Dulche de leche

Mi hanno suggerito di cominciare a scrivere qualcosa, dal principio. E io, innanzitutto, vorrei dirti che mi sei mancato e mi manchi.

Mi chiama dulce de leche. È argentino e parla spagnolo, ma per me non è un problema perché lo capisco, sono stata in Erasmus a Madrid. Giocare con i nomignoli lo diverte: mi chiama anche marziana perché gli ho spiegato l’origine del mio nome, Marzia. Mima E.T. l’extraterrestre quando mi telefona, adorabile. Lui si chiama Vasili, un nome russo: quando gli ho chiesto come mai mi ha detto che suo padre forse aveva bevuto troppo. Ha ventotto anni, cinque più di me.

 

Abbiamo cominciato a chattare a luglio, mi ha scritto su Instagram, e da lì non abbiamo più smesso. Gli ricordavo un’attrice argentina degli anni ’80: esagerato, lei era eterea e troppo gnocca. “Lei però ora es abuela (nonna)”. Ho riso.

Apprezza molto le mie fotografie, quelle di Palermo della scorsa estate, lo hanno commosso: dice che in quelle strade c’è una malinconia mascherata dai colori, mi ha chiesto se questo velo grigio arrivasse da me. Di lui non posso dire lo stesso, nelle foto in cui sorride i suoi occhi brillano.

Vive nella Patagonia argentina e ha da poco preso la patente nautica, lì certi laghi sono così grandi e ventosi che spaventano quanto il mare. La prossima estate sta pensando di passarla in Italia, adesso può fare lo skipper, sta già studiando l’italiano, qui potrebbe lavorare tutta la stagione.

La sua voce, la prima volta che l’ho sentita, non era come l’avevo immaginata: profonda, calma, matura. Gli è dispiaciuto non fosse come me l’aspettavo: è dannatamente dolce. Mi ascolta tantissimo, quando possiamo ci parliamo anche più di una volta al giorno, sempre nel pomeriggio (lui è quattro ore dietro).

Ad agosto Brusciano è una terrazza senza affacci, bollente ed esasperante. Chiusa in camera, dopo pranzo, parlare con Vasili era un inverno mite, il persistente riparo fresco e umido delle cantine e dei portoni. Una volta l’ho portato al mare con me, siamo stati a Licola ad ascoltare il tramonto insieme.

Questa cazzo di città è uno scherzo, nessuno parla veramente, anche le mie amiche, sono delle marionette agitate da un burattinaio triste e sadico: innamorate perse di cuozzi senza speranza che le abboffano di braccialetti Pandora e scopate liberatorie. Vasili dice che è così ovunque, che è normale sentirsi soli quando si è così sensibili, ma c’è sempre una via d’uscita. I miei genitori hanno smesso di sorridere, con tutta probabilità, il giorno in cui sono nata, figurati di fare l’amore. La stanchezza è il loro unico stato d’animo. Mio padre torna a casa alle 18 e in qualunque momento dell’anno per lui è già buio. Mia madre pranza con me prima di tornare a lavoro e ci scambiamo momenti di intimità vera sfiorandoci le braccia mentre sparecchiamo in silenzio. Con Vasili l’intimità è arrivata con il mio autunno e la sua primavera. Facciamo correre l’immaginazione e la voglia di vederci e toccarci: io faccio venire lui e lui fa venire me. A voce e per messaggi, non cambia. Masturbarmi con desiderio mi lascia il corpo molle, un vuoto esultante.

Nel frattempo ho ricominciato l’università, la magistrale a Napoli, ci sentiamo quando finisco le lezioni, in treno e passeggiando verso casa, la strada per raggiungerla con lui non finisce mai e se finisce torno indietro e riparto dalla stazione. Questo viale ora fa meno schifo. 

Vasili è anche insicuro, non vuole videochiamate, dice che sicuramente lo troverei goffo, ha paura di perdere la nostra intesa. Di persona è tutta un’altra cosa, sarà un nuovo conoscersi. E allora a Natale abbiamo deciso di vederci, a Buenos Aires, per dieci giorni. Ha degli amici lì e una camera dove possono ospitarci. Ai miei genitori ho detto che andavo a trovare Amaia, la mia compagna di corso argentina a Madrid, abita a due ore dalla capitale. È l’unica a cui ho raccontato di me e lui. 

Sono partita con una valigia leggera, con i vestiti dell’estate che quest’anno sono rimasti in attesa frenetica nell’armadio fino a dicembre. L’appuntamento era in centro, al capolinea della navetta dall’aeroporto. Sono arrivata alle dieci del mattino in Plaza de Mayo: l’albero di Natale al centro vestiva leggero ed era più malizioso che a Brusciano. Ho aspettato Vasili fino alle ventuno. Poi ho cercato un ostello e per i successivi sette giorni ho passato quasi tutto il giorno nella sala comune dove gli ho scritto che ci saremmo potuti incontrare. Poi ho preso un treno per raggiungere Amaia, prima del volo per Roma il 30 dicembre.

Atterrata mio padre sembrava finalmente sveglio: ho controllato, fuori era comunque buio. Mia madre mi ha abbracciata e piangeva. Amaia ha raccontato tutto ai miei mentre ero in viaggio.

Adesso mi dicono che lui non è reale, che sono stata raggirata, presa per il culo da chissà quale maniaco. Che va comunque tutto bene e che devo dimenticare. 

Ho fatto in tempo a tornare per festeggiare il Capodanno. A mezzanotte i miei genitori si sono fatti gli auguri senza darsi un bacio.

Immagine generata con AI generativa di Adobe Photoshop

“dipinto ad olio di due mani con due flute di champagne che brindano”