Novella notturna
I trent’anni sono un crocevia di strade che ti si stagliano sul cammino nel mezzo di un ciclone che avevi visto da lontano. Barcolli verso il centro dell’incrocio, tentenni. La segnaletica è illeggibile, i cartelli stampati in un alfabeto sconosciuto.
Una cosa l’abbiamo imparata, forse l’unica: non c’è tempo da perdere. Non lo ammazzi più il tempo, adesso lo insegui. Gli stai alle calcagna, casomai si lasciasse dietro qualche briciola da raccogliere. Lo fai diventare denso, rappreso, lo carichi di contenuti. Spacchetti con dedizione maniacale ore e minuti su Google Calendar. Il tempo astratto così com’è, le caselle vuote, fanno paura.
Siamo più o meno equidistanti da questo punto di smistamento, io e i miei amici, sparpagliati in prossimità dei trent’anni, quando decidiamo di imbarcarci in un’operazione memory lane. Se ne parla al compleanno di Jacopo, una delle poche occasioni in cui nessuno manca all’appello. La prendiamo di petto, sembra già una scommessa, se tu ci stai io ci sto. Capisco che per tutti si tratta di un gioco, un salto nel passato, una cosa innocente. Lo stesso non si può dire di me: senza legami sentimentali o residenza fissa, nessun contratto di lavoro che ufficializzi l’arrabattarsi tra un progetto e l’altro e più che mai affamata di riconoscimenti che non so nemmeno io da cosa debbano derivare.
Comunque non mi sottraggo, anzi, caldeggio fin dall’inizio la scelta della destinazione di quella vacanza che dopo quasi un decennio ci riunirà sotto lo stesso tetto: la mansarda di un palazzetto a tre piani a Firenze, casa mia in effetti dove ho intrapreso tre anni di vita da studente con la gaia incoscienza di chi dagli errori non trae alcuna morale.
Quando arriviamo a Santa Maria Novella è già sera, dalla stazione percorriamo il centro fino a piazza Santa Croce. La città era piccola allora, è minuscola adesso che il mio orizzonte si è allargato. I nostri cinque trolley sobbalzano e rullano sulle pietre delle viuzze dal Duomo a via dei Pepi. Dieci minuti e ci siamo! Mi giro a rassicurare i miei ospiti, subendo la pressione di chi aveva proposto un taxi.
Persino le scale del palazzo si sono rimpicciolite, sembrano strizzate in verticale, le valigie sbatacchiano sui gradini ripidi e contro i muri del corridoio angusto mentre ci arrampichiamo al terzo piano.
La casa però è grande come la ricordavo: come mai più è stata grande una casa dove ho abitato. Guardo il pavimento e apprezzo la forma di alcune macchie di vino sul parquet bianco, opere mie che trovo meno deturpanti delle decorazioni di edera finta comparse sulla balaustra del soppalco, montate evidentemente dagli inquilini che mi hanno succeduta.
Forse, se la casa potesse commentare la nostra di metamorfosi, dei suoi ex abitanti e visitatori, sarebbe ugualmente commossa, delusa, sconcertata.
Alle dieci di sera abbiamo già fatto il tour di ogni spot da aperitivo di allora, almeno di quelli più a fuoco nei nostri ricordi non troppo nitidi per via delle sbornie agguerrite che ci somministravamo, votati allo sfascio come a una capricciosa divinità pagana dal giovedì alla domenica. Santo Spirito, Sant’Ambrogio. Non abbiamo il fegato – letteralmente – per spararci anche piazza Savonarola: i drink della Rosy li vomitavamo già allora, e la maggior parte di noi gli squat non li fa neanche in palestra, figuriamoci tenere la posizione per una lunga pisciata dietro una macchina.
Niente cena, siamo tutti alticci, tranne Anna incinta che è qui in veste di balia. Rinuncia ai consueti quattro giri di americano ed è pure felice, ah la maternità!
Quando finiscono anche le sigarette sento il dovere di provvedere ai vizi dei miei ospiti, infilo gli stivali UGG che ho ritrovato nel sottoscala (sono talmente vecchia che sono tornati di moda), e scendo in cerca di distributori automatici.
