Mamilhapinatapai

Ti ho visto sulla linea A di Roma, direzione Battistini.

Sei salito il 27 dicembre a Giulio Agricola. Erano all’incirca le sei di sera. Avevi una giacca scura imbottita e un paio di jeans. Io indossavo il mio cappotto blu preferito. Non ti aspettavi di trovare posto, l’ho capito dalla faccia che hai fatto. Ecco perché ti sei illuminato quando ne hai visto uno libero di fronte a me, tra un’indiana e un anziano col bastone. Ho pensato che dovessi essere molto stanco.

Dopo che ti sei seduto ci siamo guardati per un istante. Mi hai puntato addosso gli occhi verde scuro e mi è venuto naturale farti un sorriso. Credo che in quel momento sia successo qualcosa. Non so di preciso cosa e tuttora mi sembra giusto così. Una supernova che brucia velocissima.

Ho provato ad aggiustarmi. Mi sono ravviata il ciuffo con le dita e ti ho beccato di nuovo a fissarmi. Abbiamo distolto lo sguardo immediatamente, allora. Ci siamo vergognati. Col passare dei minuti ho finito per costruire una versione fittizia di te nella mia testa e mi sono affezionata. Cose che capitano.

Ho cercato di farmi venire in mente un modo per attirare la tua attenzione, qualcosa per indurti a parlarmi, ma non ci sono riuscita. Ho pensato anche di prendere coraggio, avvicinarmi e dirti qualcosa. Ma cosa? Tutto mi sembrava inutile, così non ho fatto niente. Ho continuato ad aspettare, ripetendo a me stessa che in realtà stavo facendo molto. Non so che pensavo. Quando hai tirato fuori il telefono e hai iniziato a leggere qualcosa, ci ho messo poco a notare che avevi gli occhi immobili sotto le lenti degli occhiali. 

La mia fermata era Termini, ma a Termini ho deciso di restare su, raccontandomi che potevo scendere a una delle fermate successive e tornare indietro. Repubblica, Barberini, Spagna, Flaminio. Nessuno di noi due scendeva. Lepanto, Ottaviano, Cipro. A Valle Aurelia ho cominciato a pensare che avrei perso il treno per tornare a casa. Casa mia a duecento chilometri. Sarei dovuta scendere subito, prendere una metro in direzione opposta, sperare di farcela. Ricordo di aver pensato: neanche per sogno. Col cazzo. E sono rimasta seduta.

Quando siamo arrivati al capolinea, a Battistini, anche allora abbiamo continuato ad aspettare. Tu mi hai guardata scuotendo la testa con aria interrogativa. Ti chiedevi cosa ci facessi ancora lì. La stessa cosa che fai tu avrei voluto dirti, ma mi sono limitata a piegare il collo, minimizzare. Mi sono distratta, ecco tutto. E tu? Che ci facevi seduto? Avrei potuto domandartelo. Avrei potuto domandarti qualunque cosa. Non ho detto niente, però. 

E così siamo tornati indietro. 

Pensavo a chi fossi mentre continuavo a fissarti in mezzo alla folla di una città devastata dalla storia. La storia è lunga. No, più lunga. Persino più di così, più lunga di tutto. Mentre la voce metallica annunciava l’arrivo a Vittorio Emanuele, mi sono alzata e sono venuta da te. Ancora non posso credere di averlo fatto. Il coraggio cova latente per chissà quanto, aspettando i momenti più assurdi per schizzare fuori. Mi sono seduta alla tua sinistra. Di colpo, le mie fantasie su chi fossi sono state risucchiate in un buco lontano dalla mia mente. Ti sei mosso pianissimo verso di me una cosa impercettibile, eppure… era come se ci stessimo toccando. 

Ho sentito sulla pelle un brivido tagliente e doloroso, ed era la tua storia. Ti era uscita di dosso trapassando la barriera dei giacconi pesanti. Qualcosa su te da piccolo e te a vent’anni. Aspettative e risultati da ottenere, mani in cui avrei affondato la faccia. Ma non riuscivo a superare il trombo di sangue che avevamo frapposto tra noi. Era il genere di silenzio che rivela una voragine. 

Ho desiderato così tanto che mi parlassi… Sarebbe bastata una cosa qualsiasi, tanto avevo già capito tutto. Ho cominciato a darmi degli obiettivi, allora: se tra due fermate non mi avrà parlato, scenderò. Scenderò alla prossima. Scenderò a Subaugusta, se non mi avrà parlato. Cinecittà. Anagnina. Scenderò. Siamo arrivati al capolinea di nuovo. Poi ancora. Avanti e indietro per la linea A. Mi ero convinta che dovessi fare qualcosa tu. Quando mi sembrava di aver accumulato coraggio a sufficienza per alzarmi, tu sospiravi, o ti muovevi appena, e quella cosa bastava a riaccendere la speranza dentro di me. Mi convincevo che anche tu stessi cercando il coraggio, e così tornavo ad aspettare. Qualunque cosa sarebbe bastata ad avviare una conversazione – lo sapevamo entrambi a quel punto – ma niente, restavamo immersi in quello stupido silenzio. E c’era sempre più spazio per altro silenzio.

