Zucchero e caffè

Non sono mai stato bravo a dare le condoglianze. Non ho mai appreso l’arte di assistere le persone nel momento del lutto, disciplina in cui eccellono mia madre e le mie nonne, le zie tutte.

Ho sempre guardato le donne della mia famiglia con un pizzico di disprezzo misto a grande ammirazione per questo loro talento. Disprezzo perché la compassione, in alcuni momenti, può diventare ipocrita. Ammirazione perché nel loro provincialismo da prefiche, le ho sempre sentite connesse a qualcosa di profondo, antico: mi hanno sempre dato l’idea di possedere un centro. 

Io, invece, non ho mai avuto un centro. 

Sono cresciuto in questo paesino a centotrenta chilometri da Roma e novanta da Napoli, e seppure fossi nato nell’antica Roma mi sarei sentito a disagio in un corteo funebre e avrei provato lo stesso contraddittorio sentimento di ammirazione e disprezzo per le mamme, le nonne e le zie tutte.

Lapsus freudiano: ho detto mamme. Dice, la mamma è una: ma quando mai. Io ne ho avute almeno tre.

Sia mia madre che mio padre, infatti, hanno sorelle che non si sono mai sposate e mi hanno accudito fin dalla prima infanzia. Erano zitelle e me le sono accollate io. Ancora oggi, dalle nostre parti, una donna che non si sposa è zitella, mica single.

Purtroppo, è venuto il momento che apprenda pure io quest’arte. È morto un mio vecchio amico, un coetaneo. Sono giovane ed è la prima volta che mi capita.

Si chiamava Ciro e abbiamo fatto le scuole medie insieme. Io adoravo trascorrere i pomeriggi a casa sua. Era una famiglia napoletana e i genitori ci facevano fare quello che volevamo. Bisognava solo stare attenti a non sporcare che la signora Rossella stava sempre a pulire, per il resto avevamo mano libera. Niente controllo sui compiti, a quattordici anni potevamo fumare sul balcone e andare in motorino in due. Il papà di Ciro diceva un sacco di parolacce e ce le insegnava. Era diventato uno dei più ambiti tappezzieri della zona ed era generosissimo. Ci comprava pizze e gelati a volontà. Grazie a lui eravamo andati per la prima volta allo stadio Olimpico e al San Paolo. Uno dei ricordi che ho di quella famiglia, era l’importanza che per loro rivestiva il rito del caffè. Anche quando si beveva il caffè si parlava di come dovrebbe essere il caffè: tra le altre cose, ci permettevano di berlo già alle scuole medie. 

Sono salito in paese dove i genitori di Ciro vivono da qualche anno.

Ho ritrovato il paese bello e angosciante come sempre, pieno di sonno o più addormentato del solito. Mia mamma mi ha messo zucchero e caffè nel cruscotto della macchina e mi ha spiegato che è tradizione portare zucchero e caffè a una famiglia che sta patendo un lutto. Mi fa sorridere 'sta cosa: mi sono spostato di appena centotrenta chilometri e mi trattano come un alieno.

Parcheggiata la macchina, mi sono diretto verso l’indirizzo della famiglia di Ciro.

Il cielo era una specie di mare sopra il paese che a mezzogiorno confluisce in quello di sotto con i pesci, le alghe, le anfore sul fondale e le barche in superficie. Le lenzuola bianche, stese ad asciugare, venivano appena mosse dal vento che risaliva il vicolo: un basolato che non ha mai visto la luce del sole tanto sono stretti i palazzi del centro storico.

Arrivato davanti alla loro abitazione ho esitato un momento. Mi sono sentito un po’ scemo con lo zucchero e il caffè sotto il braccio e allora mi sono messo a osservare la palazzina pensando, in questo modo, di sciogliere la tensione.