Ciò che temevo si è verificato, è per questo che mi accanisco sul mio fisico intossicandolo, oltre che per onorare le tradizioni andate. Appena ci siamo avvinazzati a dovere è cominciato lo shit show. Ognuno ha affilato la sua selezione di domande fintamente benevolenti, farcite di invidia o di malcelato disprezzo. Puntualizzazioni sul lavoro, sentenze mascherate da consigli.
Ci casca persino Giulia quando mi chiede con nonchalance: «Ho visto quel tuo racconto pubblicato su… Che cos’è, un blog?». Non mi scompongo, anche io mi aspettavo di più da me stessa.
Come siamo amabili, che bell’arietta da ragionieri. Tutti con in mano il bilancio e le somme le tiriamo sempre usando il prossimo come parametro negativo. Sembriamo tormentati da un riflusso gastrico che filtra dalle pareti della casa che ci ha visto spensierati, un rigurgito opprimente di insoddisfazione e accidia.
Non si può più stare insieme e basta.
Fuori ho acquistato anche un grammo di fumo, probabilmente non di alta gamma, da uno spacciatore che passava davanti alla basilica. Ai tempi io e Anna riuscivamo a negoziare qualsiasi prezzo di richiesta, ora ho acchiappato il sassolino marrone con una mano mentre con l’altra gli mollavo il totale senza troppe storie. Potrebbe anche essere origano.
I miei passi rimbombano nella piazza deserta e mi convinco che abbiamo sbagliato, l’idea di rivivere una città con un corpo diverso, una testa cambiata, è assurda.
Dopo le prime due boccate di fumo ho meno voglia di autocommiserarmi e nessuna intenzione di tornare in casa. Mi siedo su una panchina di marmo davanti alla chiesa sotto la statua di Dante.
Il giovedì facevamo serata, si tornava sempre tutti a dormire da me e non mancava mai qualcuno che biascicando se la prendeva col sommo poeta, Cesso o Tiratela meno.
Il Pazzi lo aveva scolpito così, le sopracciglia aggrottate in un cipiglio di costante biasimo, la posa indagatoria e sprezzante, propria di uno con una spocchia tale da pretendere di illustrare tutto il creato in un’opera.
Risputo il fumo a mento alto. «Ancora tu». La mia voce è già rauca, e si spegne nella notte umida di freddo.
«Anch’io mi ero perso». Una voce dall’alto.
Scatto in piedi e nascondo la canna dietro la schiena. Mi giro. Un taxi attraversa il lato opposto della piazza. File di piccioni addormentati sui davanzali dei palazzi. Sono sola. Un barbone è coricato sotto la pensilina dello sportello di una banca, e forse… Ma no, sono sola.
Mi rigiro verso la statua. Controllo che nessuno sia nascosto sul piedistallo, vicino ai leoni che ne circondano la base.
«E intrapreso il cammino volevo ritrovarmi, riportare l’umanità intera sulla retta via, espiando i peccati e mostrando le ricompense che spettano ai meritevoli».
Dante ha parlato.
Le ginocchia vacillano, mi risiedo sul marmo e mi stropiccio gli occhi arrossati. Devo andare a casa, è evidente.
Ma poi ho un moto d’orgoglio, non ho patito cinque anni di liceo classico per farmi prendere in giro da un nottambulo ubriaco.
Lo dico a occhi bassi, non so dove guardare. «Saresti Dante, tu? Così ti esprimi? Senti, non ho più contanti e non mi serve altro fumo».
«Ohi ohi, non son mica grullo sai? In centocinquantasett’anni di statuaria presenza l’ho bell’e imparato anche il volgare d’oggi giorno».
Mi metto comoda sulla panca di marmo, getto il mozzicone e lo pesto con lo stivale. Alla fine mi sa che non è origano.
Come rispondere a un’allucinazione uditiva? Prima provo con la mia voce interiore, invio un pensiero senza parlare: nulla.
Allora parlo davvero.
«Di me non si può dire che mi sia persa. Per perdersi ci vuole una direzione. E io non sono diretta da nessuna parte. Brancolo, punto. La via non si smarrisce se non si conosce la meta».
Sto dando del tu a Dante? Perché no, con le creature di fantasia si può anche strafare, la confidenza non è mai troppa.