Non so quante telefonate abbiamo ascoltato, quanti studenti abbiamo visto, musicisti, suore nere, ballerini, mendicanti. Persone come noi, gente a metà. Ti sentivi in imbarazzo? Credevi di disturbarmi? Eppure l’ho sentito che c’era qualcosa. Non so dirlo meglio. La vergogna di provare qualcosa di bello: una grande X rossa sul petto. In certi momenti allungavo i respiri per evitare di mettermi a piangere. 

Sono rimasta ad aspettare in silenzio anche dopo aver perso tutti i treni per tornare a casa. Ho ignorato i messaggi sul cellulare (Dove sei finita?, Va tutto bene?, Che è successo?) finché la batteria non è morta. A un certo punto, per un attimo, ho pensato di aver sentito la tua voce. Mi sono voltata di scatto verso di te, ci siamo guardati. Ho sbattuto le palpebre, ho sperato. Non ho smesso di guardarti perché volevo suonasse come un incoraggiamento. Puoi parlarmi, ho provato a dirti con gli occhi. Ma tu non l’hai fatto.

È stato allora che mi sono arrabbiata. Proprio non riuscivo a capire come mai non te ne fossi ancora andato, dato che non facevi niente. Mi ero seduta accanto a te. Io. Accanto a te. Mi avevi permesso di srotolare la tua vita con delicatezza, come un filo di perle. Devi essertene accorto, ho iniziato a muovermi di continuo. Mi prudevano le gambe. Nella mia testa facevo le vasche. Un vecchio trucco che usavo da bambina per scacciare la rabbia. Cercavo di non staccarmi la lingua a morsi. Sentivo lo stimolo della pipì, un’emozione sottopelle. Ma anche un retrogusto amaro. Un sassolino conficcato in gola. Un sassolino di tristezza per ciò che non volevi non riuscivi a fare. Nulla ti usciva dalla bocca. Mi sono sentita nuda quando ti sei avvicinato ancora. La tua gamba contro la mia gamba. Perché non squarciarti la pancia come un pesce pescato e sparpagliare le tue viscere nel vagone? mi sono detta.

Non ho retto più. Non riuscivo a tollerare che mi leggessi dentro senza parlarmi. Non so che ore fossero, era notte. Le undici passate o peggio ancora. Mi sono alzata, le gambe di gelatina, mi sono aggrappata a un palo lì vicino per avvisarti che stavo per scendere. Lo avrei fatto sul serio. Svicolare fuori all’apertura delle porte sarebbe stato da vigliacchi. E invece, una manciata di secondi per costringerti a decidere di seguirmi. O dirmi qualcosa, qualunque cosa. 

Una scossa di elettricità mi ha percorso la spina dorsale quando mi hai guardato confuso. L’ho capito subito che non te lo aspettavi. Forse non eri pronto. Ho provato tenerezza per quella tua faccia smarrita. Bella, ma smarrita. Come se nei due metri che adesso ci separavano – infiniti – ci fossero terminazioni nervose e correnti sinaptiche e… battito. Ho cercato di guardarti, risoluta. Poi ho cambiato animo. Parlami, ho provato a dirti di nuovo. Fa’ qualcosa e io mi rimetto a sedere. Vieni con me e restiamo seduti vicini per tutta la notte. Non so dove. A premere le braccia e le gambe. 

Quando le porte si sono aperte ho avuto un attimo di esitazione. Non avevo nemmeno capito dov’ero. San Giovanni? Speravo solo che dicessi qualcosa o mi fermassi. Ma invece di tirare fuori un mucchio di roba sepolta, o sensazioni trattenute, ti sei limitato a guardarmi. Avrei giurato fossi dispiaciuto, ma non è bastato. Non hai detto niente e così ho dovuto farlo. Scendendo mi sono sentita in uno strano stato di allerta, oltre la soglia di una tranquillità da difendere. Ho guardato il tuo collo e le tue spalle piegarsi di là dal finestrino. Credo ti sia preso la testa fra le mani. Perché non ti sei voltato? Ho avuto l’impulso di colpire forte il vetro con i palmi. Se mi fossi messa a urlare, a colpire… ti saresti scosso? 

Dopo che il treno è ripartito, c’è voluto qualche minuto per rendermi conto che te ne eri andato davvero. Per un po’ non mi è importato e ho continuato ad aspettare. Un’ora, più o meno. Ho sperato di vederti ricomparire, proprio non riuscivo ad accettarlo. Mi aspettavi anche tu? Ho detto anche: per favore…

Quando ho salito le scale e sono riemersa in superficie faceva un gran freddo. È stato in quel momento che ho capito che non ti avrei più rivisto. Mi avevi restituito al corso del tempo senza emettere alcun fiato. Ho pensato che fosse un problema piccolo e sciocco, come ogni atto mancato di questa vita. Volevo solo un contatto con te. Volevo solo… sentirti.

Fuori, nella notte, ho iniziato a piangere. Un pianto epico. I pericoli non li ho neppure considerati. Lo sentivo in tutto il corpo quel silenzio vivo animale. Ho tirato su forte con il naso, mi sono lasciata scuotere dai singhiozzi, al largo. Che altro potevo fare? Ho guardato avanti e ho provato a sopravvivere all’onda gigante. Eri più presente di me, il tuo silenzio era presente. 

Non mi ero mai sentita così viva.

Immagine generata con AI generativa di Adobe Photoshop

“Un uomo e una donna sono seduti uno di fronte all’altra in un vagone di metro vuoto”