In apnea
Era il 12 maggio. In lontananza il suono di campane a festa mi teneva compagnia e i drappeggi posizionati sui balconi in segno di devozione donavano colore alle strade anonime e semideserte. Il paese era in fermento. Di lì a poco il Santo Patrono sarebbe uscito dalla cattedrale, portandosi dietro uno stuolo ingombrante di fedeli che, a piedi scalzi, avrebbe attraversato vie e vicoletti per chiedere la grazia e pregare per la redenzione dei peccati.
Si respirava un’aria gioiosa. Dentro io mi sentivo morire.
Da qualche mese il mio corpo era diventato schiavo di una paura invalidante. Tremavo, ansimavo per la forte tachicardia, fuggivo da luoghi affollati per timore di svenire.
Quando arrivai nello studio della Dott.ssa T. la situazione era già precipitata: avevo perso il controllo senza immaginarne il perché.
In quell’ambiente asettico mi sentivo un’estranea. Seduta su quel divano beige, smorto, cercavo di raccontarle di avere una vita ordinaria, ottimi voti all’università, un fidanzato amorevole, una famiglia premurosa e amici a cui volere bene, e di suggerirle la cura, forse tutto era dovuto allo stress e un calmante e qualche giorno di riposo mi avrebbero fatto bene.
“Trentacinque anni e una vita sbagliata” fu la sua diagnosi. Piansi disperata come quella volta in cui mi dissero che mio fratello era entrato in coma dopo un incidente mortale. Per lo shock quasi svenni.
Tornata a casa non tolsi neanche le scarpe. Mi infilai nel letto, spensi la luce e rimasi immobile per ore. Dovevo scrivere un articolo urgente, ma non ebbi la forza di accendere il computer e stare delle ore su un foglio bianco in attesa di trovare le parole giuste. All’improvviso non m’importava più di niente. Mi addormentai stremata fino a che non fui svegliata dal suono del citofono, così mi alzai e risposi.
Era solo il corriere che doveva consegnare un pacco a una certa signora che abitava nell’interno C. Falso allarme. Allora decisi di mangiare qualcosa, ma il frigorifero era semivuoto: yogurt greco scaduto da una settimana e frutta matura pronta ad ammuffire. Non riuscivo a respirare. Le mie mani sudavano, le gambe mi formicolavano. Camminavano su e giù per tutta la stanza. Non riuscivo più a ritrovare la calma.
Ritornai dalla mia psicologa per raccontarle come avevo vissuto le settimane di assenza. Un incubo era la parola esatta. Seguendo il suo discorso addolcito da parole dal tono fintamente gentile, avrei dovuto scavare dentro me per capire le cause del malessere e così affrontare verità sommerse. Utilizzava una serie di concetti a me estranei: analisi del passato e del presente, flussi di coscienza, riassunto delle mie emozioni, annotazioni su un quadernone, test per comprendere la percentuale d’ansia, patologica e generalizzata o riferita solo a un determinato aspetto della mia vita.
Non uscivo più. Ogni qualvolta mettevo i piedi fuori casa una crisi d’ansia mi trafiggeva. Vertigini, frenesia, sensazione di pericolo costante si impossessavano del mio corpo. Cominciai a non frequentare i corsi all’università, a rinunciare agli amici, a disconoscere un sabato sera in pizzeria.
L’unico incontro al quale non mi potei sottrarre avvenne in maniera inaspettata nel mese di agosto. Vivevo ormai le giornate aspettando che arrivasse la sera. Il traffico mi affaticava, le urla dei ragazzini in vacanza mi esasperavano. Trovavo conforto nel silenzio e nei versi di Prévert. Accanto a me tenevo sempre un ventaglio per combattere l’afa.
Ricordo che lei avrà avuto circa sette anni, capelli neri, un abito bianco a maniche lunghe, occhi inespressivi, un triste sorriso. Muta. Più cercavo di entrare in sintonia con lei e più sembrava respingente. Alla fine trovammo un modo per comunicare. Ci scambiavamo bigliettini. Aveva sostituito la sua scrittura sgrammaticata con il disegno. Le dissi di provare a illustrare su carta le sue emozioni più vere, i suoi pensieri più intimi. Il sole esprimeva la gioia di vivere, il pesce la voglia di mare, il carillon il bisogno di musica, la dama la compagnia del nonno materno, la penna l’inizio della scuola che sarebbe ricominciata di lì a poco. Io di contro rispondevo con parole stringate, monosillabiche, per non affaticarla. Lei capiva molto di più di quello che mi aspettassi e soprattutto traduceva i miei stati d’animo.
Aveva compreso che dietro le mie espressioni cupe si celavano amarezza e tristezza miste a rabbia e frustrazione. Sapeva leggere i miei occhi, notare la pelle bianca che aveva perso melanina e le labbra serrate a causa di giornate vissute troppo tempo in silenzio.
Divenne la mia confidente unica. Ricordo il tepore gentile di una sua carezza e un mio bacio dolcissimo sulla sua fronte liscia. Potevamo dirci amiche. L’adulta e la bambina che nella solitudine si erano trovate.
Ci divideva solo un balcone. Dalla mia stanza potevo scorgere il movimento della sua casa. Pochi adulti in tanto spazio. Una madre su cui fare affidamento, dopo la perdita del marito, e un nonno in pensione che l’accudiva e che faceva le veci di quel padre scomparso prematuramente. Ma quell’amore non era sufficiente. A scuola sentiva i suoi compagni chiamare papà e lei invece non poteva. Io, nonostante avessi due genitori e un fratello, percepivo lo stesso vuoto intorno.
M’insegnò a cogliere i dettagli, a distogliere l’attenzione dai pensieri ossessivi, a calmare le mie angosce fino a quando mi confessò che sarebbe partita. Un’altra città l’avrebbe accolta. Non fu un addio semplice. Ci ripromettemmo di scriverci, ma non accadde mai più.
Così la mia routine ritornava ad essere piatta, monotona. Sprofondai nuovamente nell’ansia più nera. Mi trascinavo in bagno per vomitare, entravo in vasca, dopo mi coricavo sul letto e mi coprivo come potevo. Avevo perso dieci chili. Avevo perso dieci chili. Lo specchio rimandava un’immagine di me scheletrica. Occhi spenti, fossette alle guance e una taglia 40 mai avuta. Ero diventata l’ombra di me stessa.
Una sera, saranno state le sette, dopo il solito battesimo di purificazione, mi alzai ancora gocciolante, misi un telo sulle spalle e scalza mi avviai in cucina. Mezza la mattina e mezza la sera, più un’intera a digiuno durante il corso della giornata.
Lo feci, mi imbottii di ansiolitici.
L’ansia aveva preso il sopravvento e raccontare alla terapeuta il mio dolore non era servito a molto. Passavo i mesi e io non guarivo ancora.
Quanto ancora sarebbe durata? Leggevo su riviste mediche di anni vissuti in preda al panico. Ero impazzata e non lo sapevo? Può darsi. D’altronde i matti mi erano sempre stati simpatici.
Immagine generata con AI generativa di Adobe Photoshop
“una bambina con i capelli lunghi e neri e un abito bianco è su un balcone mentre la statua di un santo le passa di fronte”