Quanto manca?
«Dove hai detto che siamo? Scusa, mi sono abbioccato. È il sole, mi si ficca negli occhi. Mi stanca.»
«Posso abbassare le tendine.»
«Non serve. Lo vedo lo stesso. È l’estate, è fatta così.»
Il ragazzo non ha nulla da obiettare. Sì, è l’estate; sì, è fatta così. Secca quello che trova e si condensa in un settembre di cose lasciate in sospeso. Ma per quei pensieri, c’è ancora tempo. Ha in mano una bottiglia d’acqua. Dopo due sorsi l’ha sentita risalire in gola. Non ha spazio per niente, dentro. Lo stomaco si è annodato per respingere e acquattarsi intorno a crampi di fame che non riesce a farsi passare. Svita il tappo, riprova a bere senza smettere di tenere sotto controllo il vecchio, che guarda fuori con la testa piegata incontro al vetro. Il cielo si irradia nell’arsura d’agosto e lui accenna un sorriso. Chissà da quanto tempo ha cominciato a storcersi, a scavare una ruga sulla guancia sinistra che gli scopre i denti e la tinta fredda della gengiva.
«Quando arriviamo, ricordami di tirare fuori le camicie dalla valigia.»
«Va bene.»
«Ci stiamo muovendo. Se siamo puntuali, riusciamo a cambiarci per cena.»
«Sì.»
Cerca di leggere qualcosa dal cellulare. Un messaggio di Giulia, altri dal gruppo di pallavolo, un post sugli effetti del cambiamento climatico sulla riproduzione delle api. Pare che il mondo dipenda da un insetto a strisce, una cosina minuscola e persino fastidiosa lo regge su sei zampette, sputacchiando polline e cagando miele. Il ragazzo conficca il telefono nella tasca e decide che del collasso planetario non gliene frega un cazzo. È stanco e dovrà stare lì seduto altre tre ore, se tutto va bene. Non è riposo, quello. Avrebbe preferito dormire nel suo letto, scomodo tra i nodi delle lenzuola, e non provarci a braccia incrociate sperando di non sbavare sulla maglietta. Affonda la fronte tra le mani, una sorsata d’aria condizionata gli gela i polmoni. Il sole gli si preme sulla nuca.
Ha ragione il vecchio, l’estate non dà tregua, la luce è invadente e non basta costringerla dietro finestre e finestrini. Avrebbe dovuto portare gli occhiali da sole.
«La prima volta che sono stato con l’Agnese a Rimini, lei ancora non aveva fatto vent’anni. Ci eravamo sposati da poco. Io la volevo portare al mare già l’estate prima, ma non me l’hanno permesso. Quando l’ho chiesto a suo papà, lui ha preso la padella e mi ha schizzato con l’olio bollente, dicendo che volevo rovinargli la figlia. Quindi ho chiesto se me la faceva sposare.»
Il vecchio ride. Parla col mento reclinato contro lo sterno, qualche parola gli esce soffocata. Ha la barba ben fatta e fresca di colonia, peccato per i capelli in disordine, pelucchi che affiorano sulla distesa lucida del cranio. Il ragazzo preferisce non dirglielo o quello insisterà per un pettine e non ha idea di dove cercarlo. Non ha alcuna voglia di aprire la sua valigia, frugare nella biancheria di un quasi estraneo e comporre una riga in mezzo.
«Lei era partita per fare la stagione, cercavano signore in cucina, negli hotel. Mi hanno detto che ero un matto a farla lavorare, che non ero un uomo se le permettevo di stare lontana per mesi senza nessuno a badare alla casa. Capito? Non ero abbastanza uomo per lei e lei non era abbastanza donna per me. Ci siamo fatti una risata, anche se ci siamo rimasti male che nessuno capiva, a noi dispiaceva separarci, ma erano tempi duri ed eravamo giovani, volevamo una famiglia e c’erano dei sacrifici da fare.»
«Quando è stato?»
«Era il ’52. Lavoravo in fabbrica, ai tempi era lo Stato a trovarti un impiego se eri messo male. Dovevamo pagare l’affitto perché stavamo per conto nostro, a casa mia non c’era posto e dai suoi genitori l’Agnese non voleva stare. Le ferie erano poche, una settimana a Ferragosto e una a Natale, non potevo partire con lei. Solo andarla a trovare, qualche giorno.»
Il ragazzo sente una notifica vibrargli contro la coscia: Giulia è arrivata in aula. Un bacio scritto, un cuore disegnato e la rassicurazione che avrebbe chiamato dopo l’esame. Si poggia allo schienale.
Il vecchio racconta le stesse cose da anni, non cambia un dettaglio, usa le stesse frasi e gli stessi aggettivi. Deve piacergli come suonano, si sente da come schiocca la lingua mezza secca sul palato e rilassa gli angoli delle labbra, quando riprende fiato.
