
Storia del mio cognome
C’è stato un breve periodo della mia giovane vita in cui ho seriamente pensato di dedicarmi alla branca dell’antroponomastica. Ricordo un momento con precisione. Questo:
«L’apostrofo è un tratto distintivo del nostro cognome» aveva detto mio padre, «devi andarne fiero».
«Ma lo sbagliano tutti. Pure le maestre»
«Anche quella di italiano?»
«Sì»
«Andiamo bene andiamo».
Ero in prima elementare. Uno spera che nel corso del tempo le cose tendano a un progressivo miglioramento, e invece…
Facciamo però un salto di tredici anni, vi prego; evitiamo le battute soporifere di tutti i bidelli incanutiti e gli allenatori sportivi; tralasciamo tutti i “D apostrofo Isanto” che ho dovuto chiarire e passiamo direttamente al 2010, quando appena diciannovenne correvo a vele spiegate e con tutto il vento a favore verso l’utopica Università. Correvo, sì. Perché a quel test d’ingresso, pagato la bellezza di trentacinque euro, il sottoscritto si presentò con venti minuti di ritardo e la schiena che grondava sudore neanche fosse il retro di una cella frigorifera a causa del ritiro tardivo della pergamena di maturità richiesta in sede di prova, al termine della quale l’incaricata tolse l’elastico e srotolò il papiro:
«Leonardo Di Santo»
«No, l’accento cade sulla I. D apostrofo Ìsanto».
La donna mi guardò crucciata, per poi chinare di nuovo la testa.
«No. Leonardo Di Santo».
Ci contemplammo per un attimo, dopodiché, stufa del mio indugiare, ruotò il foglio.
«Di Santo» e aveva ragione.
La segreteria aveva dimenticato di inserire l’apostrofo. Il mese successivo mi rettificarono i dati per via telematica, mentre per la pergamena non c’era più nulla da fare. Tutt’oggi il maturo non sono io, ma un certo Leonardo Di Santo. E l’Italia ne è piena, di Leonardi Di Santo.
Alla fine, l’Università mi accolse comunque tra le sue lunghe braccia a croce latina, donandomi i cinque anni più belli della mia vita. Ma ogni storia ha la stessa illusione, sua conclusione, e nel peccato di creder speciale una storia normale purtroppo caddi anch’io. Come il buon Truman Burbank, che dopo aver intercettato le frequenze dello Show parcheggia la sua Ford in Lancaster Square rimanendo incredulo e spaurito, così la stretta di mano che congedò la mia vita accademica non fece che immettermi in una corsia d’emergenza tutt’altro che preventivata. Una strada buia e priva di segnali, senza precedenze né regole definite.
Sorpassi, discese in folle e salite in retromarcia che un bel giorno mi condussero su quel banco bianco – l'ennesimo su cui poggiavo i gomiti – circondato da orologi a parete atti a decretare la mia inconcludenza. Cinque ore di prova scritta, in cui percentuali e logica figurale turbarono il mio essere più profondo, tanto da annichilirmi nel viaggio di ritorno in metropolitana. Una cosa era certa: avrei ricevuto una risposta, positiva o negativa che fosse entro un mese sarebbe arrivata. E invece no.
Cominciai a rovistare tra le spam e i messaggi promozionali: niente. Sicché, trascorsi cinquantacinque giorni, mi feci coraggio e chiamai il numero delle Risorse Umane.
«Pronto?»
Riconobbi subito la voce. Era la donna dai capelli ricci color ruggine che aveva preso parola poco prima di aprire la busta contenente la prova. In breve, le spiegai il motivo di quella chiamata e che avrei atteso senza problemi i risultati in caso di ritardo nelle correzioni.
«Ma guardi che le selezioni sono praticamente finite. La settimana scorsa abbiamo svolto il penultimo orale» disse.
«Ah…»
«Non ha ricevuto la mail?»
«No»
«Impossibile».
E niente, sanno tutto loro sanno. Hanno la mia mail e l’hanno setacciata al posto mio. Altrimenti tutta questa saccenza non si spiega. Allucinante.
«Può ripetermi il nome?»
«Leonardo D’Isanto. D apostrofo Isanto»
«Mmh, che cognome particolare»
Feci un bel respiro e aspettai.
«Eccola qui. La mail le è stata inviata il 2 settembre alle ore 10:34 con esito positivo e con l’invito a recarsi tre giorni dopo ai colloqui»
«Cioè, sono passato?»
«Era… passato»
Ragionai in silenzio.
«La mail a cui avete mandato i risultati?»
«Un attimo che controllo. Allora: leonardodinsantomillenovecento…»
«Come come?» la interruppi, «disanto, non dinsanto…»
«Non c’è la n nella mail?»
«Eh no, se non c’è nel nome…»
«Mannaggia, deve esserci stato un errore. Ha controllato l’indirizzo sul sito?»
«Sul sito è tutto giusto»
«E allora la collega che se ne è occupata deve averla trascritta direttamente dal foglio dei contatti da lei compilato il giorno del test. Eccolo qui… effettivamente è scritta un po’ male. Poi c’è quest’apostrofo che trae in inganno, non è molto chiaro»
«Comunque sono risultato idoneo, no? Inseritemi nell’ultima sessione degli orali»
«Non funziona così purtroppo…» rispose in tono mortificato.
«E come funziona?»
Funzionava allo stesso modo con cui Elena Fabrizi, in arte Sora Lella, aveva spiegato a Carlo Verdone l’utilità di un buono spesa. Avrei dovuto attendere una nuova selezione, re-iscrivermi alla prova e dunque rifare lo scritto. Ne discussi a tavola con i miei. All’argomento “causa-avvocati” mi rivolsero un’occhiata detonante, rivelandomi in un sol colpo tutta la mia nullità nei confronti di quel nuovo mondo. Finimmo il pasto senza più fare cenno all’accaduto.
Mi chiamo Leonardo D'Isanto e questa è la storia del mio cognome. D apostrofo Isanto. Un tratto distintivo di cui devo andare fiero, o almeno così dice mio padre.
Immagine generata con AI generativa di Adobe Photoshop
“Un dipinto ad olio che ritrae una scultura astratta di un apostrofo su un piedistallo”