Si sono fatti una bella casarella i genitori di Ciro. Una casa che ne contiene altre in cui si sarebbero sistemati i figli e poi i nipoti. Ho ripensato a tutte le cattiverie che gli autoctoni avevano dedicato a ‘sta famiglia appena trasferitasi e poi ai sacrifici che hanno fatto per ritrovarsi in questo dedalo di mura antiche, un albero di limoni nel patio: ecco la bella ‘mbriana della casa, non poteva mancare.

Aperta la porta, la mamma di Ciro ha unito le mani in segno di preghiera per poi scioglierle e appoggiarmele sulle guance. 

«Antò, guarda chi ci sta» ha detto rivolta al marito. In casa c’erano pure altre persone che si muovevano con discrezione; potevo solo sentire i rumori, le sedie che si spostavano e le tazzine che, una volta svuotate, venivano appoggiate nei sottotazza. 

Solo un lutto così grave poteva rendere questa famiglia silenziosa, quasi ermetica. 

Dopo le scuole superiori ho studiato cinema e un professore, al primo anno, mi fece vedere Ti ricordi di Dolly Bell? di Kusturica. La semplicità viscerale dei personaggi di quel film mi ricordò quella stessa atmosfera che si respirava nella famiglia di Ciro e a un momento spensierato delle nostre vite, leggero, senza alcuna responsabilità.
In cucina, il papà di Ciro era seduto con i gomiti sulla tavola e aspettava che la signora Rossella servisse il caffè. 

«Ma lei si ricorda di me?» gli ho chiesto. «Hai sentito come parla bello, Rossé?» ha detto rivolto alla moglie e nei suoi occhi verdi slavati ho rivisto quella rabbia di vivere che aveva venticinque anni prima, quando girava il Sud pontino a bordo di una Ritmo di colore beige daino.

Mi ha fatto accomodare. Abbiamo ripercorso tanti momenti vissuti insieme. Ogni tanto compariva qualcuno da un’altra stanza, lui mi presentava e gli raccontava di quella volta allo stadio o il primo Capodanno trascorso da noi: si erano trasferiti da pochi mesi, era il ‘99. 

Queste persone, perlopiù parenti, si avvicinavano, mi davano la mano, ascoltavano l’aneddoto e poi sparivano nelle altre stanze della casa. Non si capiva bene cosa facessero, forse c’erano le sorelle di Ciro da qualche parte ma io non ho osato chiedere. A un certo punto, Antonio ha chiesto alla moglie di fare un altro caffè. Il papà di Ciro è sempre stato bravo a cucinare ma non l’ho mai visto preparare una moka, mai, visto che in quella casa era un compito che assolve da sempre la moglie. Rossella è andata verso i fornelli fingendo disappunto mentre nuove voci provenivano dal marciapiede, l’uscio di casa e il piano superiore che poi è la casa dove Ciro si sarebbe dovuto trasferire una volta sposato. 

Finalmente ci siamo ritrovati tutti in cucina. C’erano le due sorelle di Ciro e un cugino di cui mi ricordo bene perché trascorreva tutte le estati da noi. È diventato medico, anzi medico napoletano. Porta la camicia bianca e il maglioncino celeste sulle spalle, parla con l’accento nasale del quartiere d’origine ma non sconfina mai nel dialetto.

«Embè un po’ di caffè per tuo marito, no?» ha detto a un certo punto Antonio, l’unico a cui non era stata riempita la tazzina.

«Lo zio beve il caffè come se contenesse le vitamine» ha detto il nipote medico.

«Ma perché il caffè non tiene le vitamine, dottò?» ha risposto Antonio e per un momento abbiamo sorriso tutti e io mi sono sentito più tranquillo, non proprio un artista delle condoglianze ma uno che sta imparando a fare il suo; non dico uno che ha trovato il centro ma nemmeno lo stronzo che se ne va a spasso per le strade di Roma mentre un vecchio amico muore, centotrenta chilometri più a sud.

Immagine generata con AI generativa di Adobe Photoshop

“Dipinto ad olio di un uomo che porta una scatola di zucchero e una di caffè”