Riprende:
«Li hanno fatti più comodi, i treni.»
«Penso di sì.»
«Ai miei tempi, i sedili erano duri. Arrivavi a destinazione col sedere appiattito. Adesso no. E si sta freschi! Quella volta, per andare a Rimini abbiamo dovuto alzare i finestrini. Entrava vento in carrozza, c’erano le tendine tutte arruffate, parevano vele di una nave. La gente si teneva il cappello per non perderlo. Quando sono sceso, avevo il mal di testa. Però ero contento, l’Agnese era venuta a prendermi in stazione. Aveva un vestito giallo.»
Preme il palmo sulla nuca, finge di trattenere un cappello deciso a volar via. La pelle è sottile e macchiata, con sotto vene grosse, gonfie di sangue lento.
Il tempo per lui scorre in modo diverso, va all’indietro. La sola destinazione che immagina è l’abbraccio con la moglie morta, vestita di giallo settant’anni fa. Sono ancora insieme sulla banchina, sul binario, all’ombra dell’afa d’agosto, stretti e sudati, col mal di testa e le valigie che allungano le braccia.
Il ragazzo sente un altro affondo della fame. È la fame? Rimpiange di non aver fatto colazione. Non è riuscito a mandare giù niente. È che Giulia l’ha fatto incazzare, mollandolo col vecchio. Lei sarebbe arrivata dopo, aveva lo scritto di fisiologia e si era ricordata all’ultimo che iniziava all’ora di pranzo e non al mattino. Non faceva in tempo e il nonno non poteva essere lasciato solo, «Non a quell’età, non in quello stato.»
Vorrebbe cancellare la noia che prova a leggere il suo nome nella chat per rivederla bella e felice ai primi appuntamenti, quando si nascondevano dietro la scuola per cercarsi sotto i giacconi umidi di nebbia. Lei tornava a casa con la faccia arrossata, colpa del principio di barba da adolescente che le irritava le guance quando lui la baciava. Si allontanava con la voglia di fare qualcosa di più, la prossima volta. Combatteva contro qualche pudore ereditato da restrizioni materne; vinceva. Si erano divertiti, in quel cortile che sfrigolava di ghiaia a ogni passo.
Ricorda bene la Giulia adolescente, ce l’ha quasi davanti, persino vicina. Forse anche lui, tra settant’anni, sarà come il vecchio. Si pensa nelle stesse condizioni e nelle stesse nostalgie. E la nostalgia gli fa rispondere con una stella e due paia di dita incrociate all’ultimo messaggio di lei. Si rimette agli astri, alla natura malferma della speranza.
«Chi ti scrive?»
Indaga il vecchio, puntando il naso verso di lui. Ha abbastanza energie per non farsi gli affari suoi. Dopotutto, non deve essere così malmesso come gli hanno fatto credere. La sua compagnia non era necessaria. Si è fatto usare, ha la stessa utilità e considerazione di un pupazzo, meno di un badante.
«Giulia.»
I dittonghi del suo nome escono aspri.
«Ah, sì. Ha detto che ci raggiunge? Non è che ci lascia da soli?»
«Ha uno scritto, poi è libera. Ultimo esame della sessione.»
«E le fate delle vacanze per conto vostro? Non sono più gli anni miei e dell’Agnese, che il suo papà mi ha lanciato dietro la padella con l’olio delle fettine.»
Il ragazzo si alza. Lo stomaco vuoto o l’acqua fredda o l’aria condizionata gli fanno tremare le caviglie e si arrende, torna seduto. Lo sfogo di esasperazione si limita a un istante, alla tentazione di una fuga inappropriata. Il vecchio se ne accorge e incrocia le braccia sulla camiciola azzurra.
«Beh, non importa. L’ho capito, che non va. Ma va bene se non vuoi dirmelo, mica siamo parenti.»
«È tutto ok.»
Mente, ma l’altro è tornato a guardare fuori e non lo calcola. Sembra dimenticarsi di lui, per un po’ ci sono solo rumori di fondo, carrellini che passano nel corridoio, pochi passi sbilanciati sul pavimento di gomma.
«Di’, dove siamo? L’abbiamo superata Lugo?»
«No, direi di no.»
Butta lì, senza idee, senza sapere di che posto stia parlando. Dubita persino sia una fermata.
«L’Agnese ci è voluta andare, quando eri piccolo. Avrai avuto tre anni. Ti abbiamo portato in spalla, voleva farti vedere la rocca, che è un po’ come il castello di Ferrara: ti piaceva tanto. Mi ricordo che siamo scesi dal treno con le borse del mare e le abbiamo lasciate nel bar della stazione. Avevo paura ci portassero via tutto, ma era brava gente, quella. Dimmelo, quando ci passiamo.»