Mi guardo di nuovo intorno prima di continuare. Una parte di me è comunque molto vigile nel riconoscere che sono le due di notte, sono in una piazza vuota e sto parlando da sola.
«Non c’è un sentiero, capisci? E mica sono speciale, anzi, mal comune mezzo gaudio. Viviamo un tempo che non è lineare. Sparite le scale della trascendenza, l’inferno è tappezzato di ciarpame il quale attutisce la caduta, si scivola sul morbido e si convive volentieri con l’abisso. Hanno scoperto l’America e la ricerca della felicità, ora bisogna inventarsi degli obiettivi, quantomeno dei “sogni” da consumare a breve termine, uno al giorno come le mutande, questione di igiene».
Scommetto che non gli capita spesso un dialogo di questa portata, all’Alighiero qui.
«Sì, io osservo, e quel che vedo assai mi turba». Guardo la statua senza capire da dove emetta le parole.
«Ma, fanciulla, tu segui la tua vocazione».
Sbuffo.
«Vedi, sommo poeta, anche tu mi parli di vocazione, di un concetto utilitaristico della mia persona, bisogna tendere a qualcosa, giusto? Non si può mica solo essere. Tocca produrre programmare progettare procreare. E così anche la tua emerita logistica dell’anima mi ammicca al paradiso di Amazon».
«No, tu stravolgi il mio eloquio. Io intendo… Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza».
«Ti piace vincere facile, a citare il tuo Ulisse siamo capaci tutti».
«… Stay hungry, stay foolish?».
«Come no. E io sto parlando da sola. Andiamo a letto Dante».
Torno sulla panca e mi sdraio sul marmo gelato a guardare le stelle.
*
La mattina seguente a casa siamo storditi forte, ma più indulgenti gli uni con gli altri. Ci si offre per rifare il caffè, ci si chiede a vicenda come abbiamo dormito e si ascolta la rassegna di sogni etilici e sconclusionati che ognuno dice di aver fatto.
Vorremmo tutti archiviare il sapore amaro delle conversazioni di ieri, come fosse il conato di una delle nottate dionisiache alle quali siamo così avvezzi. A salvarci è l’affetto, zattera piena di falle, sta a galla per miracolo sulla marea di vita che ormai ci divide.
Io sto meglio, ho ridimensionato lo slancio romantico con cui ero partita. Basta una passeggiata per le vie amiche di questa città che mi conosce, una boccata della sua bellezza solida e onesta.
In Piazza della Signoria approfitto di un momento di confusione per voltarmi verso la statua del David. Mai, in tre anni di soggiorno fiorentino, ho negato uno sguardo a questo esemplare di michelangiolesca virilità. Lascio che gli altri mi superino e mi arresto davanti a Palazzo Vecchio, di fianco a un ragazzo asiatico la cui Leica è anch’essa puntata verso l’idolo rinascimentale. Mi schiarisco la voce.
«Ciao. Sono tornata».. Non ho il coraggio di parlare più forte, né di dire altro. David non gira nemmeno le pupille, il pomo d’Adamo rimane immobile sul collo marmoreo.
Per la serata ho riesumato dei vecchi contatti, un ragazzo e una ragazza che frequentavo da amici e che sono diventati una coppia.
Sono amabili, ma la loro ingenuità adesso è scritta sulle fronti dei miei amici, lisce di indifferenza. Non fanno alcuno sforzo per legare e lasciano che ogni argomento si spenga da sé.
In parte li capisco. Anche la mia vena snob inizia a pulsare quando i due attaccano a parlare de “l’estero” come una landa omogenea in cui deambulano senza coordinate precise “gli stranieri”: ex compagni di Erasmus austriaci e spagnoli, l’autista di tuk tuk che li scarrozzava ad Hanoi, e la tata moldava della loro nipotina, tutti nello stesso calderone. Per loro “L’estero” è anche quel posto senza indirizzo dove le cose funzionano, mica come in Italia. Una specie di Svizzera metafisica.
Avverto il peso specifico della mia partenza. Loro non lo sanno: il vero esilio è questo mio ritorno.
