Uova
Mamma fa un passo indietro, un verso piccolo a metà tra un’esclamazione e un urlo le rotola fuori dalla bocca. Dalla busta sul bancone della cucina proviene un suono come di sassi che strusciano tra di loro, la plastica si alza e si abbassa piano.
Sono vivi, dice mamma prima di ridere incredula, la mano davanti alla bocca per coprire i denti troppo grandi.
Mi alzo dalla sedia, ma appena sono in piedi un fiotto caldo mi scende in mezzo alle gambe, mi immobilizzo. Pensavo che passato qualche giorno avrebbe smesso, invece non si ferma. Ormai ho un buco dentro e da lì qualcosa che non è vivo e non è morto continua a uscire. Tento di mantenere un’espressione serena, avanzo di un piccolo passo, poi di un altro. Allungo un braccio e sfioro la spalla di mia madre. Sono più alta di lei di quasi mezza testa; non riesco a ricordare se fosse così anche prima dell’operazione o se me l’hanno restituita più piccola.
Visto, chiede, gli occhi azzurri con dentro una luce bambina, e me la ritrovo davanti nel letto d’ospedale, rallentata dalla morfina, le mani piene di aghi. Mi sporgo in avanti e scosto la busta. Una chela si chiude intorno al mio dito, un occhio tondo e nero mi fissa, dei baffi fremono, indignati e sottilissimi.
E allora che facciamo, domanda mia sorella Ludovica.
Non possiamo aprirli così, risponde mamma e la busta trema di nuovo.
Mettiamoli in congelatore, così li stordiamo, dice Ludovica.
Mamma si picchietta le labbra con l’indice destro. Io non intervengo, sposto la plastica e osservo i corpi affastellati, le gambe rosa pallido che scattano come pensieri improvvisi.
È un’idea, dice alla fine mamma, che però esita. Con una mano si tira la panciera; anche se è passato un mese ancora le dà noia. Non mi abituo, mi sento vuota come se mi mancasse un pezzo, mi ha detto una sera al telefono e io ho cambiato argomento. Dopo mi sono premuta il cuscino sulla faccia e ho pianto contro il verde e il bianco della federa.
Ludovica si infila un paio di guanti di silicone, sono troppo grandi e le si ripiegano sui polsi. Senza guanti il pesce non lo tocco, fa schifo, dice a nessuno in particolare, poi affonda una mano nel mucchio. In due passi è al surgelatore, apre con forza lo sportello, posa i sopravvissuti e richiude. La guardo marciare fino al lavandino.
Questi sono già morti, dice, mentre tira su uno scampo e stacca la testa dal corpo con un movimento secco.
Vieni qui e aiutami.
Per un istante mi chiedo se non sia il caso di mettermi i guanti anche io, ma poi rinuncio. Il carapace è freddo, il corpo dello scampo mi si abbandona tra le dita, le chele che si allargano all’infuori. Una fitta più dolorosa mi frammenta il respiro. Dovrei scrivere a Carlo ma non sono sicura che risponderebbe. Sembri un fantasma, mi aveva detto appena aperta la porta; lo sono, avevo risposto prima di raccontargli tutto. Dopo aver ingoiato la prima pillola mi avevano fatto stendere in una stanza grigia. Una ragazza accanto a me giocava a Candy Crush sul cellulare, un’altra mi dava le spalle e tremava piano. Io avevo fissato il soffitto e avevo pensato a mia sorella.
Prendo le forbici che mi passa Ludovica e con la coda dell’occhio studio i suoi movimenti, provo a memorizzare i punti in cui taglia il carapace e il modo in cui lo allarga per poi spingere col pollice la polpa verso l’alto. Prendo un respiro e cerco di imitarla. La carne è bianchissima e morbida al tatto, si stacca a fatica.
Attenta a non romperle, devono essere intere, mi rimprovera. Le code e le teste si accumulano nel lavandino, alcune affondano, altre galleggiano sul pelo dell’acqua.
Che schifo e questo cos’è, urla Ludovica. Mamma si avvicina. Ha lo stesso profumo di sempre, quello della crema che usa dopo la doccia, un lieve sentore di rosmarino. Da ragazzina mi piaceva stare in bagno mentre lei si lavava, il tepore e il conforto del suo corpo nudo, il seno piccolo e i fianchi larghi.
Sono uova, tesoro.
