima solo uno o due tocchi. Poi quattro, cinque, fino ad arrivare a un unico suono continuo, la litania del persecutore. Aveva chiamato il mio nome più, e più volte, prima con il soprannome – rimasuglio dell’estate prima, e di un litigio finito male –, poi con il mio nome di battesimo, per intero, abbreviato, sincopato. Piangeva. E anche molto. In maniera inconsulta. Non vedevo perché avevo le tapparelle abbassate, la luce stanca di calore filtrava fra le stecche di metallo. Me lo immaginavo, appena fuori il portico, davanti alla farmacia, forse perfino con i piedi sulle strisce pedonali. Era piegato? Inginocchiato? Dritto dritto come un vigile urbano? Me lo immaginavo raccolto, quel batuffolo di quasi un metro e novanta, rannicchiato come un pulcino spaurito. I lunghi capelli, more di rovo, cascanti sul viso nascosto fra le braccia. Alle 19:40 era finito il piagnisteo. Avevo tirato un respiro, più di mezz’ora di apnea, manco quando facevo le gare di nuoto. 

A cena avevo i bastoncini Findus, e il troppo olio sul fondo della padella aveva riempito la cucina/camera da letto/soggiorno di un insopportabile, britannico odore da fish&chips. Avevo aperto un poco una finestra. Erano entrate delle zanzare padane. Facevano festa, e si godevano il mio procrastinamento degli impegni domestici. Quando mi sarei decisa a mettere delle zanzariere? Se ne parla la prossima estate, ormai.

Alle 20:25 mia madre aveva provato a chiamarmi. Solo un tentativo, andato a vuoto. La sigaretta tra l’indice e il medio della mia mano sinistra aveva oscillato a ritmo delle vibrazioni dell’IPhone. Nella foto era bella, e sorrideva spensierata. Nel suo costume da bagno intero, sembrava danzasse una danza invisibile. I piccoli seni parevano quasi muoversi, maracas erotiche. Erano una delle cose che avevo ereditato, insieme alla peluria bionda, e alla sensibilità. Ero tornata sulla tesi. 1981, processo a Prima linea. Alvise, mi riporti in quegli anni truci? Più truci di quello che sto vivendo? Meno violenti di quello che sto subendo?

Alle 21:10 aveva iniziato a cantare. Un brano di Ed Sheeran aveva risuonato nella strada già deserta che costeggiava il fiume, vitale nel suo sciabordio. L’acqua, e la sua voce stonata, profonda da valligiano, si erano mischiati in una sinfonia scordata, la chitarra vecchia di Jimmy Page, dimenticata in chissà quale scantinato della California. Più cantava, e più in quelle note distorte ci vedevo ricordi nitidi. Il primo incontro, la prima serenata – esistevano ancora ragazzi che le facevano? –, il profumo del primo sesso, l’odore di quello già consumato, le sue strane fisse, le formule matematiche che scriveva ovunque, su fogli strappati da quaderni, biglietti da visita che accumulavamo entrando in tutte le gallerie d’arte del territorio veneto, tovaglioli di ristoranti, Scottex di casa, lettere che mi scriveva, le fughe a Venezia, i gorgheggi sotto le finestre di chissà chi, le secchiate d’acqua che ci beccavamo.

Era come se un film muto mi scorresse davanti. Non riuscivo ad alzare il volume, eppure sentivo tutto. Nelle orecchie, nei timpani, nella pelle, nel sottocutaneo, perfino nelle ossa. Ad arrivare all’anima sarebbe bastato un niente. E forse quel niente era già tutto. Perché eravamo arrivati a tanto?

Perché sei arrivato a tanto?

Spaccapiatti, scendi dai.

Dovevi proteggermi, avevi promesso di farlo. Cosa sei diventato poi? L’ombra furtiva di quei ricordi? La mia stessa ombra?