Poteva capitare, l’avevano avvisato. Doveva assecondarlo, correggerlo avrebbe peggiorato le cose, l’avrebbe fatto sentire debilitato e impotente. La dottoressa si era raccomandata che fossero di supporto in momenti come quello, frequenti alla sua età e ancora di più col decorso della demenza senile, che finora era stata lieve. Il vecchio era sempre stato preciso, badava a mostrarsi pulito e con gli abiti stirati, a pranzare e cenare puntuale, dopo essersi lavato. Non avrebbe mai rinunciato alla sua autonomia, per quanto contenuta dall’intervento dei familiari. Né alla sua vacanza.
Quindi, non dice niente. Annuisce e spera che si quieti cercando Lugo oltre il vetro, scorrendo tra la realtà e il nastro inceppato dei ricordi. Dovrebbero mancare due ore. Sospira.
«E a Ravenna, Manuel, ci sei mai stato?»
Questione di un momento, e torna a riconoscerlo. È di nuovo lui, il fidanzato di sua nipote, non più suo figlio, ormai cinquantenne e impegnato col lavoro in un ufficio da cui non riesce a ottenere permessi in tempo di scadenze. Rimette a fuoco le lenti della realtà dietro alla cataratta che gli appanna le orbite.
«In gita scolastica. A vedere le chiese.»
«Giusto, ci sono i mosaici e la tomba di Dante. L’hai studiato a scuola, con Giulia. Mi ricordo che le chiedevano dell’inferno e del purgatorio. Il paradiso, mi ha detto, si fa per ultimo. Se lo dimenticano.»
La faccia gli si accartoccia e la luce non arriva al fondo delle rughe, che restano buie, cicatrici degli anni passati a sentirsi raccontare la vita dalla nipote e dai figli e dai passanti, a fare il suo nella fabbrica in cui l’ha mandato lo Stato, a godersi una settimana in riviera con la moglie. Nelle scuole insegnano che si deve patire o aspettare, riservando alla pacificazione dell’anima e dei sensi due lezioni da un’ora ciascuna: Dante rivede Beatrice, illustre amata morta, e la rosa dei santi lo sbeffeggia di perfezione, ricordandogli la sua umanità adunca, sottomessa all’esilio e agli stenti di un’epoca bastarda. È sempre la stessa storia. Adesso, Manuel sente che gli dispiace. Per Dante e per il vecchio. Vorrebbe tendergli la mano, comportarsi da figlio o da nipote, non da comparsa nella sua vita, estesa più di quanto avrebbe potuto prevedere il giorno in cui il suocero l’ha minacciato con la padella e lui aveva deciso di sposare l’Agnese.
«Possiamo tornarci. Non oggi, un altro giorno.»
Ma l’altro sembra aver smesso di ascoltarlo, si perde a guardare una chiazza che arde sul tavolino, proiezione del sole che aspetta di trovare all’arrivo: un’immensa bolla bianca di calore che passi sotto il velo dell’artrosi e benedica le ossa.
«Non me lo ricordavo così lungo, il viaggio.»
Il ragazzo forza la conversazione, ora che la reciproca solitudine è netta. Ma il vecchio pare bastarsi, c’è tutto fuori da quel vetro, i luoghi ripetuti in andata e ritorno ogni estate, con o senza la moglie, con o senza i bambini, le spalle rivolte al futuro e gli occhi socchiusi, a riempirsi di luce dietro cui dormire. Le sue palpebre cadono. Tremano, come smosse da un sogno, da un disturbo che non riesce a reprimere, e la voce è asciutta, essenziale nella sua disperata cortesia. «Per favore, chiama l’infermiere.»
Metastasi ossea da neoplasia al polmone, principio di demenza senile, malfunzionamento tiroideo: la cartella clinica appesa ai piedi del vecchio lo trascina verso l’epilogo. Manuel è lì per assicurarsi che non lo colga proprio il mattino in cui nessuno dei familiari è riuscito a liberarsi per il turno di veglia. Forse avrebbe dovuto cercare il pettine e dargli una sistemata, il vecchio non vorrebbe morire coi capelli dritti e il dolore che gli frantuma il volto. Masse venefiche gli formicolano lungo le tibie e la colonna vertebrale, non cammina più, è impossibile spostarlo, riesce appena a muovere le braccia. Una presa più salda di una carezza potrebbe spezzarlo.
Manuel rimane impotente davanti all’infermiera che ha richiamato con un trillo del campanello di emergenza. Armeggia con aghi e sacche semitrasparenti, con una specie di molletta che morde l’indice del malato.
«Stava finendo la morfina. Il dosaggio è ancora basso, per questi giorni. Appena scendono le percentuali nel sangue, il dolore peggiora.»