La sera siamo di nuovo alticci, anche se meno ubriachi di ieri. Ci diamo un tono, scegliamo bottiglie di qualità, con il nostro nuovo budget di trentenni il mal di testa sarà meno insidioso domani, in più abbiamo la fortuna di avere con noi Marco che è sommelier. La sua erudizione giustifica lo sboccio dell’ennesima “bolla”. Si è addirittura portato un paio di bottiglie, in caso Firenze fosse diventata nell’ultima decade il centro di smercio di bevande radioattive, e ora è qui che ci illustra la genealogia dei vignaioli di Franciacorta senza tralasciare nemmeno il più trapassato dei latifondisti bresciani. È avvincente, tanto che Anna si addormenta sullo scalino dove era appollaiata, con la guancia in mano e il gomito poggiato sul pancione.
Quando mi alzo per prendere il cappotto Giulia mi lancia un’occhiata disperata.
Due passi attraverso la piazza semideserta e sono da lui.
«Mi annoio Dante».
Affondo le mani nelle tasche e do un calcio ad una lattina di Shweppes.
«Tu divaghi, trascuri il tuo intento».
Oggi è severo. Chino gli occhi e mi siedo sulla panchina. Inutile girarci intorno.
«Sì, non riesco più a scrivere. Non si può scrivere per scrivere, non ho un messaggio. Nemmeno un committente a cui vendere la mia anima».
«Ma tu osservi, la chiave è nella forma del tuo vedere».
«Questo non è ciò che predicavi tu, scriba dei. Eri poeta messaggero, il tuo viaggio nelle tenebre non fu un esercizio di stile, ma una freccia verso la salvezza civile e morale. Io racconto di cose mai successe e personaggi inverosimili. Sono un’impostora».
Una lacrima mi si fredda sulla pelle e va a morire nella sciarpa. Mi scoccia piangermi addosso, ma è questa città che mi digerisce in un pozzo di bile e lì, male assimilate, impossibili da smaltire, ci sono le scorie delle speranze andate.
«Comunque la Commedia me la ricordo a spezzoni. L’inferno più che altro, il Paradiso una lagna mortale. Il professor Vulcano, di nome e di fatto, recitava le tue terzine, alcune a memoria, con tanto di cambi di voci per interpretare i diversi personaggi».
«E ‘l Vulcano t’avrà pur detto del mio disagio, del mio smarrimento. Di come ero disorientato. Aggrappato prima alla pagana tunica di Virgilio, poi alle sante gonnelle di Beatrice. Mica l’ero tanto gagliardo».
«Ogni tanto svenivi pure. Sì, ti trovavo piagnucoloso. Ma l’intento ti trasportava sempre al girone successivo, e fino all’alto dei cieli. Conoscevi le coordinate di ogni peccatore. Io non ho nemmeno le mie. Con chi dovrei percorrere il cammino? E verso cosa? Non è cool avere una meta, lo spettro oppiaceo di Kerouac è più che mai di moda: “Dove andiamo? Non lo so, ma dobbiamo andare”».
Non risponde, allora continuo.
«Il pianeta moribondo si contorce tra gli spasmi del morbo che noi abbiamo causato. Popoli in guerra per religione e petrolio, mutilati dalle disuguaglianze sociali. L’arte fine a sé stessa è disdicevole, inventare è da sfigati».
«Bellina, a parte che se aspettiamo che ci si finisca di trucidare a vicenda e non si scrive più nemmen la lista della spesa, ma poi – insomma – la vogliate smetter di cercare l’utile dappertutto? Ohi Ohi come sei borghese anche tu».
Non gli dico che sull’impronta della sua opera è stato scritto un manuale aziendale e che ha avuto anche un discreto successo.
Mi incammino nel vicolo di casa sotto un cielo di poche stelle.
*
Ci alziamo tardi. Giulia fa irruzione in cucina con la faccia risucchiata nello smartphone e capisco subito che è successo qualcosa. Iacopo ancora sonnecchia sul divano, nonostante ciò lei legge ad alta voce.