Aveva smesso di strimpellare, la voce si era assottigliata negli ultimi versi. Una vicina si era affacciata, aveva gridato qualcosa di orribile in dialetto, il marito l’aveva rimproverata bestemmiando. 

Avevo deciso di chiudere dopo che mi aveva tirato una racchetta addosso. Giocavamo a racchettoni sul bagnasciuga della più bella spiaggia della mia casa al mare. Argentario, luglio pieno. Non l’avevo provocato. Non avevamo discusso. A differenza del mio piatto-frisbee, non c’era un pregresso nemmeno lontanamente giustificabile. Forse stava perdendo, ma non ricordo che tenessimo il conto di un seppur vago punteggio. Ricordo però bene il dolore alla coscia, e poi al fianco, paletta, e manico. Ricordo le mie urla, poi le sue. I miei insulti, le sue lacrime. In ginocchio sulla sabbia, vicino ai miei piedi affondati, Maddalena e Gesù, tutto al contrario. La macchina piena di granelli, granelli ovunque, sui sedili, sui pedali, sui palmi delle mani. Ora ti porto in stazione, e te ne torni a Bergamo. Sì, te ne devi tornare a Bergamo, Pi. Non stai bene. No, non è stato un momento. Devi curarti. Guardava sul cruscotto i gusci di telline che aveva raccolto, li contava mentre lo sgridavo, mentre volavo verso la stazione, Orbetello Scalo. Niente valigia, niente cambio, niente di niente. Niente voglio più sapere di te, e smettila di fare l’autistico. Una zampata sulle telline, rabbia felina. Non aveva pianto più. Non aveva parlato più. Solo, appena sceso dalla mia Panda, si era sporto dal finestrino abbassato a metà, Non ti libererai così facilmente di me. Non l’avevo presa né come una frase amorevole, né come una minaccia. Credo che all’epoca non avesse la dignità di nessuna delle due. 

Mentre guidavo tornando a casa, da sola, avevo ripensato a quando una sera, immersi come pesci nell’umidità padana, mi aveva chiesto di indossare una mia maglietta, una che usavo per dormire. Era larga, gli sarebbe andata bene. Poi mi aveva chiesto di essere truccato, proprio come me, appena un accenno di matita nera intorno agli occhi, i miei blu come il mare della Liguria, i suoi castani e fitti come la pineta dell’Argentario. Così, sembrava uscito dal set di un film di Bertolucci, ed era bellissimo, di una bellezza sporca e pulita, selvaggia e impertinente. 

Aveva iniziato a scrivermi alcuni messaggi su Whatsapp: scuse, richieste di perdono, niente di più. Diceva che eravamo una forza insieme, che nessuno ci avrebbe divisi. Io mi sentivo già più debole di un grissino, e allora avevo pensato che la forza me l’avesse rubata, e io dovevo andare a riprendermela. Sì, dovevo correre a riprendermela. E più assecondavo i suoi messaggi, e più mi sembrava di riacquisirla. Poi erano arrivate le chiamate, a tutte le ore, del giorno, e della notte. Gli mancavo. Voleva sentire la mia voce, come stessi, cosa facessi, cosa mangiassi – lasciavo ancora il torsolo della mela piena di polpa intorno? Lo nascondevo ai miei. Mettevo il telefono in silenzioso, senza vibrazione. Poi ho iniziato a cambiare i nomi. Ogni giorno uno diverso. Mi sembrava fosse divertente. Fino a un certo punto forse lo è stato. Era un nostro gioco, e noi volevamo giocare indisturbati. 

Poi però al tono premuroso si è iniziato ad alternare quello imperativo. Dobbiamo rivederci. Dobbiamo tornare insieme. Dobbiamo sistemare il piatto, ti ricordi il piatto che hai rotto? Io volevo solo dirgli che avevamo rotto molte altre cose, oltre al piatto, e che io di piatti ne vedevo ormai troppi pochi, e sempre più vuoti. Ero dimagrita, di molto. Parlavo sempre meno, e sempre con più nervo. I miei hanno iniziato a capire. I miei amici hanno iniziato a capire. Tutti hanno iniziato a capire, tranne me.