Mia sorella tira indietro le labbra a scoprire i denti, fa un suono che conosco bene, un sibilo basso. Uno scampo mutilato le scivola tra le dita e finisce in acqua insieme alle teste e ai baffi e alle zampe. Le uova sono aggrappate al suo ventre, vicino alla coda, formano dei grappoli verde scuro. Immergo un dito nell’acqua per toccarle, sono minuscole, al tatto ricordano la sabbia bagnata con cui costruivamo castelli in riva al mare. Penso che l’uovo che si era aggrappato alla parete del mio utero era di poco più grande. È tuo, è nostro, aveva detto Carlo; avevo preso appuntamento in ospedale senza dirgli niente.
Io non le tocco, sputa fuori Ludovica prima di sfilarsi i guanti e abbandonarsi sulla sedia. Fate voi, sentenzia, le gambe magre magrissime accavallate. Ha gli occhi lucidi, come se fosse mangiata da una febbre, proprio come la prima volta. Avevo tanto sperato che non ce ne fosse una seconda, ma forse non ho saputo metterci sufficiente fervore. Mia madre allarga le braccia, un gesto minimo, per non attirare l’attenzione, ma non è necessario, Ludovica ha già tirato fuori il cellulare.
Sbrighiamoci che poi devo andare al supermercato, dice allo schermo. Mamma mi guarda, scuote la testa.
Ci penso io, mormoro anche se toccare quelle uova mi mette un tremito in petto, come se la mia gabbia toracica fosse fatta d’acqua e il mio cuore e i miei polmoni stessero per cadere nel lavello insieme agli altri scarti. Le uova si staccano facilmente, qualcuna mi si incastra sotto le unghie. Il silenzio di mia sorella è una mano che spinge contro la mia schiena. Non sono più incinta, aveva scritto così, nient’altro. Io non l’avevo chiamata, non avrei saputo cosa dirle, avevo atteso di tornare per le feste nella speranza che trovarci una di fronte all’altra mi avrebbe aiutato a trovare le parole giuste. Seduta in treno, avevo capito che quelle parole non le avrei trovate più.
Le uova mi si appiccicano alla pelle, galleggiano e non vanno a fondo, coprono i corpi dilaniati come muschio. La mano di mia madre sfiora la mia, delicatamente tira via la polpa e la sciacqua.
Togli il tappo, mi dice in un sussurro, io esito.
E le uova?
Mia madre butta fuori l’aria in un respiro veloce, alle nostre spalle la sedia stride contro il pavimento.
Finiscono nello scarico, mi risponde Ludovica prima di tirare con forza il tappo.
Mi fisso le dita, le uova sono ancora lì. Mia sorella si infila un paio di guanti nuovi e mi stringe il polso, guida le mie mani sotto il getto dell’acqua.
Dai pulisciti, sennò fai un casino.
Perdonami, questo vorrei dirle, invece lascio che mi lavi le mani. Vorrei sentire la sua pelle contro la mia, ma c’è solo il silicone. I nostri corpi si sfiorano. Tu sei magra, non hai i fianchi di mamma, io sì, si lamentava davanti allo specchio nella nostra camera, i suoi scaffali pieni di felpe enormi in cui le riusciva facile sparire. Quando lascia andare le mie mani mi sento cadere.
Adesso schiacciamo le teste giusto, domanda.
La ricetta è sempre la stessa, ogni vigilia di Natale, eppure anno dopo anno scopriamo di averla dimenticata. Le pagine della Cucina italiana sono incrostate, punteggiate da macchie di unto, mamma le tiene così vicine che quasi le sfiorano il naso perché la sua vista ormai fatica. Avevo undici decimi da ragazza, dice e strizzo gli occhi anche io cercando di vedere quella ragazza nascosta nel suo corpo di sessantenne, come un osso lungo e sottile custodito in profondità.
Ludovica raccoglie le teste degli scampi, le mette in una pentola e comincia a schiacciarle col pestello.
Bam. Bam. Bam.
Così mi sfogo, dice lei, seria.
Bam. Bam. Bam.
Mamma si sforza di ridere. Io mi mordo un’unghia, sotto c’è ancora sapore di mare. Penso alle uova che son finite giù per lo scarico, verdi, piccole, morte.
Bam. Bam. Bam.
Ancora il sangue che non si ferma. Lo immagino che mi inzuppa i jeans e scola a terra.
Vedo il solco che scava sul pavimento. Tra me e loro. Indelebile.
Immagine generata con AI generativa di Adobe Photoshop
“Dipinto ad olio di due mani con i guanti che puliscono uno scampo con delle piccole uova nere al suo interno”