L’avanzata di Putin sembra non incontrare ostacoli e mangiucchia con gusto la coperta di Linus che teneva al caldo le nostre illusioni. Il fuoco rosso e il fumo nero degli attacchi sconvolgono il cielo ucraino e macchiano di paura le certezze di un futuro sicuro, a volte complicato, ingiusto per alcuni, ma comunque protetto dai confini del rigoglioso giardino di privilegio occidentale. Ora lo vediamo per quello che è: un cortile senza muri, qualcosa da difendere. Non c’è merito per esserci nati, il nazionalismo è cosa da bisnonni, eppure sentiamo che la democrazia, la libertà di espressione, la pace, sono cose che ci spettano.
Ora la parola “guerra” si gonfia di significato, dei particolari tangibili di cui l’avevamo svuotata relegandola a distanze troppo remote per intaccare il nostro sistema di pensiero. Ma anche alla luce di vere bombe, di vittime con nome e cognome, ci ostiniamo a pronunciarla con un tono ora pieno di sarcasmo facendola suonare come un’iperbole.
Ci guardiamo scuotendo la testa, qualcuno dice «Adesso pure LA GUERRA ci tocca». Ma lo dice come parlando dell’apocalisse, di un meteorite, di un’invasione di alieni o di fenomeni ai quali si può credere solo con un discreto lavoro di fantasia.
Credo che nulla, in questi due giorni, ci abbia unito così tanto quanto l’insidia di questo conflitto. L’insidia e poi il dilemma che, puntuale, ha bussato alla porta. Continuare a gozzovigliare, come se niente fosse – no, come se niente fosse è impossibile, sarebbe mostruoso – coscienti di un’ignavia congenita e non troppo colpevole? Sì, perché se non apportiamo un contributo concreto, se non trasformiamo in azioni la nostra pena, allora questo sguazzare tra notizie e titoli grondanti di pathos è mera ipocrisia. Oppure? Possiamo dare un senso al weekend già sciupato, cercare di partecipare.
I siti che elencano le iniziative di beneficienza già non si contano, fioccano gli indirizzi dei punti di raccolta per donare cibo e vestiti. Da minerali sterili, incapaci di uscire dal proprio ego, quali eravamo poco fa, ci siamo compattati in un atomo di inquietudine.
In salotto ci disponiamo appoggiandoci a casaccio sulle superfici disponibili, chini sui telefoni. Matteo legge le notizie sulla resistenza ucraina. La voce non è quella da sommelier, gli si spezza a metà, rinuncia. E quel pancione, il ventre di Anna. Come un universo, una bolla di futuro indefinito e ora importantissimo, su cui tutti vorremmo accoccolarci a sentire il respiro del mondo che torna sereno.
A pranzo Giulia si tortura le pellicine delle dita, Matteo taglia lentamente lo spezzatino di cinghiale. Lo fa con gesti precisi e dignitosi, che accompagna a un insolito silenzio. Oggi cerchiamo nel cibo solo il nutrimento. Il piacere, al cui culto era stata dedicata la vacanza, è rimpiazzato da un sobrio appetito.
Mangiamo. È solo la prima delle azioni che compiremo mentre. Mentre lì un serpentone di automobili e camion è in coda per scappare, mentre si abbandonano case, figli e mariti. Mentre lì.
Ma lì non è qui e l’inflazione mediatica fa presto, anzi prestissimo ad annacquare la solidarietà: ogni nuova catastrofe fa scadere la precedente, ciò che è rilevante oggi sarà trascurabile domani, relegato ai margini di nuovi sistemi di relatività.
Optiamo per una passeggiata digerente finendo per sparpagliarci senza proposito in un vicolo che sfocia nel cortile delle Murate, un complesso di ex carceri ristrutturato e adibito a centro culturale.
Raggiunta l’Esselunga più vicina a noi compriamo scatolame, pasta, prodotti per igiene personale, e altri beni di prima necessità: abbiamo fatto qualcosa.
Più tardi due giri di Valpolicella sciacquano via l’imbarazzo e inauguriamo il dibattito. Nessuno di noi rappresenta l’opposizione, la dialettica è unilaterale perciò è incorretto chiamarlo dibattito. Per lo più si ipotizzano scenari bellici e si azzardano profezie geopolitiche. Chi se la prende con la Cina. Qualcuno menziona gli schieramenti della guerra fredda, debole referenza di un passato sovietico che conosciamo per sentito dire.