O forse capivo anche io, e negavo a me stessa l’evidenza di uno sfacelo. È arrivato il terremoto. Puoi solo evitare di essere travolta. E invece io da te volevo essere travolta, Pi. Nel travolgermi non mi avresti salvata? Di rientro a Padova, quando ormai dell’estate ci era rimasta solo una polaroid sbiadita, e qualche rimasuglio di abbronzatura, me l’hai promesso. Seguendomi con la tua bicicletta, me l’hai promesso. Mi avresti salvata. Da cosa poi? Non lo so, non saprei dirlo. Il cigolio di quegli ingranaggi troppo femminili non oliati mi è rimasto impresso come la prima volta che senti il rumore di un’ambulanza. Stanno arrivando i soccorsi, ma tu sei già morto. 

Abbiamo dovuto chiamare le guardie, poi l’avvocato. Sì, anche l’avvocato. Gli amici, quelli che tanto disprezzavi, hanno dovuto farmi da scorta. La sera non giri da sola, col cazzo. I miei sono venuti a trovarmi molto più spesso. Almeno una cosa buona l’hai fatta. Ho iniziato a prendere gli ansiolitici, ad avere attacchi di panico, manie di persecuzione. Ti vedevo ovunque. In ogni volto di ragazzo. In ogni mano che mi toccava. In ogni corpo che si avvicinava, c’eri tu. 

Questo è successo tempo dopo la tua ultima serenata. Tempo dopo le bestemmie dei vicini. Io che mi affaccio, ti sorrido, novella Giulietta. Tempo dopo le tue ubriacature. La mano che ha stretto troppo forte il mio braccio esile. Le tue provocazioni. Le tue minacce. Le tue mail.



Quando ho sentito di Giulia Cecchettin, ho pensato che fosse una terribile coincidenza onomastica. Io, che pensavo di essere la tua Giulietta. Poi ho pensato che fosse un’orribile coincidenza geografica. Padova su Padova. Infine che fosse un’agghiacciante coincidenza anagrafica. Ventidue anni per i miei ventidue anni. L’unica cosa che veramente ci differenziava era lo stato del corpo. Il mio ancora vivo, il suo morto in una grotta. 

Mentre vedevo le immagini scorrere sul televisore, ho ripensato per un attimo al mare, alla lingua di sabbia, ai miei piedi affondati, alle tue ginocchia affondate, alle preghiere, alle promesse, ai baci, agli schiaffi, all’alcol, alle benzodiazepine, all’adrenalina, all’ansia, all’avvocato Mattotta, che oltre a essere il migliore in circolazione in fatto di violenza sulle donne, è proprio una gran bella signora, alla sua messa in piega il giorno che l’ho incontrata, ai suoi ricci, e ai tuoi, alle canzoni di Ed Sheeran che non riascolterò mai più. Ai numeri bloccati. Tutti quelli da cui hai provato a chiamarmi. Ai tuoi occhi truccati, ai miei struccati. 

Mi sono toccata la gamba sinistra, poi il fianco. Mi sono alzata dal divano. Le gambe mi dolevano un poco, reminiscenza fisica. Il corpo sa tutto. Mi sono accesa una sigaretta. L’ho rubata dal pacchetto del mio fidanzato. Si chiama Emanuele, credo ti starebbe simpatico. Non penso se ne accorgerà. Nella semioscurità della stanza, c’erano solo due luci, la punta della Marlboro, e il blu elettrico dello schermo. Ora trasmettevano il numero del centro antiviolenza della Regione Lazio. La terza, quella che doveva essere la più luminosa, era già spenta.

Immagine generata con AI generativa di Adobe Photoshop

“dipinto ad olio di un racchettone da spiaggia in legno abbandonato sul bagnasciuga”