Gli spiega, trovandolo ad annuire, ventenne costretto ad assistere all’agonia, a sostenere la fantasia del viaggio immaginario e di quello ricordato quando vorrebbe scappare nella sua stanza a fingere di studiare letteratura latina sotto l’alito di un ventilatore economico.
«Mi chiami, se dovesse avere bisogno.»
Almeno è stata gentile. In quel reparto vedono gente arrivare e andarsene tutti i giorni. Sono abituati al lutto, alle terapie palliative, alle ultime parole. Lui non lo è. Siede accanto al vecchio e si domanda se dirà altro, se emergerà ancora una parola dal fondo dell’oceano oppiaceo a cui sta tornando.
Il cellulare è muto, i social riportano istantanee di vacanze in cordata su pareti verticali o corse in spiaggia. Qualcuno si dispera per una valigia che non si chiude, troppo pesante da trascinare nelle salite di una città straniera. Lo spegne. Scopre di non aver voglia di invidiare chi è partito né di progettare il momento in cui sarà lui a farlo. Con o senza Giulia. Il suo tempo si racchiude in quella stanza di ospedale, versando il suo silenzio nel respiro ostinato dell’altro.
«Ancora non ci siamo? Il viaggio non me lo ricordavo mica così.»
Lo spezza con un colpo di tosse che gli accartoccia la faccia. Deve cominciare a fargli male anche quella. Sotto le guance che cadono, la bocca che pende.
«Così come?»
«Lungo. E comodo, sai? Quando sono andato a Rimini la prima volta…»
Ricomincia. Riavvolge la storia, stesse frasi, stessi aggettivi. Manuel è contento. Finché parla, va tutto bene.
«E com’è finita con tuo suocero? Avete fatto pace?»
«Non tanto, sai. Era uno difficile, geloso. La figlia era roba sua. Ma ha visto che l’ho trattata bene e non le ho fatto mancare niente. L’Agnese era felice. Pensa, quel vestito giallo…»
Ingoia un fiotto d’aria. Anche lui deve trovarla sintetica, fredda, sgradevole.
«L’ha comprato quand’è partita, a Bologna. Si è fermata per cambiare treno ed è andata in centro a cercare qualche cosa di bello da mettersi per quando arrivavo, due mesi dopo. Non vedeva l’ora di mostrarmelo. Lei era così. E pensa che in città si è pure persa, perché non la conosceva.»
«Non ha avuto paura?»
«No. Tua madre non aveva paura di niente.»
Torna a confonderlo. Per qualche minuto farfuglia incerto: ricorda di aver messo il biglietto nella tasca, tenta di cercarselo nelle tasche del pigiama. Non lo trova e inizia ad agitarsi. Manuel apre il portafogli e gli dà un biglietto dell’autobus. Lo conserva da due anni, da quando lui e Giulia avevano saltato la scuola. Sbiadito, illeggibile, al vecchio basta sentirlo tra le dita e torna a sentirsi al sicuro. Il sollievo lo sgonfia sotto le lenzuola.
«Puoi tenerlo tu. Così se arriva il controllore siamo a posto.»
Manuel annuisce.
«Grazie. La gente non si fida tanto di me, sai, con la storia dell’età e della demenza. Sbagliano.»
«Infatti.»
«Io l’ho imparato dall’Agnese a essere organizzato, a fare bene i bagagli, a non perdere i biglietti e a non aver paura di niente. Anche adesso, che sto qua e tra poco muoio.»
«Non è vero.»
«Non prendermi per scemo.»
Si chiude nel suo mutismo, stavolta offeso, una barriera davanti a cui il ragazzo si sente incapace, immobile, divorato da un’inettitudine pruriginosa colpa di un’età inferiore, scarsa esperienza e pochi chilometri descritti verso un orizzonte che il vecchio, nonostante tutto, ha tenuto a fuoco.
C’è il baluginare verde di un giardino racchiuso in contorni di cemento e auto a consolargli gli occhi socchiusi. Spera ci veda Lugo, Ravenna, Cattolica, le borse del mare e le camicie da indossare a cena. Che il sole lo tenga sveglio e non lo addormenti per sempre.
Manuel cerca la stessa strada, senza destinazione, rinunciando a controllare il tempo che passa. Giulia non arriva e non se ne accorge. Neanche della fame, che è passata e non fa più male.
Il vecchio torna da lui con un grumo di voce assonnata, stiracchia le labbra e allude a un sorriso. Non è ora. Manca poco, decide.
«Mezz’ora, e siamo arrivati.»
Un ringraziamento speciale a Tommaso Contò, editor di questo racconto.
Immagine generata con AI generativa di Adobe Photoshop
“Dipinto impressionista che ritrae una donna vestita di giallo in una stazione degli anni 50 che aspetta sul bordo di un binario”