Ho un’intuizione scabrosa: c’è qualcosa di accogliente in questo recente stato di allarme. Il clima d’emergenza è un deja vu di altro, sì ma di che cosa? Ci arrivo per tappe, e me ne convinco quando Jacopo tira in ballo il sentimento di totale irrilevanza che oggi, alla luce dei fatti, ha cancellato il lavoro, i progetti personali, tutto ciò che ci proietta nel futuro. Bingo: sì, stiamo ricadendo nella smania apocalittica di inizio pandemia.
Solo il fattore di eccezionalità sembra indebolito. Che il cervello abbia implementato la capacità di reazione, che abbia fabbricato una marcia apposita, una leva da tirare in caso di minaccia all’orizzonte? Mi fa un po’ orrore, ma è inevitabile. Ed è possibile che, dopo un primo test di rodaggio, la seconda volta si provi meno disagio nel cataclisma ricorrente, che si diventi più agili nell’innestare la modalità emergenza? Il cervello è un muscolo che usa le trame della vita come circuiti di allenamento.
Mi voglio sbilanciare: non è che qualcuno non vede l’ora di tornare nel bozzolo dell’incertezza, dove magari aveva trovato la sua dimensione, lì, a sguazzare nel limbo del carpe diem? Qual è la prossima bandiera che ci appiccicheremo addosso ostentando indignazione, lo stendardo da agitare impunemente tra le nostre mani lavate?
Districarmi dagli altri non è stato ovvio stavolta e arrivo da lui a che è notte fonda.
«Vedi?», urlo.
Il mio grido sguaiato rimbalza sulla facciata della basilica, non mi vergogno più della mia solitudine.
«E ora? In cosa crederesti tu?». Nessuna risposta.
Comincio a pensare che stasera non mi parlerà. Ammesso che l’abbia mai fatto davvero.
La piazza è così vuota che mi sento respirare.
«La guerra, quella c’è sempre stata, si combatteva per i confini dell’Impero Romano, e si combatte adesso. L’uomo ama il potere, e il potere perpetua il dolore. La scienza, invece, è la perfezione estrema dell’anima. Certo di tempo n‘è passato, io son rimasto alla dottrina di Aristotele…»
«Sì, appunto. Quella non serve più neanche all’oroscopo».
«Sicché forse… la via è quella del menage à trois: scienza, letteratura, filosofia».
Alzo lo sguardo, disposta a mitigare la rabbia pur di alimentare ancora la conversazione.
«Tipo… Il sistema periodico, di Primo Levi?»
Cito gli unici elementi chimici che abbia mai compreso.
Il dialogo si infila in anse inaspettate, esploriamo il rapporto tra ieri e oggi, ci lasciamo tentare da quesiti immortali. Ritrovo la calma nelle dissertazioni filosofiche di un blocco di pietra a forma di uomo.
Poco importa che ad ascoltarmi sia un defunto poeta, un fantasma incastrato nel marmo, o un frammento di spirito del Benigni che in questa piazza ha recitato la Commedia («Ah, bel malandrino quel Roberto, tutto io gli suggerii da qui dietro, era bono soltanto a scimmiottar gli accenti»).
Parliamo di tutto. Tento anche, invano, di spiegargli cosa sia un influencer. Alla fine conveniamo che con il purgatorio si è sempre connessi e che l’inferno non è mai obsoleto perché i gironi ad aggiornarsi con infrastrutture moderne. Del paradiso non parliamo, non ne ho la fantasia.
A tratti sembra invece che sia la città stessa a parlarmi. Come se durante il giorno i miei pensieri fossero rimasti a macerare nell’Arno e qualcuno ne avesse raffinato un siero sublime, infuso nelle pietre delle strade e dei palazzi e poi emanato solo per me, di notte.
Finché il sonno non arriva a confondermi le parole e, con l’esilio mai sopito nel cuore, contempliamo Firenze, io e Dante.
Qualcuno alza la saracinesca di un bar. Sui palazzi che circondano la piazza alcune finestre azzardano una luce fioca.
Arriva l’alba a struccare il cielo e a cancellare le ultime stelle.
Immagine generata con AI generativa di Adobe Photoshop
“Di notte una ragazza è seduta da sola sotto la statua di Dante in una piazza deserta. Dipinto ad olio impressionista”